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Il vino perfetto......matematico?

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Come sappiamo le origini del vino e della matematica sono antichissime e parrebbero andare quasi di pari passo!
Talmente tanto antiche da affondare nella leggenda. 
Alcune di esse fanno risalire l'origine della vite sino ad Adamo ed Eva, affermando che il frutto proibito del Paradiso terrestre fosse la succulenta uva e non l'anonima mela. 
Altre raccontano di Noè che, avendo inventato il vino, pensò bene di salvare la vite dal diluvio universale riservandole un posto sicuro nella sua Arca.
Altrettanto si può dire della matematica, nata con l’umanità, per risolvere interrogativi e problemi legati alla necessità di ordinare oggetti e memorizzare quantità. 
Alcune civiltà primitive conoscevano soltanto la distinzione fra uno, due e molti; altre giunsero a riconoscere i numeri come concetti astratti e a introdurre dei simboli per identificarli.



"Bacco" di Caravaggio (1571-1610) - Galleria degli Uffizi

Venendo a tempi più recenti, si hanno testimonianze che la vite, come la matematica, sia originaria dell'India, e che da qui, nel terzo millennio a.C., si siano diffuse prima in Asia e in seguito nel bacino del Mediterraneo.
Alcuni geroglifici egiziani risalenti al 2500 a.C. descrivono già vari tipi di vino. Nell'antico Egitto, la pratica della vinificazione era talmente consolidata che nel corredo funebre del re Tutankamon (1339 a.C.) erano incluse delle anfore contenenti vino con riportata la zona di provenienza, l'annata e il produttore (delle DOC ante litteram!) e qualcuna conteneva del vino invecchiato da parecchi anni. 
Dall'Egitto la pratica della vinificazione si diffuse presso gli Ebrei, gli Arabi e i Greci. Questi dedicarono al vino una divinità: Dioniso il Dio della convivialità (Bacco per i Romani).
E tra il 2000 e il 1000 a.C. in Egitto, Mesopotamia, India e Cina venivano utilizzate le quattro operazioni e si sapeva calcolare l’area di quasi tutte le figure piane: i problemi geometrici e aritmetici affrontati erano di ordine pratico, legati alle necessità della vita quotidiana.
L’approccio empirico della matematica egiziana e babilonese, fondato su osservazioni ripetute da cui venivano ricavate regole matematiche per scopi pratici, venne poi superato dai Greci, che sviluppano un approccio alla matematica basato sull’astrazione (si ricavano concetti generali traendoli dall’osservazione di fenomeni particolari) e sulla deduzione (da determinate premesse generali vengono ricavate conclusioni logicamente necessarie).





E mi direte "perché questa introduzione in parallelo tra viticoltura e matematica?"
Non proseguo qui ad analizzare la storia dell'origine del Vino e quella della Matematica ma ho solo voluto, in questo modo, legarmi alla recente viticoltura che sembrerebbe ormai destinata sempre più a servirsi della Matematica (o più specificatamente della Ricerca Operativa) per ottimizzare la produzione del vino e far rendere al meglio tutta la catena di produzione vinicola.
Questa correlazione me l'ha involontariamente "suggerita" un amico (appassionato di vini e di enocultura), il tema della nutrizione legato all'imminente apertura di Expo 2015 a Milano e il tema di questo mese di aprile, dedicato ai "mestieri dei Matematici".

L'amico mi ha mandato un interessante articolo che testimonia come la ricerca e l'applicazione di algoritmi matematici sia fondamentale per ottimizzare questa produzione.
L'imminente EXPO 2015 mi ha ricordato l'apertura, all'interno del Padiglione Italia, del Padiglione del Vinosicuramente tra le eccellenze produttive italiane, nonché le recenti iscrizione dei paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato e della pratica agricola della vite ad alberello di Pantellerianella lista dei Patrimoni UNESCO.
Infine aprile è il mese della consapevolezza matematica che quest'anno è dedicato ai mestieri che si possono fare con la matematica e infatti il tema scelto da Mathematica Awareness Month 2015 ¹ "Math Drives Carriere", con l'obiettivo di aumentare la consapevolezza della vastità delle carriere a disposizione di coloro che studiano le scienze matematiche. 

E' indubbio che le applicazioni della matematica e i "mestieri" che ne possano derivare siano molteplici, soprattutto in questa nostra realtà sempre più tecnologica in cui proprio la matematica crea legami forti tra le altre scienze e il mondo reale. 
Legami che implicano appunto competenze per la gestione, la promozione e lo sviluppo dell’innovazione scientifica e tecnologica.
Tra questi "mestieri" spicca quello di Analista e Progettista di software applicativi e di sistema che, in questo caso, riguarda un software di ottimizzazione di produzione legato alle coltivazioni vinicole.
E ottimizzare significa ottenere la migliore qualità possibile di vino dalla vigna e risparmiare sui costi di vendemmia, di conservazione e di distribuzione.
Per ottenere tutto questo sono nati software specifici tra cui, per esempio, l'australiano VINx2 o quello sviluppato da una società italo-tedesca ALGO-WINE, un software che, grazie appunto agli algoritmi di matematica, statistica ed econometria, permette di "anticipare la curva di maturazione delle uve e di individuare il momento ottimale per la vendemmia".




Immagine da Vinx2

Anche se amante del buon vino non mi ero mai preoccupata di considerare i problemi di gestione di quei viticoltori che, con passione e professionalità, curavano la loro produzione.
Ho scoperto così che spetta al viticoltore e/o all'enologo il compito di assaggiare l'uva giorno dopo giorno, sondarne la consistenza, il colore, lo spessore della buccia e il sapore, oltre a fare frequenti e costose analisi di laboratorio, per capire quando gli zuccheri e gli acidi raggiungono il loro punto di equilibrio, per poter procedere alla vendemmia. 
La Matematica viene in loro aiuto e, mediante complessi algoritmi che processano in pochi secondi migliaia di informazioni sui più diversi parametri tra cui, per esempio, la quantità di luce, il calore, l'altitudine, l'orientamento dei filari al sole, l'acqua e in funzione del tipo di vino da produrre, ha permesso di determinare il momento migliore per la vendemmia.
Questo software, Algo-Wine,  è stato sviluppato in oltre tre anni di ricerca e lavoro dal team di Ors Group in collaborazione con università italiane e americane tra cui la Cornell University, l'Università di Torino - Facoltà di Agraria, l'Istituto Enologico Umberto I di Alba, che alla passione ed esperienza di viticoltori, agronomi ed enologi affianca una gestione scientifica e "digitale" del processo di selezione delle uve, permettendo di ottenere importanti benefici (fino al 30% di risparmi) in fase di vendemmia.

Come dice il Dr. Pierluigi Riva, Chief Technology Officer di Ors Group e responsabile dello sviluppo del software: 

"Ogni azienda vitivinicola potrà disporre di aggiornate stime sullo stadio di maturazione di ogni tipologia di uva, in modo da vendemmiare ciascun filare al momento ottimale ed evitare così, per esempio, che eccessi di raccolto degradino la qualità del vino, oppure che il ritardo nella raccolta vada ad inficiare i parametri chimici necessari per mantenere struttura ed aromi. Ma fare stime corrette è molto complicato, anche perché i parametri variano sensibilmente ogni anno a seconda delle condizioni atmosferiche. La produzione di anno in anno può cambiare anche del 30% e le tempistiche per la vendemmia di 10-15 giorni."

L'applicazione risulterebbe quindi utile anche a supportare ogni fase di lavorazione dell'uva: dalla raccolta alla fermentazione, dalla gestione della cantina alla pressatura. Potrebbe permettere di organizzare con la massima efficienza e di eliminare ogni spreco legato alla gestione dei vigneti, alla lavorazione dell'uva e alla cantina, ottimizzando così l'esito qualitativo del vino.
Come diceva il Dr. Riva, potrebbe succedere, per esempio, di vendemmiare una quantità di grappoli eccessiva e, non avendo sufficiente spazio nelle vasche di decantazione, l'uva dovrebbe aspettare per entrare in lavorazione, con conseguente peggioramento, una volta staccata dalla pianta, della qualità di zuccheri e polifenoli.
E come diceva Goethe, “La vita è troppo breve per bere vini mediocri



Goethe in the Roman Campagna, Johann Heinrich Tischbein, 1787
Städel-Museum Frankfurt a.M.Masthead

Tornando al nostro "mestiere"è evidente che il presente, e certamente il futuro, richiede sempre più la figura di Analista e Progettista di software. 
Per progettare simili applicazioni, ovviamente non solo legate alla produzione del "nettare di Bacco", bisogna avere un bel bagaglio matematico soprattutto improntato alla Ricerca Operativa, alla conoscenza dei linguaggi di programmazione (C, C++, Java, Visual Basic, SQL, MatLab, HTML), a Matematica Finanziaria e Modellistica, Statistica, Analisi Matematica......insomma il mestiere di Analista e Progettista di software applicativi rappresenta un esempio di vero e quanto mai attuale e prezioso "mestiere matematico"!!!!!!

note
¹ I testi inglesi sono stati tradotti in italiano da Elena Toscano


La pasta perfetta......matematica?

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Questo post sulla "pasta matematica" nasce inizialmente da ricordi di famiglia, racconti legati all'attività del nonno, ingegnere "pastaio" agli inizi del '900 a Napoli e alla frequentazione di mio padre, in Germania, di corsi di Ingegneria Mugnaia, a cui si sono aggiunte curiosità storiche e matematiche legate ovviamente sempre alla pasta.


Dal libro "Pasta by Design" di George Legendre 
Riccioli - photo Stefano Grazini 

Non si può negare che nulla identifica di più la cucina italiana come la pasta. 
In Italia infatti la pasta è parte integrante della storia dell'alimentazione, e lo dimostra anche il fatto che ovunque gli italiani siano emigrati, hanno sempre portato con loro la pasta, tanto che oggi può essere considerata un caposaldo della cucina internazionale.
Come ci ricorda anche Expo 2015 e i dati pubblicati in occasione del World Pasta Day del 2012, siamo il Paese che produce più pasta di grano duro al mondo, ben 3.316.728 tonnellate annue, con un consumo pro capite di 26 chili.
Abbiamo addirittura un comune in provincia di Napoli, Gragnano, costruito come un immenso pastificio a cielo aperto, ed è italiana e di Gragnano l’unica pasta a fregiarsi del marchio IGP e che rappresenta il 14% dell’export italiano.
Siamo immersi nella pasta.
A differenza di altri prodotti italiani onnipresenti, come la pizza e la salsa di pomodoro, che hanno una storia abbastanza recente, la pasta può avere un pedigree molto più antico, risalente a centinaia e anzi a migliaia di anni fa. 


Produzione a Gragnano, primi novecento


La stessa etimologia del termine "pasta" deriva probabilmente dal greco "πάστη" che significa “farina mista a liquido”, dal verbo pássein cioè impastare. 
Con grande probabilità anche la pasta come il pane, fu un cibo spontaneo legato alla scoperta e all'uso dei cereali, la cui coltivazione e diffusione avvenne quasi contemporaneamente fra tutti i popoli.
Anche se questo termine comincia ad essere impiegato in Italia a partire dall'anno 1051 circa, le origini della pasta, chiamata con altri nomi, si possono far risalire indietro fin quasi all'età neolitica (circa 8000 a.C.) quando l'uomo cominciò la coltivazione dei cereali che ben presto imparò a macinare, impastare con acqua, cuocere e durante il medioevo italiano seccare al sole per poterli conservare a lungo. 


Leggenda della pasta introdotta da Marco Polo

Comunemente si fa risalire al mercante veneziano Marco Polo l'introduzione¹ della pasta al rientro dai suoi viaggi in Cina (1295), in effetti questa non fu una scoperta ma piuttosto una riscoperta di un prodotto, una volta popolare in Italia tra gli Etruschi e i Romani. 
La pasta infatti ha subito progressivamente nel tempo un'elaborazione in funzione delle necessità e delle abitudini dei popoli.
Una leggenda racconta che la pasta è stata inventata da Hephaestus, Dio greco del fuoco, (Vulcano per i Romani), tuttavia non c'è alcun riscontro nella letteratura classica. 
Proprio l'impossibilità di poter attribuire a qualcuno l'invenzione della pasta, dimostrerebbe indirettamente l'antichità di questo alimento, tanto da fare presupporre che gli etruschi nel IV secolo avanti Cristo già la conoscessero. 


Tomba Bella o dei Rilievi - Cerveteri

Nella tomba della Grotta Bella portata alla luce nella necropoli etrusca di Cerveteri, sono riprodotti in stucco gli strumenti per lavorare la pasta a mano: la tavola spianatoia, il matterello, il sacchetto per spolverare la farina sulla tavola, il mestolino per l'acqua, il coltello per tagliare la sfoglia e la rotella per dare un bordo ondulato al taglio della pasta (Fusco 1989).
Queste testimonianze provenienti dal mondo etrusco, ma mancanti purtroppo di supporto letterario, non ci permettono di riferire con esattezza riguardo all'utilizzo di tali utensili e la tipologia di pasta eventualmente prodotta, anche se si suppone che gli etruschi preparassero e cucinassero qualcosa di simile alle lasagne di farro.


Apicio ritratto da Lister nel 1709

Dubbi permangono anche sulla presenza della pasta, così come la definiamo oggi, nel mondo classico greco-romano, anche se è certo che i romani per primi parlano di lagana. Le lagane romane di cui parlano già Cicerone e Orazio nel I secolo a.C., sicuramente non sono identiche alle lasagne e ai maccheroni che noi conosciamo, ma gli assomigliano e questo lo si evince dal fatto che nel più antico libro di ricette romane, "De re coquinaria" scritto da Marco Gavio Apicio, si parla di lagana come una sfoglia schiacciata di farina utilizzata per racchiudervi timballi e pasticci, ed il fatto che essa non fosse sottoposta a cottura in acqua bollente e che fosse fritta in olio abbondante (Serventi e Sabban 2000), fa sì che non vi sia una significativa corrispondenza con la moderna definizione di pasta.
Altro tipo di pasta sicuramente conosciuto in quel tempo era una sorta di spaghetto allargato chiamato in greco 'laganon', probabilmente simile alla lasagna attuale. Tuttavia anche questo tipo di pasta non veniva cucinato al forno come le lasagne, ma bensì arrostito su delle pietre calde o su forni idonei. Si potrebbe dire che assomigliasse più al piatto che noi oggi chiamiamo pizza.


Antica lavorazione della pasta a Trabia

Se la pasta in forma di sfoglia sul tipo di lasagna deriva dal lagana greco-romana, la pasta secca filiforme dovrebbe provenire dal mondo arabo e si sarebbe poi diffusa in tutto il Mediterraneo partendo dalla Sicilia a seguito dell'invasione degli arabi.
Preziosa è la testimonianza, del XII secolo, del geografo arabo Al-Idris che nella sua opera nota come “il libro di Ruggero” ("Kitab-Rugiar" pubblicato nel 1154) afferma che nella località di Trabìa, zona abitata con case e molti mulini presso Palermo, si producesse un particolare cibo di farina a forma di fili, chiamato in siciliano “itriyah” e pare esistesse un'industria di pasta secca, detta “itrija” (Tria² in arabo).
Queste fonti storiche, che si riferiscono alla produzione della pasta secca, testimoniano l'esistenza di una impresa di tipo industriale e lo stesso Al-Idris,  nei suoi scritti, segnala quest'impianto a Trabia, a circa 30 chilometri da Palermo e scrive: 
"producono pasta a forma di stringhe ("tria"in Arabo) in abbondanza e viene esportata dappertutto, in Calabria ed in molti paesi musulmani e cristiani, anche per mezzo di navi".

Quella zona quindi, assunse notevole importanza quale centro sviluppato di commercio della pasta, spedita, in abbondanti quantità, per via mare in tutto il Mediterraneo sia cristiano che musulmano. 
Ed è proprio attraverso tale testimonianza che viene smentita la leggenda che sia stato Marco Polo nel 1295 al rientro dalla Cina ad aver fatto conoscere all'Occidente la pasta che per altro nulla aveva a che vedere con quella di grano duro da noi comunemente intesa.
Inoltre la prima ricetta documentata sulla pasta viene riportata nel libro “De arte Coquinaria per vermicelli e macaroni siciliani", (l'arte della cottura dei maccheroni e dei vermicelli siciliani) scritto da Martino Corno, cuoco presso il potente patriarca di Aquileia, intorno all'anno 1000.
Nel 1279 un soldato di Genova ha elencato nell'inventario della sua proprietà anche un cestino di pasta secca ('una bariscella plena de macaronis'). Un documento datato 1244 ed un altro del 1316 testimoniano la produzione della pasta secca in Liguria, indicando così che la pasta era ora diventata d'uso su tutta la penisola italiana.
Tra il 1400 e il 1500, la produzione di "fidei" (pasta nel dialetto locale) era diffusa in Liguria, inoltre nel 1546 a Napoli si venne a creare una corporazione degli artigiani della Pasta (tuttavia il più vecchio documento sopravvissuto che si riferisce a questa cooperativa riporta la data del 1571). 
Nel 1574 una cooperativa simile a quella di Napoli fu fondata a Genova e tre anni dopo a Savona fu redatta la "Regolazione dell'Arte dei Maestri Fidelari".
Nel 1584, l'autore Giordano Bruno cita un detto napoletano, “è cascato il maccarone dentro il formaggio".
I vari tipi di pasta, compreso i tubi vuoti lunghi, vengono accennati nelle annotazioni di diversi monasteri Italiani del quindicesimo secolo. 
Entro il diciassettesimo secolo, grazie alla sua praticità e convenienza, la pasta diviene parte della dieta quotidiana degli Italiani.
Nel diciassettesimo secolo, particolarmente a Napoli, l'alto sviluppo della popolazione stava aggravando i problemi di accessibilità agli alimenti, fino a che una piccola rivoluzione tecnologica permise di produrre la pasta ad un costo molto più basso. La pasta si trasformò così nell'alimento della gente. 


Spaghetti messi a seccare nelle strade di Napoli. (Fonte)

La vicinanza di Napoli al mare (come anche per la Liguria e per la Sicilia) facilitava l'essiccamento della pasta, permettendo un esteso tempo di conservazione, e l'importazione di grano duro. Il trasporto via mare inoltre permise di esportare la nuova pasta (secca) in tutta Italia ed nel mediterraneo.

Precedentemente, la pasta era fatta mescolando la farina di semolino con i piedi. II produttore si sedeva su di un banco e usava i suoi piedi per mescolare ed impastare la pasta. Il re di Napoli, Ferdinando II, assunse Cesare Spadaccini, un famoso ingegnere, per migliorare la suddetta procedura. 
Il nuovo sistema consistette nell'aggiungere l'acqua bollente alla farina fresca appena macinata ed il metodo d'impasto con i piedi fu sostituito da una macchina in bronzo che imitava perfettamente il lavoro del piede umano.


Nel 1740, la città di Venezia autorizzò Paolo Adami ad aprire la prima fabbrica di pasta della penisola. Il macchinario utilizzato era abbastanza semplice,e consisteva di una pressa in ferro messa in moto da parecchi ragazzi. 
Nel 1763, il duca di Parma, Don Ferdinando di Borbone, concesse a Stefano Lucciardi di Sarzana il diritto di monopolio per dieci anni sulla produzione della pasta secca – con "stile Genovese" (nella città di Parma).
Nel 1766 il corpo di Santo Stefano fu trovato nei pressi di un'impastatrice e lì venne sepolto. Per questo motivo divenne il santo protettore dei produttori di pasta.


Maccheronaio a Napoli

Goethe nel suo diario, Viaggi in Italia (dal 1787), definisce i maccheroni: 
"pasta delicata, fatta con fine semolino, lavorata duramente, bollita e lavorata in varie forme". 
Inoltre descrive degli episodi di vita napoletana, dando un'idea del lavoro dei maccheronari che erano presenti agli angoli di quasi ogni strada: 
"attivamente fanno i maccheroni grazie alle loro vaschette riempite di olio caldo, particolarmente nei giorni quando bisogna rinunciare a mangiare la carne. Vendono così bene il loro prodotto che molta gente trasporta il loro pasto via in fogli di carta".

Ma torniamo ai ricordi e cerchiamo di spiegare in sintesi cosa facesse mio nonno, Stefano Santi,  prima a Vicenza, poi ad Ascoli Piceno e quindi a Napoli nella sua attività legata appunto alla pasta.
Stiamo parlando degli anni fine ottocento/primi novecento in cui si sviluppava  una vera produzione di tipo industriale della pasta secca prodotta esclusivamente con l'impiego di semola e semolato di frumento duro e acqua.



Industria pastaia primi novecento

Nella metà del diciannovesimo secolo alcuni artigiani della pasta di Amalfi aprirono a Torre Annunziata in Napoli un vero e proprio laboratorio industriale per la produzione di pasta. Si servivano di mulini ad acqua per movimentare la macina in pietra e una volta macinato il semolino veniva separato dalla crusca per mezzo dei setacci a mano.
Nel 1878 fu introdotta una nuova macchina per la pulizia del semolino, inventata a Marsiglia in Francia, che migliorò la qualità del semolino e quindi della pasta. Il cuoio perforato che fino a quel momento era usato sui setacci manuali fu applicato agli agitatori meccanici. La prima pressa idraulica fu costruita nel 1882 ed il primo laminatoio alimentato a vapore fu azionato nel 1884.
Le nuove tecnologie permisero di fare sul disco di bronzo della pressa (dado-stampo) dei fori assolutamente perfetti. L'industria potè così inventare nuove forme che aumentarono l'interesse dei consumatori verso la pasta. 
Già alla fine del diciannovesimo secolo una tipica fabbrica poteva offrire un assortimento dalle 150 alle 200 forme differenti di pasta.


Pressa da pastificio 

L'industria della pasta, tra cui anche i pastifici a cui collaborò come ingegnere mio nonno, si sviluppò velocemente tra la fine del diciannovesimo secolo e l'inizio del ventesimo, grazie anche ad una domanda su scala globale. 
Il rapido sviluppo dell'industria della pasta italiana all'inizio del ventesimo secolo è da collegare anche alla massiccia esportazione, che nel 1913 ha toccato il record di 70.000 tonnellate, per la maggior parte verso gli USA.
Successivamente, i paesi tradizionalmente importatori di pasta cominciarono una produzione domestica che se da un lato ridimensionò l'esportazione italiana dall'altro creò una domanda internazionale dei macchinari necessari per la produzione della pasta “italian style”.
Nel 1917, Fereol Sandragne brevettò il primo sistema di produzione continua della pasta che diede il via, insieme  all'ideazione della prima vera pressa continua, completamente automatica, progettata, costruita e messa in azione da due fratelli di Parma, Mario e Giuseppe Braibanti, alla vera industralizzazione del settore pastaio.


Rivoluzione bolscevica del 1917

Va ricordato però che il frumento preferito dai produttori non era una varietà autoctona, ma la varietà Taganrong e cioè grano duro di alta qualità importato dalla Russia. Il porto di Taganrong, in Russia, infatti era noto per esportare il frumento preferito dai pastifici Liguri e da quelli Napoletani. 
Un vecchio opuscolo di una fabbrica di pasta della Liguria (la cui metà della produzione era dedicata solamente per il mercato di New York) riferiva della "pasta di Taganrong", pasta fatta esclusivamente con il frumento di Taganrong. 
Dal 1917, a causa della rivoluzione Bolscevica, le importazioni di frumento russo si ridussero drasticamente e gli industriali italiani si orientarono, in primo luogo, verso il frumento francese e quello americano.
E proprio queste importazioni furono all'origine della lotta alla pasta che ingaggiò, negli anni'30 Marinetti,³ nel suo "Manifesto della Cucina Futurista", definendo la pasta "assurda religione gastronomica italiana" e sostenendo, insieme a Mussolini, che "l’abolizione della pastasciutta libererà l’Italia dal costoso grano straniero e favorirà l’industria italiana del riso". 


Marinetti e la Cucina Futurista

Oggigiorno la maggior parte del frumento utilizzato dall'industria della pasta italiana è coltivato in Italia, con alcune importazioni dall'Australia.

Dopo questo excursus storico/familiare siamo arrivati ai giorni nostri e al legame che si può trovare, ad essere veramente appassionati e curiosi, tra appunto la pasta e la matematica.
Questo curioso legame prende origine da un libro "Pasta by Design" in cui l'architetto George Legendre utilizza la matematica per dare una visione surreale del variegato mondo della pasta.


Dal libro "Pasta by Design" di George Legendre
Tortellini - photo Stefano Grazini

Sembrerebbe all'apparenza un libro di cucina ma è molto di più e affronta l'argomento della pasta da un punto di vista assolutamente originale, rivelando relazioni inaspettate tra i formati di pasta, il loro uso e le loro proprietà matematiche e geometriche.
In questo libro George L. Legendre ha descritto 92 diversi tipi di pasta, classificandoli per tipologie e 'filogenesi' (lo studio di parentela tra forme naturali) e, dedicando ogni capitolo ad un singolo tipo di pasta, ne ha spiegato l'origine geografica, il processo di produzione e l'etimologia.....insieme ai suggerimenti per una perfetta preparazione.

Tutto ha inizio in una strada tranquilla fuori Bermondsey Street a sud di Londra, dove solitamente George condivide spesso, con il suo amico italiano Marco Guarnieri, il più semplice dei piatti di pasta, gli stupendi spaghetti all'aglio, olio e peperoncino  (ricetta)
Proprio durante una di queste serate nasce l'idea di analizzare l'argomento "pasta" da un diverso angolo, e Marco offre a George l'opportunità di applicare le sue conoscenze matematiche su qualcosa di meno convenzionale; non analisi strutturale o scienza delle costruzioni necessari per costruire un arco o un edificio, ma per descrivere la normale e semplice pasta.





Insieme alle fotografie superbe di Stefano Graziani, il libro mostra la più grande raccolta visiva e dettagliata di formati di pasta mai pubblicato; un trionfo del design, e della matematica legata a un progetto che ha portato anche ad alcune scoperte interessanti. 
Utilizzando le funzioni matematiche, George è stato in grado di scrivere le formule che caratterizzano ciascuna forma di pasta; formule che possono essere immesse in un computer che, elaborando i dati, dà una perfetta rappresentazione della forma di ogni singolo tipo di pasta. 
Ciascuno dei 92 formati di pasta è reso sia con un' equazione matematica che con un diagramma di linea che visualizza ogni peculiarità distintiva, ogni cresta e piega con perfetta precisione.
Legendre ha esaminato e presentato la pasta in una nuova luce e ha creato un libro che induce le persone a riflettere sulla pasta un po' più profondamente del solito. 

Il libro, in inglese, nasce appunto dalla collaborazione tra gli architetti Marco Guarnieri e George Legendre. 
Marco ha fornito l'idea originale e George la sua profonda conoscenza della matematica, il suo rigore e le sue capacità di designer. 
Le fotografie sontuose del fotografo Stefano Graziani e la prefazione di un altro architetto italiano Paola Antonelli,4 Senior Curator del MoMa, Museum of Modern Art di New York, completano il libro.
Qui riporto alcune immagini che testimoniamo l'originalità dell'autore nel suo approccio con la pasta.


Sagne 'ncannulate - photo Stefano Grazini

Agnolotti - photo Stefano Grazini

Pappardelle - photo Stefano Grazini

Saccottini - photo Stefano Grazini

La pasta si può tradurre quindi in un'equazione a seconda della sua forma. 
Questa è stata anche l'intuizione del fisico Sander Huisman che nel suo blog pubblica con successo l'analisi matematica dei formati di pasta. 
Ma l'intreccio tra pasta, matematica e design è confermato anche dal celebre designer Giorgetto Giugiaro che aveva confessato su Repubblica come gli fosse costato più fatica progettare le "Marille" per la Voiello, rispetto a certi tipi di auto.

Le "Marille" di Giugiaro

In conclusione penso sia davvero da ammirare questo curioso e affascinante connubio tra pasta, arte e matematica.



Note

¹ Questa storia è appunto solo una leggenda, nata negli Stati Uniti nel 1938 sul Macaroni Journal (pubblicato da un'associazione di industriali statunitensi e canadesi, con lo scopo di rendere la pasta familiare ai consumatori americani e favorita dai circoli governativi impegnati a sostenere la coltivazione del grano duro, imbastendo attorno ad essa ''simpatiche'' e ''romantiche'' storielle in maniera che la pasta potesse diventare agli occhi dell'americano medio un alimento più ''internazionale'', cercando di allontanarla dal suo contesto naturale, cioè quello dei ghetti italiani e delle ''Little Italy'' sparse per tutti gli Stati Uniti, da dove arrivava, fin dai primi anni dell''800 e che erano fortemente criminalizzate dall'opinione pubblica d'oltreoceano)
La novella raccontava appunto in una sezione fumettistica ed infantile, come il famoso navigante veneziano, nel 1295 dopo essere tornato dalla Cina, avesse portato con sé, un fascio di spaghetti cinesi, che sarebbero stati all'origine della pasta italiana, alla quale poi, seguì nel 1939 (un anno dopo del giornale) un'altrettanto fantasiosa pellicola statunitense chiamata ''The Adventures of Marco Polo'', con Gary Cooper, che favorì il radicarsi nell'opinione pubblica globale di queste menzognere e convinzioni popolari sull'esploratore veneto e sulla pasta. Questa storia in realtà è assolutamente smentita da qualsiasi storico e da tutti gli studiosi.
² Il termine “tria” è usato ancora oggi nel dialetto salentino. “Ciceri e tria” è una buonissima pasta e ceci fatta con una parte della pasta che viene fritta (ricetta)
³ Nel 1930 Filippo Tommaso Marinetti, nel Manifesto della Cucina Futurista, auspica una vera e propria crociata contro gli spaghetti, accusando la pasta di uccidere l'animo nobile dei napoletani. Ne propone addirittura l'abolizione che, a parere suo e di Benito Mussolini ispiratore della polemica, avrebbe liberato l'Italia dal costoso grano straniero e favorito l'industria italiana del riso.
La questione si risolve però rapidamente con un Marinetti immortalato nel ristorante Biffi di Milano nell'atto di mangiare un bel piatto di spaghetti. Immancabile segue una derisione popolare che usa soprattutto questa frase: "Marinetti dice basta! Messa al bando sia la pasta!". Poi si scopre Marinetti che divora gli spaghetti.
4 Dalla prefazione del libro, di Paola Antonelli, Senior Curator MoMa, Museum of Modern Art di New York: ".....di tutte le tassonomie di pasta mai concepite, quella di George L. Legendre è certamente una tra le più originali e poetiche" 

Fonti

From the book
"Invenzione della pasta" di Riccardo Pazzaglia
"Pasta by design" di George L. Legendre 
From website
http://it.wikipedia.org/wiki/Pasta
https://www.finedininglovers.com/stories/pasta-by-design/
http://www.food-info.net/it/products/pasta/history.htm
From the pictures
https://www.finedininglovers.com/photo/art-design/food-design-pasta/pasta-design-tortellini/
http://www.food-info.net/it/products/pasta/history.htm
http://www.dezeen.com/2011/08/16/competition-five-copies-of-pasta-by-design-to-be-won/
http://it.wikipedia.org/wiki/Pasta
http://www.lifeinitaly.com/food/pasta-history.asp


Matematica amore e......fantasia

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"Matematica, amore e fantasia" il tema proposto da Spartaco Mencaroni per il numero 86 del Carnevale della Matematica, da lui ospitato a giugno, mi ha immediatamente ricordato un celebre film di Luigi Comencini degli anni '50, "Pane amore e fantasia". 
Ambientato in uno sperduto e miserabile paesino (immaginario) dell'entroterra abruzzese, in cui ci si nutriva solo di pane e di fantasia e in cui l’amore contendeva alla fantasia il suo prestigio di companatico, inaugurò quello che poi venne chiamato il "neorealismo rosa".


Dialogo tra il maresciallo, Vittorio De Sica, e un umile contadino di Sagliena)
De Sica: «Che te mangi?»
Contadino: «Pane, marescià!»
De Sica: «E che ci metti dentro?»
Contadino: «Fantasia, marescià!!»

"Neorealismo rosa" perché il vero protagonista era l'amore, che prendeva forma negli intrecci amorosi tra i vari personaggi della società del tempo in una riproposizione caricaturale: il maresciallo suadente, la "bersagliera" risoluta, il carabiniere timido e Annarella, la levatrice sfuggente.
Amori vissuti spontaneamente e semplicemente, senza pretese di stabilirne psicologicamente o matematicamente l'eventuale durata o solidità.



Ricerca invece a cui si è dedicata Hannah Fry, docente di Mathematics of Cities al Centre for Advanced Spatial Analysis dell'University College London (UCL), una delle più prestigiose università britanniche.  
Hannah Fry, lavorando a fianco di un mix di  fisici, matematici, informatici, architetti e geografi, normalmente studia gli schemi del comportamento umano, in particolare in un contesto urbano e la sua ricerca si applica a una vasta gamma di problemi e questioni sociali, dai negozi ai trasporti, dalla criminalità urbana alle rivolte e al terrorismo.  
In questo caso ha scritto invece un libro decisamente poco accademico, e soprattutto rivolto alle masse, "The Mathematics of Love", che è arrivato opportunamente in libreria alla vigilia di San Valentino e che vorrebbe rispondere a queste domande: troverò il partner perfetto? durerà la mia relazione?

Quindi volendo fare un parallelo con il film si potrebbe parlare di "matematica rosa", una matematica che cerca di offrire nuove visioni e prospettive sulle questioni di cuore, pur rimanendo consapevole del fatto che le emozioni e il romanticismo, che genera l'amore, non possano essere certo descritti da un insieme di equazioni.

L'approccio è probabilistico e si basa soprattutto su dati statistici, su algoritmi matematici, nonché sulla teoria dei giochi, e il tutto è correlato da grafici e dalle belle illustrazioni dell'artista tedesca Christine Rösch.
Elaborando ed adattando i modelli del caos ai rapporti umani, Hannah Fry dà suggerimenti per orientarsi attraverso i misteri dell'amore, l'attrazione e la bellezza, raccontando la storia di singles in cerca d'amore, alle feste o on-line, con le loro esperienze affettive, fino a una relazione stabile e alla sua possibile gestione a lungo termine.



Qual è la probabilità di incontrare il vero amore a una festa?
Illustrazione di Christine Rösc

"I wanted to start with somebody who was single and looking for love, and then take them through being at a party or perhaps being online, and then the dating situation, and then thinking about marriage, and then actually getting married, and then managing a long-term relationship......I wanted it to be a story so that everybody at every stage had a chapter that was relative to them at that exact point in time.

"Ho voluto iniziare con qualcuno che fosse single ed in cerca d'amore e poi accompagnarlo durante una festa o una navigazione on line, aggiornando via via la situazione fino al pensiero del matrimonio; si sposa e gestisce una relazione a lungo termine.....Ho voluto che fosse una storia in cui ciascuno ad ogni fase avesse un capitolo in cui riconoscersi in quel preciso momento della vita"




Qual è la probabilità di incontrare il vero amore on-line?
Illustrazione di Christine Rösc

Il Washington Post commenta vari spunti del libro e ne descrive alcuni. 
Per esempio, se prendiamo come consolidata la convinzione che la bellezza umana si riveli in un concetto matematico chiamato "rapporto aureo", un numero irrazionale circa uguale a 1.61803399, che riguarda le caratteristiche di progettazione ottimali del volto, la maggioranza di noi sarebbe esclusa: 
"Il volto perfetto dovrebbe avere una bocca che è 1.618......volte più grande rispetto alla base del naso, sopracciglia che sono 1.618.....volte più grandi degli occhi, e così via
Quante persone potrebbero rientrare in questi canoni? E come potremmo mai calcolare con precisione questi rapporti? 
Molto meglio far risaltare le nostre caratteristiche "negative", o che ci appaiono tali, ma che ci identificano e ci rendono unici!
Il Sunday Times, invece, che ha intervistato l'autrice, si concentra piuttosto su un singolo dato del suo studio: l'amore ideale arriva mediamente dopo che ne sono stati scartati quattro. 
"Il partner perfetto è il quinto", l'uomo o la donna giusti insomma, deriverebbe probabilmente dalla relazione numero cinque della nostra vita.



Qual è la probabilità che l'amore sia per sempre?
Illustrazione di Christine Rösc

La Fry analizzando ed adattando modelli matematici, tra cui il rapporto aureo, l'analisi di regressione, l'algoritmo Gale-Shapley, la teoria della scelta discreta ecc, attribuisce a quattro regole d'oro la speranza di non affannarsi con relazioni infruttuose.

Ma vediamo di analizzare queste quattro regole d'oro che elabora condividendo il pensiero, i dati statistici, i modelli e gli algoritmi di altri studiosi, tra cui Christian Rudder, Lloyd Shapley, John Gottman e James Murray:

1. Sicurezza di sé 
La Fry ha utilizzato le ricerche di Christian Rudder, un personaggio decisamente poliedrico, matematico di professione, co-fondatore del sito OkCupid  (se volete iscrivervi qui), esperto di dinamiche sociali su internet, che canta e suona la chitarra in una band indie di discreto successo, i Bishop Allen
Rudder ha passato un decennio ad analizzare i dati dei singles che si iscrivevano al sito per incontrare l'anima gemella scoprendo, tra l'altro, che non sono le persone più belle a riscuotere più successo, ma quelle più sicure di sé, che non esitano a mostrare i propri difetti e, anzi, li mostrano con orgoglio. 
Pancetta, calvizie e difetti fisici battono la bellezza, quindi: ciò che conta è l'originalità e la sincerità.
Ricerche che lo stesso Rudder ha pubblicato in un libro "Dataclysm - Who We Are", un'audace e irriverente investigazione sul comportamento umano, sulle previsioni, sui condizionamenti e le analisi/spia dei dati dei Social Networks.





2. Cercare l'altro attivamente
L'algoritmo di Shapley conferma l'assunto del "chi non risica non rosica": chi cerca un partner attivamente senza aspettare che il destino bussi da solo alla sua porta riceverà di certo molti più rifiuti e delusioni ma, nel complesso, ha molte più possibilità di incontrare la persona giusta.

Nel 2012 il Nobel per l’economiaè stato assegnato a Lloyd Shapley, insieme ad Alvin Roth, per "la teoria delle allocazioni stabili e la pratica della progettazione dei mercati".
In un breve articolo scritto nel 1962 con David Gale (deceduto nel 2008), Shapley affronta in modo puramente teorico un problema pratico e probabilmente è da queste sei pagine di matematica (e senza neanche una formula) che parte il tragitto di Shapley verso un premio che ha meritato anche per altri contributi molto più importanti dal punto di vista teorico, primo tra tutti la soluzione di un problema lasciato aperto dai fondatori della teoria dei giochi, John von Neumann e Oskar Morgenstern: quello della divisione del surplus in un “gioco in forma coalizionale”.  
“L'algoritmo dell’accettazione differita”, che può essere descritto sia come una successione di scelte sia come un programma operato da un calcolatore, ha infatti avuto un enorme impatto sulla teoria dei giochi e le sue applicazioni all’economia (teoria dell’impresa) e alle scienze politiche (indici di potere).



La Fry applica quindi l'"algoritmo del matrimonio perfettoalla domanda e offerta nelle "situazioni amorose", infatti "l’algoritmo dell'accettazione differita" o "valore di Gale e Shapley"è cruciale nel far incontrare domanda e offerta in situazioni in cui sono escluse transazioni monetarie e quindi non si può ricorrere al sistema dei prezzi. 
L’algoritmo di Gale e Shapley in definitiva sembra proprio contraddire il proverbio che afferma che "in amor vince chi fugge"! 
La strategia di attacco adottata dall’insieme dei “maschi” consente loro di giungere alla configurazione più vantaggiosa per loro; al contrario, la strategia attendista delle “femmine” conduce alla peggiore configurazione tra quelle accettabili.

3. Litigare fa bene 
La Fry condivide le conclusioni a cui sono arrivati John Gottman e James Murray che hanno applicato un modello matematico ai litigi tra le coppie. 
I due studiosi  hanno portato così alla luce un paradosso: le coppie che hanno meno discussioni sono, statisticamente, quelle più fragili e con i litigi più esplosivi, avendo accumulato rancore e insoddisfazione per anni, al contrario delle coppie "litigarelle" che confrontandosi spesso, sfogano le loro frustrazioni e hanno percentualmente molte più chances di restare insieme a lungo.




Lo psicologo John Gottman, diventato una vera star negli Stati Uniti dopo la creazione del suo famosissimo "Love Lab", lamentava la tenendenza della psicologia sociale a trascurare la matematica. 
Insieme ai matematici James D. Murray e Kristin Swanson, Gottman ha affrontato "matematicamente" il rapporto sociale amoroso. 
Per prima cosa, i ricercatori hanno spulciato 10 anni di dati riguardanti più di 700 coppie sposate, per un totale di centinaia di ore di conversazione registrate nel laboratorio del professor Gottman. 
A parere dello psicologo, basterebbe qualche minuto di conversazione su un qualsiasi argomento sul quale la coppia è in disaccordo, come il denaro o il sesso, per far emergere i problemi latenti. E proprio la gestione dei conflitti consentirebbe di fare previsioni sulla vita futura e se alla coppia toccheranno o no giorni felici.
Per esempio, se il marito alza gli occhi al cielo durante una conversazione, al barometro dell’amore vengono sottratti dei punti. Ma se lo humor regna sovrano, si aggiungono dei punti. 
L’evoluzione viene poi riportata su un grafico denominato “Dow Jones della conversazione”: 
- se la tendenza è verso l’inflazione, è un buon segno per gli innamorati
- se la curva decresce, il meteo amoroso rischia di virare al grigio. 
Aggiunti ai questionari e alla misura della frequenza cardiaca, questi parametri vengono incorporati in un modello matematico in grado di interpretare, e soprattutto di prevedere. 

I calcoli utilizzati sono a un livello banale, mentre i risultati sono di una precisione sorprendente”, afferma il professor Murray "Sperimentato su 700 coppie sposate di recente, e rivisto quattro anni più tardi, questo meccanismo infernale ha permesso di individuare i futuri divorziati con il 94% di precisione"


Questa formula predice come positiva o negativa la reazione di moglie o marito 
nel turno successivo di una conversazione
Le equazioni per la moglie (W) il marito (H) seguono lo stesso schema: 
w e h: lo stato d'animo da solo 
rw Wt e rh Ht:  lo stato d'animo in presenza del coniuge
IHM (Ht) e IHM (Wt): l'influenza del coniuge, rispettivamente, sulla prossima reazione

Le equazioni del modello  consentono di classificare la relazione in base a diversi tipi di coppia, tra i quali tre in particolare vengono giudicati potenzialmente stabili sul lungo periodo:
- i pacifisti. 
Evitano il conflitto a ogni costo, e non litigheranno praticamente mai. Di fronte a una divergenza, ascoltano ma non cercano di manipolare l’altro
- i poliziotti. 
Come avvocati in un tribunale, queste coppie possono litigare per un nonnulla, ma tendono a durare malgrado gli scambi “appassionati”
- i caschi blu. 
Ciascuno ascolta l’altro e rispetta la sua opinione, perciò la coppia litiga molto raramente.

I problemi nascerebbero nelle coppie formate da personalità che non possono trovare un punto di intesa, per esempio una donna sempre pronta a litigare e un marito che sfugge ai conflitti. 
Lo psicologo ritiene che i grafici ottenuti con il suo modello matematico possono aiutare le coppie a evitare la rottura, dimostrando come le curve evolvono in funzione dell’attitudine dei partner. 
Disponendo di una rappresentazione visiva della fonte del disaccordo, diventerebbe più facile ritrovare l’armonia, per esempio, ritornando all’esempio citato, consigliando all’uomo di rispondere agli attacchi e alla donna a moderare i suoi scoppi di collera.
John Gottman ha iniziato a studiare quelli che chiama “i miracoli e i disastri” del matrimonio nel lontano 1973. Con il contributo di centinaia di coppie qualunque che hanno partecipato ai suoi studi a lungo termine, Gottman ha “dedotto” che cosa fa fallire un matrimonio, che cosa lo fa durare, e che cosa ne può fare una fonte di significato per tutta la vita.
Esaminando la frequenza cardiaca dei partner, le espressioni corporee e facciali, e il modo in cui le coppie si parlano tra di loro e parlano agli altri della propria relazione, il professor Gottman sostiene di essere in grado di predire con un’accuratezza del 90% quali coppie dureranno, e quali no. 

Anche se Gottman sostiene quindi di aver predetto il 90% delle possibilità di divorzio e di aver aiutato il 65% delle coppie ad abbandonarne l’idea, l’amore può davvero essere ridotto a una semplice equazione?




4. Il partner perfetto è il quinto
Se nella vita si è destinati ad avere, secondo una media statistica, circa dieci relazioni, quella con più probabilità di trasformarsi nell'amore della vita è la quinta, dopo che si sono scartate il 39,87% delle esperienze precedenti: l'uomo o la donna ideale, insomma, arriva mediamente dopo che ne sono stati scartati quattro.


Scarto dei primi quattro partner (corrispondenti al 39.87%)
P(4) come si può facilmente calcolare attraverso la formula con r=4 e n=10

E questa è forse l'unica teoria elaborata esclusivamente da Hannah Fry e lo potremmo definire "il teorema del partner perfetto". 
Questa "teoria della sosta ottimale", (“optimal stopping theory") ci aiuterebbe a capire qual'è il partner giusto!
La teoria, che si basa sul presupposto che il periodo “di ricerca” del partner  vada dalla prima relazione fino all’età massima in cui sistemarsi, suggerisce di scartare a priori tutte quelle avvenute circa nel primo 38% dell’intervallo. Dopodiché, il partner del “sempre e per sempre” sarà il primo che dimostri di essere meglio di quelli scartati.
Se si presumono dieci persone nel nostro periodo di ricerca amorosa, si ha la più alta probabilità di trovare quella giusta quando si rifiutano i primi quattro partner (corrispondenti al 39.87% come si può facilmente calcolare attraverso la formula con r=4 e n=10). Se le ipotetiche persone sono venti, si dovranno escludere le prime otto (pari al 38.42%). E se invece l'ipotesi è di un numero infinito di partner, allora si dovrà respingerne il 37%.
La Fry intende come periodo di ricerca del partner quello che parte dai primi incontri adolescenziali, sui quindici anni, e che idealmente si dovrebbe  concludere intorno ai quaranta, e sostiene che questa strategia sarà quella che  darà la migliore opportunità possibile di trovare il partner "numero uno" della nostra lista immaginaria.
Ovviamente la teoria non è priva di rischi e se le prime relazioni (quelle nel 38%) sono eccezionali, potremmo finire per non poterci sistemare prima della scadenza che ci siamo prefissati, rimanendo soli. Al contrario se il 38% è terribile, finiremmo per accontentarci della prima relazione un po’ meno disastrosa delle precedenti.
Anche se il divino Dante definiva 3 il numero perfetto, Hannah Fry asserisce che, in media, la relazione perfetta è la quinta.
C'è da sottolineare "in media" e in base ai presupposti soggettivi da cui questa modellizazione prende origine.


Dante e Beatrice (1915) di John William Waterhouse (Roma, 1849 – Londra, 1917) 
pittore britannico, appartenente alla corrente preraffaellita

Ma questa modellizazione dell’alchimia amorosa potrebbe rendere scettici non solo Dante e tutti i poeti. 
Psicoterapeuti, formatori, sessuologi e perfino matematici attenti potrebbero confessare un certo scetticismo riguardo a questo tipo di approccio che, oltre a partire da presupposti rigidi tende a non prendere in considerazione una dimensione essenziale, quella inconscia. 
Perché una persona ne sceglie un’altra? 
Al di là di qualche elemento quantificabile, ne esistono molti altri difficili da scoprire, inconsci o legati alla voglia e al bisogno.... che fanno sì che sceglieremo un partner e non un altro, o che la relazione durerà o meno. 
Inoltre, questi modelli non hanno valore universale e sono fortemente ancorati a un dato contesto culturale, nello specifico si tratta di quello occidentale. 
Che valore avrebbero teorie come queste nelle società orientali? 


Hannah Fry presenta il suo libro
"The Mathematics of Love"
Video con sottotitoli e testo in italiano qui

In conclusione credo che questo approccio "matematico" possa rappresentare più una semplificazione sommaria della realtà che una vera teoria di previsione.
A queste teorie e a questi grafici comportamentali va lasciato forse il merito di poter mettere a disposizione un supporto visivo, che può aiutare nella terapia di coppia, magari per eliminare certe inibizioni, o per aiutarci ad adottare più validi "stratagemmi" di comunicazione. 
Come tutti i modelli statistici e probabilistici, anche questo approccio  funziona in "media" e secondo precise scelte iniziali  e di campionatura (la cosiddetta "scelta del campione"), quindi in nessun caso è pensabile che possa considerarsi una soluzione definitiva agli eterni "problemi di cuore"......se mai lo definirei un approccio fantasioso!!!!!!




Fonti
From book
The Mathematics of Love di Hannah Fry
Dataclysm - Who We Are di Christian Rudder
From website
http://www.hannahfry.co.uk/
http://www.mat.uniroma3.it/users/liverani/doc/disp_oc_11.pdf
http://www.u.arizona.edu/~mwalker/501BReadings/Gale&Shapley_AMM1962.pdf
From Video
https://www.ted.com/talks/hannah_fry_the_mathematics_of_love?language=it
From Images
http://www.theguardian.com/science/2015/feb/01/looking-love-wrong-equations-mathematics-sexual-partners
http://www.hannahfry.co.uk/
http://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-3014452/Choose-ugly-friends-highlight-flaws-don-t-settle-age-22-Mathematician-reveals-formulas-finding-true-love.html





Tartaglia e la "poesia" rubata

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Il Carnevale della Matematica di questo mese di luglio è ospitato da Dioniso e ha per tema, come annunciato nel suo Preannunciazò "Matematica e Rinascimento", dove "Rinascimento"è inteso in tutti i suoi significati etimologici e non.
Confesso che in questo mese, tra impegni vari e caldo a volte insopportabile, non ho avuto tempo e voglia di pensare a un post che potesse adattarsi al tema, finché non ho ascoltato una pubblicità (video qui) apparsa recentemente in televisione in cui si accenna a Leonardo Pisano detto il Fibonacci.
In questa pubblicità gli ideatori dimostrano una notevole ignoranza, attribuendo al Fibonacci un fantomatico "codice".......e questo purtroppo porterà ad identificare la figura del grande matematico.
Forse hanno confuso il nome? 
Infatti si chiama Leonardo come il grande Da Vinci di cui è invece noto il famoso Codice.
O forse per loro successione è sinonimo di codice?
Non so dare una risposta spero solo che quando parlerò ai miei alunni degli enormi contributi di Fibonacci, anche alle recenti matematiche dei frattali, non mi rispondano: "ah si, Fibonacci, quello del codice". 



Spirale di Fibonacci - Opera al neon di Mario Merz

Comunque Fibonacci è forse uno dei più grandi matematici di tutti i tempi e, anche se non si sognò mai di stilare un "codice", contribuì, con altri matematici del tempo, alla rinascita delle scienze esatte dopo la decadenza dell'Età Tardo Antica e del Basso Medioevo e stabilì un connubio fra i procedimenti della geometria greca euclidea (gli Elementi) e gli strumenti matematici di calcolo elaborati dalla scienza araba e alessandrina, mettendo le basi proprio per quella speculazione algebrica che caratterizzerà la matematica del Rinascimento. 
Questa associazione tra Fibonacci e il Rinascimento mi è saltata agli occhi ricordando anche la proprietà (già precedentemente vista in un mio articolo) che lega la successione di Fibonacci al triangolo di Tartaglia. 
Dal triangolo di Tartaglia si possono infatti ricavare i numeri di Fibonacci, sommando i numeri delle diagonali (come evidenziato nella figura).



Numeri di Fibonacci ottenuti sommando i due numeri precedenti:
1,1,2,3,5,8,13,21,34,55,..........

E Tartaglia appunto è il matematico rinascimentale autore della poesia del titolo.
Ma andiamo per gradi e introduciamo il Rinascimento e la sua influenza sulla matematica. 

Il Kline assume come limiti del periodo rinascimentale il 1400 ed il 1600 circa. 
Sono paletti approssimativi, tenendo presente il fatto che il termine Rinascimento è usato anche per indicare tendenze diverse nei vari campi del sapere, spesso cronologicamente non coincidenti. 
Comunque sia, nel periodo che va dal 1400 al 1600, l'Europa fu profondamente scossa da un certo numero di eventi che ne alterarono profondamente il polo culturale e le prospettive intellettuali, stimolando anche un'attività matematica su vasta scala e un ritorno di questa alle radici "magiche", e quindi astratte, da cui era partita fin dai tempi dei greci e dei pitagorici.
Nel 1453 cade Costantinopoli in mano ai Turchi e ha termine così l’impero bizantino, si conclude la peste in Europa da cui consegue una rinascita della società, si ha l’invenzione della stampa che renderà disponibile la cultura ad un maggior numero di persone.
Il primo libro viene infatti stampato nel 1447 e già alla fine del 1400 sono disponibili più di 30.000 edizioni di diverse opere.
Inoltre questo periodo è caratterizzato storicamente dall'alternarsi di condizioni politiche "positive" e di governi "democratici" che favoriscono l'affermarsi dell'individuo (si inizia a parlare di Umanesimo), in forte antitesi con l'appiattimento e l'omogenizzazione del Medioevo, durante il quale l'uomo era schiacciato dalla potenza divina e l'individualità era una prospettiva nemmeno considerata.
Probabilmente questi, insieme ad altre concause, sono i motivi che hanno dato, a partire dalla metà del XV secolo, una notevole ripresa degli studi matematici.

In questo breve post non posso certo parlare di tutti gli enormi contributi che i  matematici rinascimentali diedero allo sviluppo di questa disciplina, ma mi vorrei soffermare solo su alcuni contributi algebrici alle soluzioni delle equazioni, e poi in particolare sul contributo "poetico".

A parte i singoli metodi di risoluzione usati dalle varie civiltà, le equazioni algebriche di primo grado venivano risolte fin dall'antichità "per tentativi", e nei greci per via geometrica. Soltanto a partire dagli arabi (IX secolo d.C.) si può iniziare a parlare di risoluzione in senso moderno.
E le equazioni di secondo grado?
Già i matematici babilonesi (intorno al 400 a.C.) e i cinesi utilizzano la tecnica del completamento dei quadrati per risolvere equazioni quadratiche con radici positive ed Euclide descrive un metodo geometrico più astratto intorno al 300 a.C. 
Tuttavia, il matematico cui si attribuisce la formula algebrica generale, che ingloba sia le soluzioni positive sia quelle negative, è l'indiano Brahmagupta (VII sec. d.C.).
Anche prima del sedicesimo secolo i matematici si erano imbattuti in alcune equazioni di grado superiore al secondo, ma si trattava sempre di equazioni particolarmente semplici, e dunque di facile risoluzione, o equazioni riconducibili a quelle di grado due, oppure rappresentabili geometricamente. 
Nessuno prima del sedicesimo secolo aveva dato una formula risolutiva!



Raffaele Bombelli (1526 – 1573) - Algebra - 1560

Non voglio fare certo un trattato e addentrarmi ad analizzare tutti i contributi dei grandi algebristi rinascimentali, mi limiterò a citarne solo alcuni:

Nicolas Chuquet (1445 - 1488) scrive "Triparty en la science des nombres", il primo trattato di aritmetica razionale, radici di numeri e "regle des premiers" ossia la regola dell’incognita (algebra).
Luca Pacioli (1445 – 1514) scrive la "Summa de aritmetica, geometria, proporzioni et proporzionalità" (1494), in cui l’algebra è tratta essenzialmente da testi medievali ed arabi.
Nel 1489 Johannes Widmann (1460 - 1498 circa) a Lipsia pubblica "Rechenung auff allen kauffmanschafft", in cui compaiono per la prima volta i segni + e -.
Nel 1524 Adam Riese (1492 – 1559) scrive "Die Coss", un trattato di algebra in cui dà le basi per sostituire il calcolo con l’abaco e le cifre romane con quelle indo-arabe (ancora oggi "nach Adam Riese" indica in Germania l’accuratezza dei procedimenti aritmetici).
Nicolò Tartaglia (1499 circa – 1557) matematico a cui è legato il noto triangolo numerico, detto triangolo di Tartaglia e la scoperta della risoluzione algebrica delle equazioni di terzo grado. Sua è la prima traduzione dal latino in italiano degli Elementi di Euclide (1543)
Gerolamo Cardano (1501 – 1576) scrive "Ars magna" (1545) che dà la soluzione di equazioni di terzo e quarto grado. Prende il terzo grado da Tartaglia ed il quarto grado da Ferrari.
Lodovico Ferrari (1522 – 1565) matematico italiano che fu il maggiore responsabile della soluzione delle equazioni di quarto grado che Cardano pubblicò.
Raffaele Bombelli (1526 – 1573) scrive Algebra nel 1560 in cui fa un resoconto delle conoscenze dell'epoca (calcolo con potenze e delle equazioni) e prende in esame le radici immaginarie ("quantità silvestri") e i numeri complessi ("più di meno" e "meno di meno" per +i e -i), stabilendone le regole di calcolo (addizione e moltiplicazione). Numeri che più tardi Cartesio chiamerà "numeri immaginari".
Robert Recorde (1510 – 1558) scrive Whetstone of Witt (1557) dove compare per la prima volta il segno =



(Umberto Bottazzini - La "grande arte": l'algebra nel Rinascimento -
a cura di Paolo Rossi, Storia della Scienza Vol.1)

E proprio ricordando Tartaglia e Cardano ho ritrovato quel contributo "poetico" di cui parlavo, vale a dire una delle più celebri poesie della storia della matematica.
E' quella che Niccolò Tartaglia inviò il 9 Aprile 1539 a Gerolamo Cardano per comunicargli la formula risolutiva delle equazioni di terzo grado. 
Il punto interessante di questa poesia è che è possibile analizzare ogni singolo verso e tradurlo nel linguaggio matematico. 

Quando che ‘l cubo con le cose appresso [x3 + px ]
se agguaglia à qualche numero discreto [= q]
trovan dui altri differenti in esso. [u - v = q]
Dappoi terrai questo per consueto
che’l lor produtto, sempre sia eguale
al terzo cubo delle cose neto. [uv = (p/3)3]
El residuo poi suo generale,
delli lor lati cubi ben sottratti [√u - √v]
varra la tua cosa principale. [= x]
Questi trovati, et non con passi tardi,
nel mille cinquecent’ e quattro e trenta, [1534]
con fondamenti ben sald’ e gagliardi,
nella città del mar’intorno centa. [Venezia]

Tenendo presente dalla "poesia" che: 



ed esprimendo il procedimento in un'unica formula si ottengono le note formule cardaniche:




Tartaglia svelò così a Cardano la famosa formula, dietro la promessa che non ne avrebbe parlato ad alcuno, anche nella speranza di ottenere una qualche introduzione nel mondo accademico milanese, che invece non arrivò.




Cardano, con l'aiuto del suo allievo Ludovico Ferrari, approfondì le formule dell'equazione cubica e la migliorò, trovandone una anche per il caso generale. 
Dato che Tartaglia non si decideva a pubblicare i suoi risultati, qualche anno dopo il Cardano, con l'aiuto di Fiore, scoprì da alcune carte che erano in possesso del genero di Dal Ferro che la formula era stata inventata anche da quest'ultimo. Pertanto si ritenne libero dalla promessa fatta al Tartaglia e si decise a pubblicare i suoi risultati nella "Ars Magna" (1545), suscitando quindi  le ire di Tartaglia.
Nel 1546 infatti Tartaglia pubblicò la sua opera "Quesiti et Inventioni diverse" dove, con parole offensive verso Cardano (chiamandolo "huomo di poco sugo"), denunciava la violazione del giuramento fattogli. 
In conseguenza di ciò il Ferrari, in difesa del suo amico e professore, lanciò il primo cartello di disfida contro Tartaglia, seguito da altri cinque nel giro di due anni, che portarono poi allo scontro da cui Tartaglia ne uscì sconfitto.
Tartaglia fu infatti non solo umiliato e sconfitto, ma poco dopo vide il ritiro del suo incarico di professore.
Solo i posteri ridaranno a Tartaglia parte della paternità dell'invenzione della formula risolutiva dell'equazione cubica, chiamandola formula di Cardano-Tartaglia, riconoscendo così che la "formula", in poesia, era stata rubata! 




Fonti
From book
La formula segreta - Fabio Toscano
http://www.ibs.it/code/9788851801243/toscano-fabio/formula-segreta-tartaglia.html
Storia del pensiero matematico - Morris Kline
http://www.einaudi.it/libri/libro/morris-kline/storia-del-pensiero-matematico-i/978880615417
From webside
https://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale

Belfagor e Annalisa........un dialogo surreale!

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Sono in vacanza all'Aprica, un bel passo montano dell'alto valtellinese, e oggi abbiamo deciso di fare un'escursione al Pizzo del Diavolo, 2.924 mt, passando per i suggestivi laghi di Gelt e di Malgina.
Una bella e lunga escursione che dalle cascate di val Caronella ci porta all'omonimo passo a quota 2612 mt, e quindi, su un sentiero che si inerpica, al colletto del Gelt posto a quota 2730 mt. 



Cascate di Val Caronella


Arrivati al Colletto del Gelt, sotto di noi si presenta all’improvviso il lago Gelt (quota 2562 mt) il più alto delle Alpi orobiche e proprio così chiamato perché per la maggior parte dell’anno é ghiacciato. Sia il tratto di salita al Colletto che il tratto di discesa al lago Gelt, pur essendo ripidi, non presentano strapiombi o salti rischiosi e la vista del lago è bellissima con la sua forma a cuore, dentro una conca di pura roccia.


Lago di Gelt

Dopo una fermata al bordo del lago, continuando nella discesa, seguiamo il facile e ben segnato sentiero, e arriviamo al lago Malgina (2339 mt) situato proprio ai piedi del Pizzo del Diavolo della Malgina (2911 mt). 



Lago di Malgina

Da qui abbiamo due possibilità: seguire il sentiero n°310 e raggiungere il rifugio Barbellino in circa 30 minuti o prendere il sentiero che porta al Pizzo del Diavolo in circa un'ora e 30.
E' ormai quasi sera e decidiamo di fermarci al rifugio e proseguire l'indomani per il Pizzo del Diavolo della Malgina. 
Il rifugio Barbellino è un' oasi di pace immersa nella natura. Un luogo di silenzio interrotto solo dal rumore delle candide e fredde acque del fiume Serio.


Arrivo al rifugio Barbellino sul laghetto omonimo

Intorno a un tavolone con una tovaglia a quadrettoni, decidiamo quindi il percorso che ci porterà in vetta, ripassando dal lago Malgina, e stabiliamo la discesa dal lato opposta della salita, seguendo la Val Morta (così denominata per la mancanza di vegetazione e non per tragici eventi) che raggiunge il Rifugio Curò a quota 1903 mt in circa un'oretta e quindi un’altra ora di comodo sentiero per tornare al rifugio Barbellino coprendo i 230 mt di dislivello.
Ci corichiamo nel camerone mansardato e cerchiamo di prendere sonno, stanchissimi per la lunga e impegnativa camminata.




Durante la notte il Pizzo del Diavolo, la valle Morta, il lago Gelt diventano incubi da cui esce una figura, direi spaventosa, che incomincia a parlarmi:



Belfagor raffigurato nel Dictionnaire Infernal 


Ciaoooooooooo, non mi riconosci?

Davvero no!!!! (Rispondo terrorizzata) 

Ma che matematica sei se non riconosci Belfagor?

Anche se la matematica per alcuni è "spaventosa" non vedo proprio come tu, un diavolo sotto tutti gli aspetti, possa c'entrarci con le mie conoscenze matematiche!

Conoscenze matematiche direi un pochino scarse e limitate!

Oh insomma, sei brutto e spaventoso proprio come ti hanno raffigurato nel Dictionnaire Infernal  e per di più odioso e antipatico!

Va bene cercherò di essere meno odioso e proverò ad aiutarti a capire

Ma capire cosa? Che tu sia un diavolo, appunto il diavolo Belfagor, è evidente!

Allora torniamo alle tue scarse competenze matematiche

Ok....spiegami

Spero almeno che tu sappia che esistono i numeri primi!?

Certo sono quei numeri divisibili solo per 1 e per se stessi.....che scoperta! 
Non bisogna essere un matematico per saperlo......lo sanno anche gli alunni delle elementari!

Bene! Alla prima domanda hai risposto esattamente, allora andiamo alla seconda: quali sono i numeri palindromi?

Ma per chi mi prendi, per un' analfabeta? 
Un numero è palindromo quando le sue cifre rappresentano lo stesso valore sia che siano lette da destra che da sinistra.......dimenticavo di dire, visto che continui a dubitare delle mie conoscenze......anche se scritte in una particolare base.
Meglio sottolinearti che non esistono solo i numeri, così come ci sono più noti, in base dieci (con le cifre 0.1.2.3.4.5.6.7.8.9), ma anche in altre basi (sistema a base 2, binario, con solo le cifre 0 e 1, base 3, 4 ecc)

Bene, bene risposta esatta anche se un po' stucchevole e sofistica!!! Non ti permetto di fare del sarcasmo.....è un argomento serio!

E allora? Numeri primi e palindromi cosa c'entrano con Belfagor?

Non avere fretta ci sono altre cose che dovresti sapere prima di svelarti veramente chi sono!

Dimmi sono tutta orecchi!

Ho detto di non essere sarcastica!
Soprattutto adesso che quello che sto per chiederti è legato alla religione e all'occulto. Cosa significano le cifre 666?

Beh come matematica posso solo dirti che è un numero naturale pari composto da tre cifre ripetute (il 6), che segue il 665 e precede il 667, che è composto, abbondante, è un numero di Harshad, di Smith, è triangolare........insomma non posso certo ricordarmi ed elencarti tutte le proprietà numeriche di cui gode!!!??

Ma proprio non capisci!!! Ti ho chiesto il significato religioso, esoterico, occulto.

Vagamente posso ricordare che è detto "numero della Bestia", ma non ricordo altro.

Si propro questo! 
Il 666 è il "numero della Bestia" e appare in un solo passo del Nuovo Testamento, nella Apocalisse di Giovanni, riferito a una bestia che sale dal mare e devasta la terra:
"Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei".

Si.....ma perché tu, Belfagor, vieni associato al 666?

Mi sembra evidente! 
Se nella Bibbia il numero sette è sempre indicato come il numero della perfezione e della natura divina, il numero sei è quindi il numero dell'imperfezione e della natura umana, incline al peccato, alle passioni disordinate e alla disobbedienza alle leggi di Dio.
Se il 666, come dice l'Apocalisse, è un numero ed un nome di uomo, esso indicherebbe sia l'uomo che la sua precisa missione. 
Il numero di uomo potrebbe essere quindi il simbolo di un dualismo 333 x 2 legato all'oscillazione tra bene e male, e alla precisa missione simbolica di una specie di "anti-Trinità" (ripresa altresì nella Apocalisse al capitolo 16). 
In pratica, Bestia-antiCristo-falso Profeta, contrapposti a Padre-Figlio-Spirito Santo.
E quindi il numero 666 è simbolo del male ed è per questo che è strettamente legato a me, Belfagor! 

Ma che tu fossi un diavolo mi è stato chiaro da subito!!! Tanto più che siamo proprio sotto il Pizzo del Diavolo, che posso immaginare sia casa tua??!!!

Vedi che non hai capito proprio niente! 
Io sono Belfagor, il numero primo palindromo 1.000.000.000.000.066.600.000.000.000.001 
E oltre a contenere al mio interno le cifre 666, tipicamente associate al Diavolo o alla Bestia sono caratterizzato da 13 zeri a destra e altrettanti zeri a sinistra del 666, e, come sai, al numero 13 è legato un significato superstizioso di cattivo augurio.

Beh non è poi detto che il 13 sia di cattivo augurio. Per me è un simbolo di fortuna.....e poi sono nata proprio il 13 maggio!

Un'ultima cosa devo svelarti prima che arrivi l'alba e che debba sparire. 
Tu che, insieme al Carnevale della Matematica, parli sempre di π, sai qual'è il mio simbolo?

Non saprei, ma potrei cercare di indovinare. Data la tua mente contorta e capovolta potrebbe essere un π capovolto!!!???

Oh finalmente uno sprazzo di furbizia!
Si proprio così! Il mio simbolo, quindi il simbolo del "numero di Belfagor"è un  π capovolto!

Non poteva che essere una lettera inesistente!

Altro sprazzo di furbizia!
Questo simbolo si trova infatti per la prima volta nel Manoscritto Voynich, un codice illustrato, pare risalente al XV secolo, scritto con un sistema di scrittura che a tutt'oggi non è stato ancora decifrato. 
Il manoscritto contiene anche immagini di piante che non sono identificabili con nessun vegetale attualmente noto e l'idioma usato nel testo non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico conosciuto. 
Viene infatti definito "il libro più misterioso del mondo". 

Devo ammettere, Belfagor, che mi sei diventato quasi simpatico e mi sembri meno brutto!!! Saranno le tue doti "matematiche" che ti rendono meno spaventoso!

E tu, Annalisa, sei ora un po' meno ignorante perché hai conosciuto me! E vedrai che troverai altri "numeri famosi"!!!
Ti saluto devo proprio sparire perché le tenebre stanno per lasciar spazio alla luce dell'alba, per me deleteria. Addio!

Ciaooooooooooo!


Numero Belfagor - Numero primo palindromo
 1.000.000.000.000.066.600.000.000.000.001 


Sono ormai le otto del mattino e dopo una bella dormita, e un sogno che sembrava quasi vero, sono pronta per partire alla volta del Pizzo del Diavolo.
Risaliamo al lago della Malgina, imbocchiamo il sentiero segnato con qualche bollino rosso e qualche omino in pietra, quasi tutto su pietraia fino al nevaio e, seguendo quindi la traccia del sentiero che va a destra, ci dirigiamo verso il passo della Malgina. Arrivati in prossimità del passo, la traccia del sentiero piega decisamente a sinistra su un ghiaione che porta proprio sotto la vetta del Pizzo e da qui, per ripide ma facili roccette, raggiungiamo agevolmente la vetta in 20 minuti.



Dal Pizzo del Diavolo: Pizzo Strinato, Passo Grosso di Pila, Cime Caronelle e laghi di Gelt e  Malgina



Dal Pizzo del Diavolo: Monte Gleno, Monte Costone e Pizzo Strinato


Dalla croce del Pizzo del Diavolo: La Presolana e Vigna Soliva 

Beh dalla vetta, a quasi 3000 mt. (2911 mt. per la precisione), con questo cielo limpido, solcato solo da qualche nuvoletta, si gode un panorama indimenticabile. 
Verso sud appare maestoso il Monte Gleno con ai lati il Pizzo Recastello e il Pizzo Strinato, e più in basso il lago della Malgina e il lago Gelt. Ad est si vede il monte Torena, oltre il quale si apre la Valle di Belviso, con a nord le sorgenti del Serio. Ad ovest invece si ha una splendida visuale della Bocchetta dei Camosci e del Pizzo Coca, mentre a nord si apre la Valtellina.

Ma sogno o son desta? 
Ecco il mio "amico" Belfagor che fa capolino proprio in vetta!







Fonti

From Website
https://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale
http://www.voynich.nu/
From the Pictures
Annalisa Santi
Rifugio Barbellino
http://www.rifugiobarbellino.com/index.htm
https://it.wikipedia.org/wiki/Numero_di_Belfagor


Odio e amore.....una dicotomia matematica!

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Come si legge in qualunque dizionario, il termine dicotomia deriva dal greco διχοτομία , dichotomìa, composto da δίχα (dìcha, in due parti) e τέμνω (témno, divido) ed è usato prevalentemente in matematica, filosofia e linguistica. 
Per dicotomia si intende dunque la divisione di un'entità in due parti (che costituiscono una diade) che non necessariamente si escludono dualisticamente a vicenda, e che possono essere complementari.
Quindi si può considerare una dicotomia come una partizione in 2 parti. 
Per esempio, se preso un concetto A è possibile dividerlo in due parti B e non-B, allora le due parti formano una dicotomia, dato che nessuna parte di B è contenuta in non-B e che la somma di B e non-B fa esattamente A.
Le dicotomie comunque costituiscono una caratteristica tipica del mondo matematico: dalle dicotomie più "raffinate" quali la famosa dicotomia di Zenone , la dicotomia di Kant (Le verità della matematica sono analitiche o sintetiche?) o quella di Godel (La matematica soggettiva coincide con la matematica oggettiva?), a quelle più "comuni" che vedono i matematici puristi da un lato e pragmatici dall'altro, o forse ancora più "ricorrenti" come l'odio/amore o matofobia/matofilia per la matematica.


Sfondo "La Lettura o Catullo e Clodia", olio su tela di Giulio Aristide Sartorio 

Il Carnevale della Matematica #89 di settembre, ospitato dal blog "Math is in the Air" ha come tema proprio una di queste dicotomie: "Odi et Amo la matematica" .
Le prime parole del tema sono inequivocabilmente l'inizio del carme 85  del poeta latino Catullo, l'epigramma più noto di tutto il suo Liber.


Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia.
Non lo so, ma sento che ciò accade e sono messo in croce

Anche se il contrasto di sentimenti che l'amore provoca (Ti odio e, contemporaneamente, ti amo) è uno dei tòpoi più comuni nella letteratura mondiale di ogni tempo, in Catullo c'è qualcosa di più perché qui il dramma si acuisce con la triste constatazione che tale difficoltà nasce indipendentemente dalla volontà umana. 
Al Poeta non resta altro che prendere atto della situazione e soffrirne terribilmente: il verbo excrucior, che letteralmente significa "sono messo in croce", rimanda con la sua pronuncia all'idea del dolore lacerante. 

E sembrerebbe nascere indipendentemente dalla volontà umana, l'odio e l'amore per la matematica, che, in alcuni casi, mette proprio in croce il malcapitato di turno.
E così arriviamo a considerare la dicotomia, tutta matematica, matofobia e matofilia.
Il termine matofobia, che deriva dalla fusione delle parole matematica e fobia, sta a significare proprio paura della matematica, ovvero antipatia per la disciplina, anche se in realtà, data la radice greca della parola matematica (μάθημα máthema, ovvero apprendimento), può essere anche intesa in senso più ampio come paura per l'apprendimento.


 Per superare questa matofobia ci vorrebbe un mago

Il matematico sudafricano Seymour Papert  sostiene che tale fobia ha una natura sociale e nasce proprio durante il percorso scolastico. 
I bambini nascono infatti con una grande voglia e capacità di imparare e le difficoltà di apprendimento, in relazione a qualsiasi disciplina, non nascono spontaneamente, ma vengono indotte con l'insegnamento. 
La grande voglia di apprendere, la matofilia si trasforma in matofobia, ovvero il bambino che amava l'apprendimento e la matematica, successivamente riesce a temerle entrambe. 
Il carattere sociale della matofobia è giustificato, secondo Papert, anche da un'altra dicotomia, radicata purtroppo nella maggior parte degli esseri umani, quella tra "persone intelligenti" e "persone stupide" e, di conseguenza, ritenendo erroneamente che la matematica sia una disciplina per pochi eletti, si arriva a pensare che esistano "persone portate per la matematica" e "persone negate per la matematica", come se le abilità matematiche fossero innate. 
Quante volte si sentono affermazioni di disprezzo, di avversione, di odio nei confronti della matematica,  da parte di tutte quelle persone che forse non conservano un buon ricordo della loro vita scolastica proprio in relazione a questa disciplina. 
Si attaccano ai ricordi di insuccessi scolastici legati alla risoluzione di problemi o alle dimostrazioni di teoremi, all'ansia dei compiti in classe di matematica che scatenavano quel senso di limitazione e di impotenza, generando scoramento e avversione per la matematica.
Le ricerche di Papert, e non solo, dimostrano che nella maggior parte dei casi la matofobia nasce nelle aule scolastiche, soprattutto a livello di istruzione primaria. 
In tale contesto operano, spesso, degli educatori che sono essi stessi affetti da matofobia e che, trovandosi costretti a insegnare qualcosa che non amano, trasmettono all'alunno l'avversione per la disciplina.

Come spesso dico a studenti, genitori e colleghi, il vero successo di un insegnante non sta nel riuscire a trasmettere concetti ma riuscire a scatenare l'interesse e l'amore per la matematica.




Non posso dimenticare, alle Medie, la professoressa d'altri tempi già per allora, la "famigerata" e "temutissima" signorina Massarani. 
Sempre rigorosamente con il grembiule nero, arrivava, davanti alla porta ed immediatamente il nostro chiasso fanciullesco si interrompeva e, mentre un'aria gelida sembrava attraversare l'aula, noi in piedi aspettavamo che salisse sulla cattedra, da dove ci scrutava attraverso spesse lenti, quelle stesse che causavano immancabilmente sbagli di riga e di voti, che demoralizzavano e demotivavano alcune mie compagne. 
Parlava a voce bassa, in un silenzio perfetto, e riempiva velocemente la lavagna di numeri, simboli, figure geometriche, sempre con il cancellino nella destra ed il gessetto che strideva nella sinistra, mentre controluce si notavano anche lunghi peli sul mento che ricordavano nonna Abelarda.
Era severissima ma nello stesso tempo le sue lezioni erano coinvolgenti e facevano trasparire il suo amore, direi quasi esclusivo (era infatti "zitella") per le espressioni, le equazioni, i problemi di geometria e la storia dei grandi matematici. 
Parlando ancora adesso con una compagna di allora e amica cara di oggi, Annalia, mi rendo conto come sia stata per molte di noi uno stimolo per amare questa materia, ma nello stesso tempo un ostacolo per molte altre pur essendo riuscita a stimolare in tutte forse quella sottile voglia di trovare una soluzione ai problemi. 
Io amo la matematica, Annalia no, ma la voglia di voler a tutti i costi arrivare a risolvere una situazione, un problema, un gioco, è una caratteristica che ci accomuna e che forse ci ha "inculcato" proprio quella nostra insegnante innamorata della matematica!

Annalia ed io siamo un esempio di matofobia e di matofilia, quindi non può essere solo "colpa" dell'insegnante e per amare o odiare la matematica devono entrare altre componenti. 
Certo esistono insegnanti che non sanno stimolare la curiosità degli alunni, o che non riescono a presentare la matematica con semplicità e giocosità, che non ne esaltono l'aspetto storico e logico, che non tentano soprattutto di evidenziarne le implicazioni con altre discipline come filosofia, storia dell'arte, musica.....e "chi più ne ha più ne metta", perché è solo così che la matematica può, se non proprio essere "amata", almeno non essere "odiata"!
La scarsa preparazione degli insegnanti, o l'"odio" per la matematica da parte di docenti che si trovino ad insegnarla pur non essendo specialisti in materia, non sono certo da sottovalutare e come, sosteneva Alessandro D'Avenia in un articolo apparso tempo fa sul Corriere della Sera "Insegnanti questa scuola non è un'anagrafe", esistono docenti, ma anche in-segnanti che si dimostrano in-docenti o addirittura in-decenti.



Ma quali sono le altre componenti che possono "scatenare" questa matofobia?
Sempre il nostro studioso Seymour Papert, insieme alle già citate componenti che riguardano lo stretto insegnamento e di cui avevo parlato in un precedente articolo "Matematica.....ma quale?" quali appunto:
- Scarsa preparazione degli insegnanti, soprattutto nella scuola primaria
- Odio per la matematica da parte dei docenti che si trovino ad insegnarla pur non essendo  specialisti in materia
- Assenza di situazioni di classe che stimolino la motivazione dei discenti
- Contratto didattico
- Eccessivo uso del formalismo
ne elenca alcune altre:
- Reiterata impotenza nella risoluzione di un problema
- Ansia associata all'eventuale insuccesso
- Convinzione dell'attitudine congenita per la matematica
- Convinzioni sociali circa l'inutilità della matematica
- Netta divisione tra "sapere scientifico" e "sapere umanistico"
- Cattive prassi dei genitori che odiano la disciplina

Sarebbero tutte da valutare con attenzione e forse ce ne sono altre legate anche a fattori davvero congeniti e costituzionali, ma non voglio fare di questo post un trattato e lascio alla curiosità dei lettori "sviscerare" quelle componenti che qui non ho voluto evidenziare.
Componenti che si possono approfondire nel famoso libro di  Seymour Papert  "Mindstorms - Children, Computers, and Powerful Ideas". di cui c'è anche una traduzione in italiano di Anita Vegni "Mindstorm - Bambini, computers e creatività".



Testo di Analisi I (parte seconda) di Giovanni Ricci
Il testo era tratto e copiato direttamente dagli appunti scritti "a mano" dal Maestro

Proprio come in Catullo, questo mio amore per la matematica, a volte, ha convissuto con l'odio o ne è stato addirittura sovrastato!
Ci sono ovviamente stati momenti di sconforto, legati all'incapacità o alla poca volontà di applicarmi a uno studio serio e, a volte, difficoltoso. Uno di questi momenti, in cui forse l'odio ha davvero prevalso, è stato il mio approccio con il teorema sulla copertura di un insieme di Heine-Pincherle-Borel-Lebesgue, che mi costò il primo tentativo di passare l'esame orale di Analisi I, con il mitico "Maestro" Giovanni Ricci (come si nota dall'immagine avevo evidenziato in rosso "no dimostrazione".....che invece ovviamente Ricci pretendeva!). 
Grande Matematico e grande Maestro, Giovanni Ricci ero noto a noi studenti anche per il suo modo di agire bizzarro. Concedeva magari un 18 ma pretendeva il lancio del libretto nella fontana del  Dipartimento di Matematica (quello di via Saldini a Milano) o fissava in aula timide matricole tuonando con la sua voce bassa, cavernosa e un po' impostata (vezzo di famiglia, essendo fratello dell'allora noto attore e regista teatrale Renzo Ricci):
"se non capite queste cose, che capirebbe anche il bigliettaio dell'autòbus (lo accentava sulla o), cambiate...... cambiate subito!"
A me disse "sa che lei è proprio carina? gradirei rivederla alla prossima sessione!", e si ricordò di richiedermi proprio il famigerato teorema che però sapevo alla perfezione perché, forse anche grazie a lui e al suo rigore, il mio odio si era ritrasformato in amore.

A questo mio amore per la matematica hanno certo contribuito tanti fattori, ma mi preme ricordare anche quello che mi diede un grande divulgatore matematico Martin Gardner con la rubrica di giochi matematici che tenne per più di un quarto di secolo in Scientific American, "Mathematical Games" (i Giochi matematici nella traduzione italiana di Le Scienze fino al 1981).
Attraverso i suoi "giochi matematici" mi incuriosì, mi stimolò e soprattutto mi convinse  a impegnarmi profondamente con l'insegnamento di questa disciplina.
Gardner, che ha deliziato e incuriosito sia matematici dilettanti che professionisti, non per niente è stato soprannominato "il miglior amico della matematica mai avuto"!


Martin Gardner sulla statua Alice in Wonderland al Central Park di New York


L’insegnante di matematica di scuola superiore che rimprovera due studenti sorpresi a giocare di nascosto una partita di filetto invece di stare attenti alla lezione, farebbe meglio a fermarsi e chiedersi: “Per questi studenti questo gioco è più interessante, dal punto di vista matematico, di ciò che sto loro dicendo?”. In effetti, una discussione in aula sul filetto non sarebbe una cattiva introduzione a diverse branche della matematica moderna.
Martin Gardner,
dall’Introduzione a Enigmi e giochi matematici, Vol. I






Infinito e Indefinito

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La cena si prospetta normale, nessuno dei due predilige la pizza, quindi si comincia con un antipastino freddo di pesce, “poi” - diciamo al cameriere – “si vedrà”. 
È l’ultimo giorno di ottobre e gli altri hanno dato forfait, ci siamo trovati solo in due: Virgilio ed io. 
Si comincia a chiacchierare del più e del meno. I nostri argomenti sono leggeri, quasi frivoli, nessuno di noi due ha preparazione sufficiente per affrontare le questioni kültürali profonde: ascendenze astrali per la corretta interpretazione dell’oroscopo, la prossima edizione del Gi Effe (Grande Fratello), i grandi temi del pacifismo, dell’ambientalismo no global, Zosimo, i profondi pensieri di Celentano, ecc. 
Ci limitiamo a qualche commento alla buona su “San Pietro”, l’ultimo sceneggiato trasmesso dalla Rai, sul diffondersi della cultura della menzogna e del rifiuto sistematico della verità anche di fronte all’evidenza. Io affermo che, pur di non recedere dalle convinzioni ideologiche proprie, o credute per fede partitica, si nega o si fanno affermazioni aberranti. 
Poco prima della fine dell'antipasto, proprio su questa questione della verità e sul significato autentico del termine, riporto, a titolo di esempio, un episodio che mi ha visto coinvolto: discutevo recentemente con un amico circa i numeri primi e gli enigmi ancora irrisolti che li avvolgono: uno fra questi il fatto che siano o meno “infiniti”. Racconto quindi ad Virgilio di come l’amico mi abbia ricordato che esiste più di una dimostrazione matematica che dimostra la loro infinità, e di come io abbia ammesso con franchezza la sua ragione ed il mio torto. 
E qui Virgilio, dopo avermi ascoltato, esprime un concetto inusitato: 
i numeri primi, ma anche i numeri naturali, non sono “infiniti”, sono “indefiniti”. 




Rimango per qualche secondo senza parole, cercando di risalire mentalmente al significato etimologico e sostanziale dei due termini, nonché di cogliere l’essenza del ragionamento che ne deriva. 
Veniamo interrotti dal cameriere, che ci propone altri piatti; io avevo accarezzato l’idea di un fritto di calamari, ma poiché debbo restare lucido, viro su un’innocua mozzarella, rinunciando al vinello frizzante che aveva accompagnato l’antipasto. 
Dunque, penso tra me e me, i numeri non sarebbero infiniti. Riaffiora nella memoria, dai tempi dell’università, la teoria di un fisico nucleare che sostenne la finitezza dei numeri: la logica del ragionamento, in termini assai poveri, era la seguente: i numeri son fatti per contare, per “numerare” appunto. I protoni sono i componenti minimi ed indivisibili della materia. I granelli di polvere e le stelle son fatti di atomi, e il nucleo degli atomi è fatto di protoni. Fatta una stima di tutta materia presente nell’universo, la quantità totale di protoni è un numero composto da circa ottanta cifre. Andare oltre questo numero è solo una finzione logica, perché non vi sarebbe più nulla da “numerare”. 
L’”infinità”, - prosegue dal canto suo Virgilio - è una caratteristica che trascende la capacità umana di comprensione. L’”indefinitezza”, invece, ci conduce ai confini delle dimensioni dello spazio, del tempo e della quantità, poi avvolge la mente in una sorta di nebbia che impedisce di spingere oltre il pensiero. La mente è costretta a fermarsi. 
Non trovo argomenti da opporre. 
E mi ritornano alla memoria i versi immortali di Leopardi:
… Così, tra questa
immensità, s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Autore: Ugolino 



Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta, perché l’anima, non vedendo confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità.

L'ultimo verso leopardiano del post di Ugolino mi ha ricordato queste poche righe dello Zibaldone (del 4 gennaio 1821) che, credo, riflettano perfettamente il pensiero di Leopardi sull’infinito, mettendo in luce appunto la distinzione tra “infinito” e “indefinito”.



"Verso dentro" opera di Tobia Ravà

Ma l'infinito o l'indefinito per un matematico o un fisico? 

Partendo dal presupposto che la differenza sostanziale consiste nel fatto che un oggetto è indefinito quando non è possibile definirne le dimensioni che però sono proprie dell' oggetto in questione e che, al contrario, un oggetto è infinito quando non è possibile definirne le dimensioni perché queste non sono proprie dell'oggetto, si potrebbe rendere più chiara la distinzione con un esempio, considerando una linea e un filo.
Se tracciamo una linea verticale alla lavagna notiamo che avvicinandoci o allontanandoci da essa le dimensioni della linea (valutate relativamente alla nostra posizione) risulteranno scalate proporzionalmente alla nostra distanza dalla lavagna, mentre se ci mettiamo "col naso appiccicato alla lavagna", la lunghezza della linea verticale ci sembrerà infinita.

Sostituendo alla linea un filo ci accorgiamo che, in fisica, quando si parla di filo indefinito significa che stiamo valutando una qualche proprietà del filo ponendoci ad una distanza nulla dal filo, cioè facendo in modo da integrare tale proprietà tra  -oo  e  +oo , cioè consideriamo il filo come se avesse lunghezza infinita, ma visto che un filo infinito non è fisicamente possibile che esista,  implicitamente sappiamo che quel filo per quanto lungo possa essere sarà pur sempre finito. Riassumendo: il filo non lo possiamo considerare infinito perché non è fisicamente possibile che esista ma allo stesso tempo lo possiamo considerare tale a patto di porci a distanza pressocché nulla da esso, dunque questo filo è contemporaneamente finito e infinito, cioè indefinito.   




Bugie matematiche o asimmetria informativa?

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"Le scienze non tentano di spiegare, nemmeno tentano di interpretare; le scienze creano soprattutto dei modelli. Per modello si intende una costruzione matematica che, con l'aggiunta di determinate interpretazioni verbali, descrive i fenomeni osservati. La giustificazione di una tale costruzione matematica sta esclusivamente e precisamente nel fatto che ci si aspetta che funzioni." 
John von Neumann (1903-1957)


La nascita della moderna Teoria dei Giochi può essere fatta coincidere proprio con l'uscita del libro "Theory of Games and Economic Behavior" di John von Neumann e Oskar Morgenstern

John von Neumann è stato sicuramente una delle menti più brillanti e straordinarie del secolo scorso ed era ungherese. 
Faceva infatti parte  del famoso "clan degli ungheresi" ai tempi di Los Alamos e del Progetto Manhattan (la bomba atomica) che, insieme al suo amico e connazionale Leo Szilard, a Edward Teller ed Eugene Wigner, era considerato il clan degli "alieni".
Si racconta che Enrico Fermi, una delle figure più importanti all'interno dello stesso grande progetto, quando manifestò un certo scetticismo sull'esistenza di una civiltà aliena superiore che non fornisse nessun segno della proprio esistenza, Szilard gli rispose "probabilmente sono già qua, e li stai chiamando ungheresi". 
Tra cotanti scienziati, ungheresi o no, John von Neumann era considerato davvero un semidio dei numeri, un alieno di un altro pianeta, dotato di una mente straordinaria che gli ha permesso di apportare contributi significativi, e talora assolutamente nuovi, praticamene in ogni campo della ricerca, dalla matematica alla meccanica statistica, dalla meccanica quantistica alla cibernetica, dall'economia all'evoluzione biologica, dalla teoria dei giochi all'intelligenza artificiale......e, purtroppo, anche alla bomba atomica.
Gli anni della guerra infatti vedono profondamente coinvolto von Neumann nel progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica. 
Un coinvolgimento alimentato soprattutto da un profondo odio verso i nazisti, i giapponesi e successivamente verso i sovietici. 
Già nel 1937, dopo aver ottenuto la cittadinanza statunitense, gli viene proposto di collaborare con le forze armate e da quel momento la sua escalation ai vertici delle istituzioni politico-militari sarà inarrestabile. 
È lui a suggerire come deve essere lanciata la bomba atomica per creare il maggior numero di danni e di morti, è lui che interviene nella costruzione della bomba al plutonio realizzando la cosiddetta "lente al plutonio", ed è ancora lui a incentivare la costruzione di ordigni nucleari sempre più potenti. 
Ma è lui forse anche il capostipite della cosiddetta guerra preventiva. Propose infatti alle autorità militari di bombardare preventivamente l'Unione Sovietica per scongiurare il pericolo rosso ed è la sua teoria dei giochi che venne ampiamente utilizzata in questo contesto, per studiare e ipotizzare tutti i possibili scenari bellici che si potevano sviluppare in seguito a certe decisioni. 
Il fervore con cui appoggiò lo sviluppo degli ordigni atomici lo spinse a seguire di persona alcuni test sulle armi nucleari nella seconda metà degli anni quaranta, che raggiungeranno l'apice con l'esplosione della bomba H nelle Isole Marshall nel 1952. 
Probabilmente saranno proprio le radiazioni sprigionate da questi test a condannarlo a morte, da lì a poco.


Il fervore con cui Neumann appoggiò lo sviluppo degli ordigni atomici lo spinse a seguire di persona alcuni test sulle armi nucleari nella seconda metà degli anni quaranta, che raggiungeranno l'apice con l'esplosione della bomba H nelle Isole Marshall nel 1952

Ritornando ai suoi contributi in campo matematico, è chiaro che la nascita della moderna Teoria dei Giochi può essere fatta coincidere proprio con l'uscita del libro, nel 1944, "Theory of Games and Economic Behavior" di John von Neumann e Oskar Morgenstern, teoria che verrà poi approfondita e formalizzata da altri matematici, tra cui il suo allievo, a Princeton, John Forbes Nash jr.sicuramente il più famoso studioso ad essersi occupato successivamente della Teoria dei Giochi, in particolare per quel che concerne i "giochi non cooperativi".
Nash, affascinato dalla possibilità di applicare la Teoria dei Giochi all'economia, ai rapporti politici tra stati, alle strategie militari, affrontò il problema in modo originale e rivoluzionario rispetto a Von Neumann. 
Estese la trattazione ai giochi a più partecipanti e scoprì una soluzione di equilibrio in cui ogni agente trova la miglior strategia rispetto alla migliore strategia di tutti gli altri (le "strategie dominanti"). 
L'equilibrio di Nash, insieme al teorema del minimax di Von Neumann, è stata uno dei cardini della teoria dei giochi ed è stata applica costantemente ai campi più disparati: dall'economia alla biologia.  
Teoria che recentemente è stata però messa in discussione dagli studi di Ekeland che smontano le idee del Nobel Nash, affermando che “teoria dei giochi ed equilibrio razionale sono superati”.


Entrato nell’imaginario collettivo tramite l’interpretazione di Russel Crowe nel  film “A Beautiful Mind” il celebre matematico John Forbes Nash, Jr. è da poco tragicamente scomparso in un incidente stradale, subito dopo essere stato insignito, insieme a Louis Nirenberg, del prestigioso Abel Prize 

Intervenendo al convegno, organizzato dal 14 al 18 settembre scorsi all’Università dell’Insubria, incentrato sui fenomeni non lineari in Matematica e in Economia, che, tra i relatori, avrebbe dovuto ospitare proprio Nash, ha affermato:

"I modelli di Nash sulla teoria dei giochi e sull’equilibrio razionale sono le basi della moderna teoria economica. Ma Nash era figlio dei suoi tempi e il suo pensiero mirava all’ottimizzazione: alla ricerca dell’equilibrio tra variabili e forze, fino ad arrivare al miglior risultato con un uso minimo delle risorse. Era il momento in cui si iniziarono a costruire computer sempre più veloci".

Ma è innegabile che alla razionalità di Nash e dei suoi tempi è seguita l’irrazionalità dei nostri. Ed è proprio in campo economico e dei mercati che si riflette questa irrazionalità.

"Oggi - dice ancora Ekeland - tutte le teorie economiche riguardano gli individui, non la società nel complesso. Tutto si basa su contratti tra individui e al centro c’è un principio fondamentale e poco noto: l’asimmetria informativaSono contratti e relazioni dove una parte sa più cose dell’altra, ben descritte da tanti modelli matematici". 

Ed ecco quelle che potremmo definire le "bugie" della Matematica e dei suoi Modelli incapaci di descrive il vicolo cieco in cui siamo finiti, tra Stati che rischiano di fallire, mercati impazziti o incomprensibili. 

"Ma non è vero - sottolinea ancora Ekeland - che nessuno li capisce. C’è chi guadagna un mare di soldi facendo “high frequency trading”, con transazioni velocissime e senza veri rischi. Non solo. È un particolare tipo di asimmetria informativa, vale a dire l’azzardo morale, a governare gli stipendi d’oro dei manager. Perché il contratto con cui un’azienda assume un manager si basa proprio su uno squilibrio: l’azienda non sa se il manager lavorerà bene e raggiungerà gli obiettivi. Per stimolarlo deve pagarlo sempre di più di anno in anno, e per lavorare sempre meno. Finché non c’è altra scelta se non mandarlo in pensione a cifre altissime. E cercare un sostituto ancora più caro."


Il professor Ivar Ekeland, docente della Université Paris-Dauphine 

L'apertura dei lavori della RISM School, Riemann International School of Mathematics, nel Campus di Bizzozero era stata infatti affidata al professor Ivar Ekeland, docente della Université Paris-Dauphine. 
Nella sua appassionata Lectio Magistralis dedicata all’opera geniale di Nash, aveva anche ripercorso l’opera del grande matematico, contenuta in pochi lavori ma di grande impatto in aree molto diverse della Matematica, con ricadute straordinarie nel modo di pensare, a livello non solo economico ma anche sociale. 
Con la sua Lectio Magistralis aveva catturato la platea passando disinvoltamente dalla Matematica a citazioni letterarie, ricordando l’attribuzione del premio Nobel per l’Economia a Nash nel 1994, sottolineando quanto importanti siano state le ricadute dei suoi studi proprio sull’Economia, e concludendo il suo discorso con una poesia del simbolista francese Stéphane Mallarmé, intesa a valorizzare lo spirito di Nash senza dimenticarne la malattia.


Édouard Manet, Portrait of Stéphane Mallarmé, 1876

Ivar Ekeland ha scelto “La tomba di Edgar Poe” per concludere un tema complicato come quello del genio matematico. 
Nash lo era un genio, nonostante una schizofrenia che per lungo tempo lo costrinse a un isolamento forzato. Per quasi trent’anni quello che la rivista Fortune definì "il più brillante nell’ultima generazione di matematici", vagò quasi ignorato da tutti nel dipartimento di matematica di Princeton e solo grazie al film di Ron Howard “A beautiful mind” il suo eccezionale contributo alla matematica divenne noto al grande pubblico.
Perché il Professore ha concluso la sua lectio magistralis citando proprio i versi di Mallarmé dedicati ad Edgar Allan Poe? 
Perché questa associazone? 
Che cosa accomuna il matematico Nash e lo scrittore americano Edgar Allan Poe?
La sua risposta è stata questa:

"La luce e le tenebre della loro vita. 
Nash rappresenta un nuovo carattere romantico nella matematica, non è morto giovane come Galois o Abel, ma la sua schizofrenia non gli ha permesso di vivere per quasi 50 anni. Eppure la sua opera è lì, destinata a rimanere nel tempo, come del resto in letteratura è rimasta quella di Poe, nonostante si sottolinei che la sua vita sia stata condizionata dalla droga. 
Poco importa, grandezza e tragedia sono le due facce della loro esistenza".



La tomba di Edgar Poe


Quale in Sé stesso alfine l'eternità lo cambia 
Il Poeta risveglia con una spada nuda 
Il suo secolo spaventato di non essersi accorto 
Che la morte trionfava in quella voce strana

Essi come un vile sussulto d'idra udendo in passato l'angelo 
Dare un senso piú puro alle parole della tribú 
Proclamarono a gran voce il sortilegio bevuto 
Nell'onda senza onore di qualche nera mescolanza

Della terra e della nube ostili oh danno 
Se con quello la nostra idea non scolpisce un bassorilievo
Del quale abbagliante la tomba di Poe si orni

Calmo blocco quaggiú caduto da un disastro oscuro 
Che questo granito almeno mostri per sempre il suo limite 
Ai neri voli della Bestemmia sparsi nel futuro 






Dov'è finita la relazione nel tango?!

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di Maria Calzolari
Il tango è ballo di relazione per eccellenza, anzi forse potremmo dire che il Tango è il ballo di relazione. Su questo credo converremo tutti: la connessione alta tra i ballerini all’altezza del cuore, il dialogo corporeo che si trasforma in un dare e ricevere continuo. Non a caso si parla della coppia nel tango come di un animale a quattro zampe, quasi fosse possibile (e non solo in termini posturali, di corpo) realizzare una fusione di anime mentre si balla. Molti libri parlano del tango in questi termini e forse è questa la chiave di volta che rende questo ballo diverso dagli altri, più profondo, più rivelatorio, più intenso.
 yin e yang
Qualche sera fa mi trovavo in una deliziosa milonga di Bologna e osservavo le coppie ballare in pista, con l’occhio che mi proviene dalla mia formazione di sociologa, prima ancora che di insegnante di tango. Mi piace osservare i fenomeni da un punto di vista anche sociale. E notavo che nessuno, o quasi, ballava il tango stando davvero in relazione. Presuntuoso da parte mia affermare questo? Non credo, perché io per prima conosco la differenza (che ho sentito dentro di me) tra il ballare in relazione e il ballare come prestazione. Non c’è nulla di sbagliato nel ballare per sentirci bravi, o all’altezza delle aspettative proprie e del “pubblico tanguero”, tutti desideriamo il riconoscimento da noi stessi e dagli altri, ma che cosa ci stiamo perdendo mentre balliamo con questi presupposti? Perdiamo l’essenza del tango. Basta osservare gli sguardi di chi sta ballando, l’intenzione dei loro corpi, per comprendere cosa stia accadendo dentro quella coppia. Un occhio attento e sensibile coglie chi balla restando in relazione e chi lo fa uscendone. Non mi stupisce tutto questo, perché ho sempre ritenuto che la milonga sia uno specchio micro di ciò che accade nella società macro. E siamo in un periodo storico nel quale la relazione si è completamente persa, soppiantata dall’illusione di stare in relazione, che ci proviene soprattutto dall’utilizzo esasperato dei social network e dei media.
Dov’è finita la relazione?! Nel tango, come nella vita?! 
Azzardo un’ipotesi. Stiamo perdendo la distinzione dei ruoli maschile e femminile, c’è una grande confusione su questo punto. Siamo in un momento storico in cui le donne si comportano più come uomini, hanno sviluppato quello che in psicologia si chiama maschile interiore, in maniera molto accentuata e in ragione di questo si affermano in maniera molto forte, cadono spesso nel bisogno di avere il controllo di tutto e finiscono per “comandare”. Mentre gli uomini si stanno spostando più sul loro femminile interiore, sono molto più protettivi di anche solo 50 anni fa e più sensibili. Non trovo che tutto questo sia sbagliato, anzi, c’è qualcosa di davvero importante in queste conquiste e da salvaguardare, ma senza esasperarlo. Questa confusione di ruoli nel tango si vede chiaramente. Quando si entra nei due ruoli del tango spesso la donna fatica a lasciarsi andare e continua a cercare di detenere il ruolo di guida che le è così familiare nella vita di tutti i giorni e l’uomo fatica a prendere in mano la situazione e a guidare con decisione. Sono anni che noto questa dinamica tra i miei allievi e anche nelle milonghe. E la relazione salta, perché il tango ci chiede che i ruoli vengano rispettati! Non credo sia un caso che il Tango sia così popolare oggi. E’ un modo per riappropriarsi del proprio ruolo anche a livello sociale. Il tango funziona quando la donna è nel suo femminile e l’uomo nel suo maschile ed è comune l’intenzione di dialogare costantemente. Ciò non significa poi, né per l’uno, ne per l’altro, perdere le proprie conquiste sociali, ma semplicemente permettersi di ritrovare il proprio ruolo di partenza. Ed è fantastico, a mio parere, questa riconquista! Per la donna riconquistare il proprio femminile non c’entra nulla con tacchi alti e mise deliziose. Stare nel proprio femminile è mollare la presa, abbandonarsi fiduciose, affidarsi e lasciar fare all’uomo, senza velleità di controllo. Perché se balliamo con un tacco 9, ma siamo sempre all’erta su tutto quello che l’uomo ci sta proponendo, di femminile ci rimane solo il tacco purtroppo!
 L'abbraccio

L’altra sera tutto questo mi è stato confermato da un commento di apprezzamento che mi è venuto proprio dopo essermi immersa nel tango con il mio compagno di ballo, godendoci un dialogo tra corpi dove i ruoli erano rispettati e c’era la volontà di ascoltare ogni più piccola piega di noi: il respiro, i micromovimenti sincronizzati del corpo, la lentezza dei movimenti stessi, il contatto. Tutto questo dovrebbe appartenere al tango teoricamente sempre, ma spesso lo si perde. Ballare stando in relazione richiede intenzione e molto lavoro interiore e su di sé, per imparare a restare davvero aperti all’altro e a rispettare i ruoli. Mi fa piacere che la relazione arrivi agli occhi di chi osserva, perché questo mi conferma la parte di responsabilità che hanno gli insegnanti nel trasmettere l’importanza dello stare in relazione nel tango. Qualcuno potrebbe ritenere che la relazione si possa spiegare, il come stare in relazione si possa affermare a parole. Questo è assai difficile. Noi impariamo quello che respiriamo e vediamo, più di quello che ci viene detto. A livello psicologico questo è chiarissimo. Avete mai notato i bambini rispetto ai genitori? Imitano. Non sono importanti le parole che vengono loro dette, ma quello che vedono, sentono, respirano. Se un genitore dice “a” e fa “b”, il bambino non impara “a”, ma fa sua l’incoerenza del genitore ed emula “b”. I famosi neuroni a specchio! Jean Jaurès diceva “Non si insegna quello che si vuole, dirò addirittura che non si insegna quello che si sa o quello che si crede di sapere: si insegna e si può insegnare solo quello che si è”. Ne convengo. Come insegnanti credo abbiamo la responsabilità di trasmettere l’essenza del tango e quindi di partire da un lavoro su noi stessi, per essere noi per primi in relazione quanto più possibile mentre balliamo e per valorizzare la dimensione relazionale di questo ballo. Poi sarà scelta dell’allievo accogliere tutto questo e farlo proprio, oppure non riconoscerlo come buono per sé. Perché insegnare passi e struttura in un certo senso ci compromette meno, trasmettere il senso relazionale del tango è impresa più ardua, ma almeno dal mio punto di vista più affascinante.

L'articolo è uscito sulla rivista online Tango y Gotan il giorno 7 ottobre 2015 
Maria Calzolariè Presidente dell’Asd OliTango, la prima associazione di Bologna che unisce il Tango alle discipline olistiche www.olitango.it. E' insegnante di Tango Argentino, diplomata MIDAS, e Operatrice di TangoOlistico®. Di formazione sociologa, balla tango dal 2007 e scrive per passione. Nel 2013 è uscito il suo romanzo “Amore... a passo di Tango” (Ed. Pendragon) che riflette il suo modo di intendere e vivere il tango. Tiene un blog sul suo sito www.mariacalzolari.it 

Amore e fisica quantistica?

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«Lei disse: “Dimmi qualcosa di bello!”. Lui rispose: “(∂ + m) ψ = 0”. 
La risposta è l’equazione di Dirac, dove m è la massa del sistema considerato, ∂ è una variabile di Feynman e Ψ è la funzione d’onda che descrive lo stato fisico del sistema. L’equazione più bella della fisica. Grazie ad essa si descrive il fenomeno dell’entanglement quantistico. Il principio afferma che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma, in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce


E' un post che gira da tanto tempo e appena mi capita di vederlo condiviso da amici rispondo che purtroppo non è proprio così e che l'amore eterno non esiste nemmeno per gli elettroni!
Devo confessare che la Fisica non mi ha mai appassionato come invece mi ha sempre appassionato e mi appassiona la Matematica, ma la mia curiosità mi aveva spinto a verificare se effettivamente il messaggio che compariva in internet e sui Social Network (soprattutto su Facebook) fosse scientificamente corretto. Purtroppo l'affascinante e romantica risposta non era poi così romantica!

Cerchiamo di capire intanto di cosa si tratta effettivamente e poi perché sia scientificamente scorretta.
Nel post si parla inizialmente di Dirac......ma chi era costui?
Di Paul Adrien Maurice Dirac  si possono facilmente trovare notizie attendibili sul web che lo descrivono come un fisico e matematico britannico, premio Nobel per la fisica nel 1933, ma soprattutto considerato tra i fondatori della fisica quantistica.
Non mi soffermerò certo a parlare di fisica quantistica, che in parole povere,  si occupa di spiegare i fenomeni microscopici (quelli che avvengono su scale vicine e/o inferiori a quelle atomiche) o ad analizzare nei dettagli l'equazione citata, mi limiterò a sottolineare che tra l'equazione di Dirac e l'entanglement quantistico non esiste alcun nesso! (come potranno verificare i più curiosi dall' articolo pubblicato sulla rivista online dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Asimmetrie, di cui lascio il link

Dirac alla lavagna, nei primi anni ’30 dello scorso secolo

Mi sento di sottolineare solo il fatto che l'introduzione della teoria quantistica ha portato ad una serie di scoperte grandiose e rivoluzionarie, che hanno fatto mettere in discussione le certezze della fisica classica. 
Tra le tante, la previsione di questo fenomeno dell’entanglement, riprodotto per la prima volta intorno al 1972.
Secondo la meccanica quantistica è quindi possibile realizzare un insieme costituito da due particelle che abbiano la capacità di influenzarsi l’un l’altra qualsiasi sia la distanza che intercorre tra di esse, istantaneamente. Ad ogni cambiamento di una particella, nell’altra osserveremo un comportamento uguale e opposto anche se la teoria postula comunque l’impossibilità di predire con certezza il risultato di tale cambiamento.
Il termine "entanglement" (letteralmente, in inglese, groviglio, intreccio) fu introdotto da Erwin Schrödinger in una recensione del famoso articolo sul "paradosso EPR", che nel 1935 rivelò a livello teorico il fenomeno.
L'entanglement è infatti una delle proprietà della meccanica quantistica che portarono Einstein e altri a metterne in discussione i princìpi. 
Nel 1935 lo stesso Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen, formularono il celebre "paradosso EPR" (dalle iniziali dei tre scienziati), che metteva in evidenza, appunto come paradossale, il fenomeno dell'entanglement.
Comunque l'entanglement è un termine usato per descrivere “la reciproca dipendenza di due o più sistemi fisici spazialmente  separati”.
Questo è più o meno in sintesi quello che dice la teoria ma per darne una spiegazione più chiara e comprensibile ci vuole un fisico.
Ed eccolo trovato!
Un amico fisico ha provato a spiegare a me l'arcano con questo esempio.

"Dunque, cerca di immaginare due elettroni che vengono preparati nello stesso sistema, come potrebbe essere l’orbitale di un atomo, e caratterizzati da un valore quantitativo, detto “spin”.
Questo spin può valere A o B, ma quando vengono preparati nello stesso sistema non possono avere lo stesso valore di spin, per cui se uno è A l’altro è B e viceversa. 
Ammettiamo ora di avere questi due elettroni nello stesso sistema e di misurare il valore di spin di uno dei due. Se la misura fornisce il valore A, ciò significherà automaticamente che il valore dell'altro sarà B. 
Questo lo si può anche verificare facendo una misurazione sull'altro elettrone scoprendo così che il suo spin è effettivamente B, come ci saremmo aspettati. 
Proseguendo nel nostro esperimento prendiamo a caso uno dei due elettroni e lo spediamo ad un amico, magari in Australia e quindi che abita dall’altra parte del mondo. Misuriamo allora il valore di spin di quello che è rimasto ed esce ad esempio che è A, poi chiamiamo l’amico e gli chiediamo di misurare quello dell’elettrone che gli è arrivato. Effettivamente risulta essere B. 
Decidiamo di ripetere l’esperimento e misurare di nuovo il valore di spin del nostro elettrone e magari stavolta è B. Richiamiamo l'amico, gli chiediamo di misurare il suo e sorprendentemente trova che anche il suo elettrone ha cambiato valore, che infatti misura A. 
Se ripetiamo l’esperimento un centinaio di volte vediamo che i due elettroni fanno sempre lo stesso giochetto: se uno è A l’altro è B e viceversa pur non influenzandosi direttamente essendo a migliaia di chilometri. 
Allora è vero, esiste effettivamente una reciproca dipendenza come asseriva il principio dell'entanglement? 
Lasciamo passare un po' di tempo, per esempio un mese, e ripetiamo l'esperimento con l'amico australiano ma con nostra somma sorpresa stavolta gli elettroni fanno come gli pare: se uno è A, l’altro è A, oppure B, a caso. I due elettroni, senza una spiegazione scientifica, hanno smesso di essere entangled......altro che vero amore!!!!!"



Questa è stata la spiegazione del mio amico fisico e queste le mie riflessioni sul fatto che troppo spesso sui Social Networks e soprattutto su Facebook si condividano false notizie, per fare effetto o per accaparrarsi i "mi piace" (non si capisce bene a che pro?), magari appunto usando a sproposito dotte citazioni o teorie scientifiche.
Proprio perché le potenzialità divulgative dei Social Networks sono enormi, in tempo reale e a costo zero, sarebbe sicuramente più utile ed efficace che fossero proprio gli studiosi o gli scienziati i primi a diffondere la loro cultura, creando così curiosità ed interesse senza pericolo di "bufale".
E per quel che riguarda questo post cosa possiamo dedurne? 
Forse che Facebook è un ottimo diffusore di bufale o che la fisica quantistica è affascinante o che l’amore eterno non esiste? 
A seconda delle sensibilità cambierà la risposta e sicuramente molti saranno rimasti delusi e mi incolperanno di non essere romantica o forse addirittura di essere cinica. 
A queste persone rispondo che non c'è bisogno di ricorrere alla scienza per dichiarare il proprio amore.....forse basta solo un gesto, un sorriso, un "ti amo" e la scienza e l'amore ringrazieranno!



Mafalda e il paradosso dello zero

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Leggendo un interessante scritto di Bruno D’Amore (Dipartimento di Matematica, Università di Bologna) "Lo zero, da ostacolo epistemologico ad ostacolo didattico" mi sono imbattuta in questo curioso dialogo, durante il gioco "Io dico un numero… Tu a che cosa pensi?", tra un Ricercatore (R) e Mafalda (M nome di fantasia di una bimba di 4 anni):





R: Numero quattro.
M: Io ho quattro anni.
R: Numero cinque.
M: Non lo so… però anche cinque caramelle.
R: Numero due.
M: I piedi che ho.
R: Numero dieci.
M: (allegrissima, mostrando le mani aperte) Le dita delle mani.
R: Numero uno.
M:  (dapprima pensierosa, poi si tocca il naso) Il mio naso.
R: Numero sei.
M: I colori.
R: Numero otto.
M: Otto signori.
R: Numero zero.
M: I bambini qui. Ci sono io e poi zero.
R: Che vuol dire zero?
M: Che non c’è niente. Vedi? (Mostra le due mani chiuse a pugno) Non c’è
niente.
R: Tu sai come si scrive il numero dieci?
M: Sì. Con uno zero e un uno. (Con le dita finge di scrivere per aria zero e
uno).
R: Allora zero vuol dire nulla?
M: No, zero vuol dire tanto.
R: Ma come, avevi detto che zero vuol dire niente, adesso vuol dire tanto?
M: No, non capisci… Zero vuol dire niente, ma vuol dire tanto. Se tu mi dai
zero caramelle mi viene una panciona grande grande.
R: Ma come, non capisco. Come fa zero a voler dire tanto?
M: Quando tu dici dieci c’è zero che vuol dire tanto. Sì, vuol dire tanto quello
zero.
R: Allora cento vuol dire tanto tanto?
M: No, non lo so cosa vuol dire quella parola.
R: Cento vuol dire un numero che si scrive con uno e poi zero e poi ancora un
altro zero. Allora è tanto o è poco?
M: Io non lo sapevo. Allora cento è più di dieci e allora zero vuol dire tanto
tanto.
R: E mille?
M: Come si scrive?
R: Con uno e poi zero zero zero. Qui come funziona?
M: Che allora zero vuol dire tanto tanto tanto perché è più più più di dieci.



Mafalda e lo "zero" - immagini tratte da 

Questa conversazione dimostra sorprendentemente non solo l'uso spontaneo dello zero da parte dei bambini fra i 3 ed i 6 anni  ma soprattutto appare molto evidente la doppia natura dello zero percepita da Mafalda, sia come cardinale del vuoto, del nulla, sia come cifra per accrescere i numeri.
E dimostra soprattutto come le due concezioni siano entrambe presenti, distinte e palesi e come Mafalda mostri grande destrezza nel maneggiare questi due aspetti, facendo una distinzione esplicita tra essi.
E' evidente che ci sia una totale consapevolezza dello zero come cardinale e come cifra, prima dell’ingresso nella scuola primaria.
Da altre conversazioni proposte si evidenzia che, anche se non tutti i bambini intervistati sanno scrivere i numerali da 1 a 9, quasi tutti sanno scrivere zero, per lo meno sanno che zero si rappresenta con “un tondo”. 
Nel rappresentarlo, però, è totale l’uso della forma oblunga corretta e non è affatto diffusa una forma rotonda a mo’ di circonferenza .
La maggior parte dei bambini sa associare lo zero a “niente”, inteso alle volte come assenza di azione o di oggetti ("Non si fa niente, zero", "Zero anatroccoli", "Zero soldi"....). 
Interessante, a questo proposito l’espressione di un bambino che, giocando a fare le somme, al momento di dare risposta alla 5 + 0 dice 5 e mostra una mano con tutte le 5 dita distese e l’altra mano con le dita a pugno per indicare zero.
Quasi tutti i bambini considerano lo zero un numero e molti, riferendosi alla scrittura dei numeri, dicono che lo zero serve per scrivere i numeri.
La quasi totalità degli intervistati dimostra di riconoscere lo zero in un numero scritto e mostra di saper scrivere numeri con lo zero.
Quasi tutti hanno mostrato di intuire il valore posizionale dello zero nella scrittura dei numeri.
Un certo numero di bambini dimostra di essere consapevole delle proprie capacità ("Io so come si fa", "Io so come si scrive"....).

A conclusione di queste osservazioni mi sorge spontanea una domanda: "Ma come è possibile che una bambina di 4 anni riesca così bene a percepire la doppia natura dello zero, sia come cardinale del vuoto, del nulla, sia come cifra per accrescere i numeri?"
Come è possibile vista l'idea della complessità dello "zero", data anche dal fatto che, come segno matematico, entrò con difficoltà nella cultura europea e che proprio questo doppio aspetto ha permesso allo zero di servire come luogo d’ambiguità fra un carattere vuoto e un carattere per il vuoto.
Lo zero rappresenta infatti la non presenza dei numeri 1,2, ...,9 e contemporaneamente produce l'intera progressione potenzialmente infinita degli interi.
Ma tornando ai bambini, sorprende ancora di più questa loro consapevolezza "naturale" dello zero riflettendo anche sul fatto che se per loro e per Mafalda è una vera e propria cifra, nel sistema babilonese antico il segno introdotto significava solo “assenza” senza alcuna funzione di numerale. 
Potrebbe sembrare una differenza da poco, ma non lo è e accettare un segno specifico che indica vuoto o nulla o assenza come una vera e propria cifra che indica un segno numerale, può essere considerato un vero atto di coraggio culturale e filosofico. 
Neppure i Greci, i più grandi matematici della storia, concepirono lo zero come numero (anche se non tutti gli storici sono concordi). I loro numeri partivano da due, dato che per essi "il numero era molteplicità" dunque uno non è un numero (e zero meno ancora, non ce n’era neppure l’idea).
Spesso si dice che questo fatto è connesso al terrore filosofico che i Greci ebbero del nulla, del vuoto, dell’assenza, concetto che entrava in forte contrasto con la filosofia parmenidea (l’Essere, unità e totalità, eterno, di cui si può predicare solo che “è”) che dominò il loro pensiero filosofico.
I bambini con la loro immediatezza e spontaneità non si preoccupano di temi filosofici e riescono a percepire concetti matematici che purtroppo poi proseguendo nella scuola vengono distorti o resi di difficile assimilazione.

Il tema del Carnevale della Matematica di novembre, ospitato da MaddMaths,  "I concetti indispensabili della matematica", mi ha fatto ripensare all'importanza dello zero, basilare e indispensabile per introdurre opportunamente l'insegnamento della matematica.
Opportunamente perché lo zero può essere considerato un ostacolo epistemologico.
Come ricordavo era assente presso tutte le popolazioni antiche, compresi Greci e Romani, ed apparve solo nel VII sec. d. C. in India.


Alexander de Villa Dei nel 1240 circa (o 1225) scrive la Canzone dell’Algoritmo (Carmen de Algorismo) 
letta e riletta nei conventi e nelle università da chiunque si occupasse di aritmetrica
Prima significat unum; duo vero secunda;
Tertia significat tria; sic procede sinistre
Donec ad extremam venias, quae cifra vocatur.¹

Se cerchiamo di fare una veloce carrellata storica (maggiori informazioni qui) ci accorgiamo infatti che la prima comparsa dello zero risale all’epoca dei Sumeri, cioè a circa 3 mila anni fa. Era un simbolo della scrittura cuneiforme, formato da due incavi inclinati che indicava l’assenza di un numero.
Un simbolo simile era utilizzato di tanto in tanto anche dagli Egizi, ma soltanto tra altri numeri, mai all’inizio o alla fine di una serie. 
Le antiche civiltà cinesi non avevano uno zero vero e proprio, ma l’uso dell’abaco, il precursore della calcolatrice, fa supporre che comunque fosse noto il concetto di valore nullo. 
I Maya, al contrario, avevano un simbolo, ma non lo utilizzavano nei calcoli. 
Lo sviluppo dello zero in senso moderno va fatto quindi risalire alla cultura Hindu, con uno studio dovuto a Brahmagupta risalente al 628 d.C., anche se il padre dello zero è considerato universalmente il matematico arabo Muhammad ibn Musa al Khwarizmi (800 d.C.) che lo introdusse tra i numeri oggi noti come “arabi”.
Per quel che riguarda l'origine dello zero, usato in senso posizionale, devo però far notare che questa è stata recentemente messa in discussione.


Il tablet Gwalior dimostra che dal 876 d.C. un sistema posizionale con base 10 era diventata parte della cultura popolare in almeno una regione dell'India. 
Ciò che sorprende di questi numeri è che sono così simili a quelli che utilizza la civiltà moderna.

Finora si era creduto che la prima testimonianza dello zero posizionale, datata 876 d.C., fosse custodita in India, nel tempio indù Chatur-bhuja (dio a quattro braccia) della città di Gwalior, a sud di Delhi. 
Pare invece che il primo zero si sia palesato in Cambogia, precisamente del 683. 
A scoprire l’iscrizione K-127, citata da alcuni testi a cavallo tra Ottocento e Novecento ma poi scomparsa nel nulla, è stato il matematico e divulgatore scientifico americano di origine ebraica Amir Aczel, che si è messo sulle tracce di testimonianze sommerse per arrivare nella città di Angkor, l’antica capitale del regno Khmer, nel laboratorio di restauro dove l’Università di Palermo guida un progetto internazionale chiamato Trinacria  (Tr-aining In-ternational A-ction for C-onservation and R-estoration I-conographic A-ssets) che ha consentito di salvare oltre cento opere. 
E tra queste l’iscrizione con il numero d’inventario K-127, originariamente collocata sulla porta del tempio pre-angkoriano di Sambor, vicino al fiume Mekong. Un’iscrizione rituale di 21 righe in lingua Kmher antica che alla quarta riga riporta il numero 605. 



L’iscrizione K-127, originariamente collocata sulla porta del tempio di Sambor, vicino al fiume Mekong

Qualunque sia l'origine, l’uso dello zero rese subito i calcoli più rapidi e precisi, permettendo l’introduzione di regole di calcolo (i cosiddetti algoritmi) che consentivano di eseguire sulla carta operazioni prima possibili solo con l’ausilio dell’abaco. 
Il termine “zero”², che deriva dall’arabo sifr (“nulla”), fu usato per la prima volta in Occidente dal matematico italiano Leonardo Fibonacci nel 1202 e divulgato grazie al suo Liber Abaci, anche se la sua presenza in opere europee dei secoli XIII e XIV fu molto ostacolata e causa di furibonde lotte. 
Una piena accettazione dello zero come vero e proprio numero è tarda e si può forse far risalire al secolo XVI.

Tornando allo "zero" di Mafalda, dal punto di vista didattico non si deve perdere questa cognizione "naturale" dello zero del bambino, questa sua visione di numero “speciale”, ma saperla incanalare in una metodologia di insegnamento che non risulti epistemologicamente di ostacolo alla corretta e logica assimilazione concettuale.
Proprio come dimostrano i più recenti studi psicopedagogici dedicati all'apprendimento (vedi Daniela Lucangeli video), al contrario di quel che dicono gli "apocalittici", prima si comincia e meglio è, ma senza costruzioni formali ed innaturali.
Per una corretta didattica occorre lasciare esprimere in modo spontaneo, informale, ingenuo ogni concetto matematico che il bambino ha già fin da piccolo, senza bloccarlo, anzi, sfruttando proprio le sue competenze ingenue, informali e procedere così, con molta oculatezza didattica, facendo in modo che immagini mentali successive di zero si organizzino fino a diventare modelli stabili corretti al momento opportuno, quando il concetto di zero si sia ben organizzato nella mente e coincida con il risultato cognitivamente atteso.
Proprio come diceva con semplicità e naturalezza Mafalda, ("No, non capisci…Zero vuol dire niente, ma vuol dire tanto") lo zero è il “vuoto” in quanto esistente prima dell’origine ma è anche il “pieno” in quanto capace di portare l’origine stessa al suo completamento nel numero 10. La sua natura è l’essenza del concetto di nulla che comprende in sé l’essenza del concetto di pieno. 
Lo zero è quindi un paradosso: non è vuoto e non è pieno, bensì è l’insieme di tutte e due le cose e niente di entrambe.



Padiglione Zero è chiamata la struttura collocata all’entrata di EXPO 2015.
Zero come origine, inizio. Infatti si tratta di un vero e proprio percorso che attraversa la storia partendo dagli albori, un viaggio alla scoperta dell’uomo.
“Divinus halitus terrae” ossia “Il respiro divino della terra”, questa è la frase posta all’entrata del padiglione progettata dall’architetto Michele De Lucchi e realizzata dall’artista visivo Giancarlo Basili.


Citazioni

Scrive Lao Tse, nel Tao Te King, uno dei grandi libri dell’Antica Cina:
"...lo guardi e non lo vedi lo ascolti e non lo senti ma se lo adoperi è inesauribile....."
Questa è la descrizione del Tao, dell’Assoluto, ma sono parole che ben si adattano alla presentazione dello Zero, del Niente, un numero speciale, che richiede un’attenzione particolare, perché ci porta oltre la Matematica, verso concetti quali il Nulla e l’Infinito.

Un grande poeta indiano, Bihari Lal, alludendo a una donna molto bella, fece un paragone fra il punto e lo zero: 
"Il punto sulla sua fronte accresce la sua bellezza di dieci volte, proprio come un punto zero accresce un numero di dieci volte" 
Era l’inizio della matematica moderna.

Secondo il matematico russo Tobias Dantzig, autore de "Il numero, il linguaggio della scienza":
"....nella storia della cultura, la scoperta dello zero si ergerà sempre come una delle più grandi conquiste individuali del genere umano" 
Un libro che, scriveva Einstein, "è il più interessante sull’evoluzione della matematica che mi sia mai capitato tra le mani".

Un grande storico della matematica moderna, Karl Menninger scrive:
"…che tipo di folle simbolo è questo [lo zero] che significa proprio il nulla? Se è nulla, allora dovrebbe essere nulla e basta. Ma qualche volta è nulla e qualche altra volta è qualcosa… così ora zero diventa qualcosa, qualcosa di incomprensibile ma potente, se pochi “nulla” possono mutare un piccolo numero in uno grandissimo. Chi può capire questo?"

Ian Stewart, scienziato e matematico, invece scrive:
"… Nulla è più interessante del nulla, nulla è più intrigante del nulla e nulla è più importante del nulla. Lo zero è uno degli argomenti preferiti dai matematici, un autentico vaso di Pandora, per curiosità e paradossi…"




Note

¹ Il che significa che zero non è considerato al primo posto nella successione dei numeri naturali, ma è la decima cifra, quella che viene per ultima, dopo il 9.
² Fibonacci tradusse sifr in zephirus. Da questo si ebbe zevero e quindi zero. Anche il termine "cifra" discende da questa stessa parola sifr.





Fumetti......Matematica reale e immaginaria!

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Appena annunciato da Paolo Alessandrini il tema per il prossimo Carnevale della Matematica, il numero 92 sul suo blog Mr. Palomar, mi è immediatamente tornata alla mente un'immagine apparsa recentemente sulle pagine di Facebook nel gruppo "Matematica", pubblicata da Emanuele Spatola, da me poi rielaborata per questo post.
Il tema infatti è "Matematica reale e matematica immaginaria" e in questa immagine, che trovo molto carina e divertente, di "immaginazione matematica" ce ne è davvero tanta!!!!!
E' infatti l'immagine del manga Sailor Moon rielaborata con il viso del matematico inglese Brook Taylor famoso anche per la Serie che porta il suo nome.


Il famoso manga di Sailor Moon rielaborato con il viso del matematico a cui si deve 
l'altrettanto famosa Serie di Taylor

Ritornando al tema, ho pensato di fare prima una raccolta di immagini di cartoons o fumetti che riguardano la matematica reale e immaginaria e poi (ma in una seconda puntata) una riflessione sull'origine e sul perché dei numeri immaginari.

Ecco la carrellata: 

I Simpson sono zeppi di matematica immaginaria e non. 
Sarà perché molti dei loro sceneggiatori hanno una laurea scientifica? 
J. Stewart Burns si è laureato in matematica a Harvard nel 1992 e ha conseguito il master in matematica l’anno successivo, a Berkeley.
David S. Cohen si è laureato in fisica Harvard, nel 1988 e nel 1992 ha conseguito il master in informatica teorica a Berkeley. 
Ken Keeler si è laureato in matematica applicata a Harvard.

Ed ecco alcune loro famose vignette:

Homer Uomo Vitruviano

Un'immaginaria identificazione di Homer con l'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Celeberrima rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano che dimostra come esso possa essere armoniosamente inscritto nelle due figure "perfette" del cerchio che rappresenta la perfezione divina e del quadrato.



Homer cerca una sua immaginaria dimostrazione alla congettura di Fermat

«È impossibile separare un cubo in due cubi, o una potenza quarta in due potenze quarte, o in generale, tutte le potenze maggiori di 2 come somma della stessa potenza. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina» (Pierre de Fermat)


H0mer da una soluzione.

Nonostante la dimostrazione di Andrew Wiles , il nostro amato Homer da una soluzione: reale o immaginaria?
Provate da voi. Prendete una calcolatrice, elevate 1.782 alla dodicesima potenza e sommate il risultato alla dodicesima potenza di 1841. Estraete la radice dodicesima del risultato e otterrete proprio 1922. Sembra proprio che Fermat avesse torto, dunque! In realtà, non è proprio così. Se ripeteste l’operazione con una calcolatrice un po’ più accurata, o semplicemente con un display più ampio, otterreste una risposta un po’ diversa.
La somma corretta è, in realtà 1922,0000000040876..... e si tratta di una delle cosiddette "near-miss solution", cioè equazioni molto vicine a quelle ritenute impossibili da Fermat


Le tre equazioni immaginarie di Homar

1) La prima formula predice la massa del bosone di Higgs, M(H0), e  contiene diversi parametri fissi, tra cui il pi greco (3,1415926), la costante di Planck (4,136 x 10-15 eV s), la velocità della luce (300.000 km/s) e la costante gravitazionale (6,67 x 10-11 m3 / kg s2). 
Inserendo i numeri della formula e facendo un po’ di conti si trova che la massa del bosone, secondo Homer-Shiminovich, dovrebbe essere pari a 775,9 GeV. 
Una predizione immaginaria e sbagliata (la massa reale dell’Higgs è di 126 GeV), ma neanche di troppo, tenendo conto che arriva quattordici anni prima dell’individuazione della particella e  che, dopotutto, Homer è uno scienziato amatoriale.

2)La seconda si riferisce ancora al celebre ultimo Teorema di Fermat, uno dei misteri più profondi della matematica moderna, la cui dimostrazione è rimasta insoluta per oltre quattro secoli, fino al 1995 con la dimostrazione di Wiles.
Provate ancora come avete fatto sopra. Riprendete la calcolatrice, elevate 3.897 alla dodicesima potenza e sommate il risultato alla dodicesima potenza di 4.635, estraete la radice dodicesima del risultato e otterrete 4.472. Allora Fermat aveva proprio torto!!!! 
Ripetendo l’operazione con una calcolatrice un po’ più accurata, o semplicemente con un display più ampio, si ottiene una risposta un po’ diversa. La somma corretta è, in realtà:
 3.987¹² + 4.365¹² = 4.472.000000007057617187512 
e si tratta sempre di una delle cosiddette "near-miss solution", cioè soluzioni molto vicine a quelle ritenute impossibili da Fermat. 
In ogni caso quella di Homer è solo "immaginaria", quindi Fermat può dormire sonni tranquilli. 

3)La terza equazione riguarda la densità dell’Universo, una grandezza fisica che ha implicazioni importanti per il destino dell’Universo stesso. Se Ω(t0) fosse davvero maggiore di uno, come scrive inizialmente Homer, vorrebbe dire che l’Universo imploderebbe sotto l’effetto della propria attrazione gravitazionale. 
Fortunatamente, però, Homer cambierà il segno della disuguaglianza, il che implica uno scenario completamente diverso, in cui l’Universo continua a espandersi all’infinito dopo il Big Bang (ammesso che ce ne sia mai stato uno). Il segno uguale corrisponderebbe, invece, al cosiddetto Universo Statico


Bart e il numero A113 

Se 666 è il numero della Bestia, A 113 è quello della Pixar. 
Questo numero magico e immaginario che compare in quasi tutti i film d’animazione, nati dalla felice unione tra la casa cinematografica Pixar e la Disney, ha una semplice e reale spiegazione: A113 è l'aula del California Institute of Arts dove i futuri disegnatori della Pixar studiavano character design e animazione.
Aggiungo una curiosità a proposito del numero della Bestia (reale o immaginario?). Forse non sapevate che "realmente" la somma dei quadrati dei primi sette numeri primi dà 666, numero della Bestia!
2² + 3² + 5² + 7² + 11² + 13² + 17² =
4 + 9 + 25 + 49 + 121 + 169 + 289 = 666


E dopo i Simpson ecco le immagini di un altro cartoon famoso della Disney:
"Donald in Mathmagic Land", Walt Disney’s educational legacy o "Paperino nel paese della matematica".
Un paese in cui Paperino vive situazioni tra l'immaginario e il reale, tra alberi con radici a forma di quadrato, tra fiumi che brulicano di numeri, tra la matematica pitagorica e la teoria musicale o tra i concetti quasi mistici del pentagramma e della sezione aurea, attraverso esempi di architettura e di opere d'arte come la Gioconda. 
Quasi 60 anni fa nel 1959, ma sempre attualissimo, Walt Disney ha pubblicato quello che è stato chiamato un "educational featurette". 
Un cartone animato (edizione molto bella e completa del film qui o in fondo alla carrellata) che in soli 27 minuti riesce a trasmettere visivamente, attraverso immagini tra l'immaginario e il reale, come la Matematica attraversi ogni aspetto del nostro mondo.
Un cartoon che si conclude con le immaginarie e infinite porte del futuro che solo la matematica potrà aprire perché come disse Galileo "La matematica è l'alfabeto con cui Dio ha scritto l'universo". 































Le immaginarie e infinite porte del futuro che solo la matematica potrà aprire.
"La matematica è l'alfabeto con cui Dio ha scritto l'universo" (Galileo Galilei)


E concludo questa carrellata con le immagini di un fumetto matematico "Ultima lezione a Gottinga" di Davide Osenda  (il fumetto integrale qui o in fondo alla carrellata) un misto di storia e matematica reali ma in un contesto a volte immaginario che si manifesta con un disegno essenziale ad acquerello, marchio di fabbrica dell'autore.
Il debutto di questo fumetto risale al Festival della Matematica di Roma del 2008 con l'appoggio e il riconoscimento dell'organizzatore Piergiorgio Odifreddi.
Tratta appunto dell’ultima lezione che il professor Fiz¹ tiene ad un’aula vuota, o meglio con il solo studente Alkuin Winler, nell’Università di Gottingen, in Germania, nel 1933 o 1934. “Ultima” perché il professor Fiz è l’ultimo docente di origini ebraiche ad essere preso (al termine della lezione, per strada) dai nazisti, nell’opera di pulizia etnica che coincise con l’azzeramento della scuola principe della matematica dell’epoca. 
L’Università di Gottinga, in Germania, era infatti diventata, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, un centro di raccolta delle migliori menti matematiche del mondo e la sua decadenza è figlia dell’espulsione, da parte del Reich, dei matematici ebrei che all’epoca la animavano.

In questo caso, laddove non bastasse quanto fatto dal nazismo, si aggiunge un’altra colpa, certo non paragonabile alle altre (cosa si può paragonare ad un genocidio?), ma sicuramente grave: l’omicidio di un centro di cultura e sapere dove grandi matematici si dedicavano alla soluzione di problemi connessi ai numeri….e non solo.
Partendo dalla prima immagine degli austeri edifici dell’Istituto di Matematica di Göttingen fino all’ultima d’un volto riflesso nello specchio, le tavole in acquarello si snodano tra Matematica reale da una parte, con i ritratti di David Hilbert, di Georg Cantor, di Kurt Gödel, di Ernst Zermelo, e i riferimenti ai punti cruciali della matematica del Novecento: l’infinito e gli Aleph di Cantor, i Teoremi di Incompletezza di Gödel, l’Assioma della Scelta, l’Ipotesi del Continuo.....e visioni "immaginarie" dall'altra: come gli alberghi dalle infinite stanze per introdurre i molteplici infiniti cantoriani, grammofoni per spiegare i paradossi gödeliani, le carte da gioco per la prova diagonale......
























Un argomento dunque spinoso e difficile, ma affrontato con una competenza matematica, accompagnata dall' ottima pennellata, che ci stimola e ci porta verso ragionamenti che trascendono quasi la realtà matematica ed invadono l'immaginazione e la filosofia.

La carrellata finisce qui ma la matematica reale e immaginaria continua con la seconda puntata, tutta dedicata ai numeri immaginari.




Nota
¹ forse il nome Fiz può derivare dalla facile assonanza con il sistema FZ, quello di Fraenkel Zermelo (di cui Davide Osenda ha inserito anche il ritratto) 



Fonti

The Simpson
sito ufficiale
http://www.simpsonsworld.com/region-simpsons/
sito Italia
http://www.foxanimation.it/i-simpson

Donald in Mathmagic Land
Video Completo in italiano
Paperino nel paese della Matematica
Video Completo in inglese

Gottinga
Fumetto integrale dal sito di Andrea Plazzi





Numeri immaginari......Matematica reale o immaginaria?

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Eccomi alla seconda puntata (la prima la trovate qui) del viaggio tra matematica reale e immaginaria vista anche attraverso i fumetti.
Avevo detto che avrei parlato dei numeri immaginari!!??
Non posso fare a meno però di ritornare ai fumetti, anzi alla strisca di "Calvin & Hobbes" dove Calvin si terrorizza al solo sentirne il nome, mentre per Hobbes sono innati. Infatti, come si sa, le tigri di pezza hanno sviluppato la capacità di comprendere e lavorare con i numeri immaginari!!!
Tanto per ricordare chi sono Calvin e Hobbes.....Calvin è un bimbo, Hobbes la tigre di pezza che con lui diventa animata.




Calvin: Ecco un altro problema di matematica che non riesco a risolvere, quanto fa 9+4?
Hobbes: Oh, questo è difficile, devi usare l'analisi matematica e i numeri immaginari per questo
Calvin: Numeri immaginari ?? 
Hobbes: si, sai come undiciette, trentaventi, roba del genere, è un po'"complesso" al primo approccio
Calvin: E tu dove hai imparato tutte queste cose che non sei mai stato a scuola?
Hobbes: Istinto, le tigri ci nascono con l'istinto

Calvin & Hobbes è una striscia a fumetti realizzata da Bill Watterson, uscita sui quotidiani statunitensi dal 18 novembre 1985 al 31 dicembre 1995, data in cui l’autore smise di disegnare. Ambientata negli Stati Uniti contemporanei, la striscia è incentrata sulle avventure di Calvin, un bambino di sei anni pestifero e fantasioso, e di Hobbes, la sua tigre di pezza che per tutti è un semplice pupazzo, ma che per Calvin si anima e diventa un fedele compagno di avventure e peripezie quotidiane.
Il nome Calvin si ispira a Giovanni Calvino, il teologo del XVI secolo che credeva nella predestinazione, mentre Hobbes è quello del filosofo e matematico britannico del XVII secolo, Thomas Hobbes, autore nel 1651 dell'opera di filosofia politica Leviatano, in cui rivela la sua bassa considerazione per la natura umana.

Dopo questa introduzione fumettistica entro nel vivo dell'argomento dei numeri immaginari che in verità non so se considerarli appartenenti al mondo della Matematica reale o di quella immaginaria!
Comunque Hobbes ha dimostrato di conoscerli davvero e aggiungendo "it's a little confusing" ha  implicitamente ammesso che c'è un po' di confusione, insomma che la questione è complessa.
Si perché immaginario e complesso, come ben sanno i matematici, sono due concetti che vanno davvero a braccetto. E accompagnata dai due simpatici fumetti cercherò di introdurli, soprattutto storicamente. 



Fu Girolamo Cardano (Ars Magna, 1545), poliedrica figura del Rinascimento italiano, riconosciuto anche come il fondatore principale della teoria della probabilità, il primo a trattare esplicitamente questi numeri (senza ancora usare il simbolo i), tentando di risolvere il seguente problema:

“dividere un segmento di lunghezza 10 in due parti tali che il rettangolo da esse formato abbia area 40”

In realtà l’area di un tale rettangolo è al massimo 25 (quando x=y cioè quando le due parti sono uguali e diventa un quadrato), ma l’algebra ci dice qualcosa in più, se consideriamo l’equazione corrispondente al problema:

x² −10x + 40 = 0 .
Essa conduce alle due soluzioni “sofistiche” 5 + √−15 e 5 − √−15 , che usano il numero “impossibile” √−15 e il cui prodotto è:
(5 + √−15)(5 − √−15) = 25 − (−15) = 40
e la cui somma è:
(5 + √−15)+ (5 − √−15) =10 

Nei secoli successivi, numerose altre equazioni algebriche portarono a soluzioni  “immaginarie”, come le definì Cartesio nel 1637. Ma fu grazie ad Eulero che lo studio di tale materia trovò pieno compimento con l'introduzione dell’unità immaginaria i, tale che i² = −1, che permise di scrivere i numeri precedenti come 5 ± i√15 e qualsiasi altro numero complesso nella forma a noi nota: z = a + i b
L’interpretazione geometrica fu dovuta alle tesi di Gauss (1799) e Argand (1806) e alla introduzione del piano complesso, che oggi porta il loro nome.



Ma andiamo per ordine e consideriamo il fatto che mentre i numeri naturali e le frazioni sono nati da esigenze di carattere pratico, di tipo amministrativo e commerciale, i numeri negativi, reali, immaginari e complessi sono, invece, frutto di speculazioni interne allo sviluppo della matematica, in particolare di quella parte che è denominata algebra e che fino alla metà dell’Ottocento si identificava con la teoria delle equazioni algebriche. 
E proprio la risoluzione e lo studio delle proprietà delle equazioni polinomiali porterà inevitabilmente allo studio della natura e delle proprietà dei vari insiemi numerici.
Per circa sei secoli dalla sua fondazione, comunque l’algebra non ebbe una significativa evoluzione e il primo avanzamento notevole, si ebbe infatti solo nella prima metà del Cinquecento con la risoluzione delle equazioni di terzo e quarto grado ad opera di Scipione dal Ferro, Niccolò Tartaglia, Girolamo Cardano e Lodovico Ferrari. Ed è proprio in questo contesto che si iniziano a considerare anche soluzioni negative ed emerge per la prima volta una problematica che porterà all'introduzione dei numeri immaginari e complessi.
Pochi anni dopo il problema "impossibile" di Cardano, Raffaele Bombelli, nella sua "Algebra, parte maggiore dell'Artmetica" pubblicata a Bologna nel 1572, introduce regole di calcolo per operare con le radici di numeri negativi e accetta queste nuove quantità numeriche anche come soluzioni per le equazioni di secondo grado con discriminante negativo.
Questo tipo di soluzioni vengono denominate da Bombelli “sofistiche” (forse riprendendo il nome già precedentemente usato da Cardano), ma la loro compiuta accettazione non avvenne né facilmente né in tempi brevi.



La resistenza a considerare soluzioni negative o complesse di equazioni algebriche derivava, in gran parte, dal fatto che l’algebra era considerata uno strumento per risolvere problemi “concreti” e le soluzioni di quel genere non avevano alcun significato reale.
Autori come Albert Girard e René Descartes, furono tra i primi ad accettare questo nuovo tipo di soluzioni, ma lo fecero solo per motivi squisitamente matematici.
Albert Girard (1595-1632), nel suo trattato "L’invention en algebre" (1629), usa disinvoltamente coefficienti negativi e calcola non solo le soluzioni negative, ma anche quelle complesse.
Ricordando anche che fu il primo ad utilizzare le abbreviazioni sin, cos e tan in un trattato, notiamo che la parte più interessante di questa pubblicazione è quella dove Girard fornisce uno dei primi enunciati di quello che sarà poi denominato Teorema fondamentale dell’algebra (TFA):

Toutes les equations reçoiventautant de solutions, que la denomination de la plus haute quantité le demonstre, excepté les incompletes. 
Tutte le equazioni, tranne quelle incomplete, hanno tante soluzioni quante ne indica la denominazione della quantità più alta (cioé il grado)

Anche René Descartes (Cartesio 1596-1650), filosofo e matematico francese ritenuto fondatore della matematica e della filosofia moderna, nel terzo capitolo della sua "Géometrie" del 1637 tutto dedicato allo studio delle equazioni algebriche, fornisce un enunciato simile a quello di Girard:

Sachez donc qu’en chaque équation, autant que la quantité inconnue a de dimensions, autant peut-il y avoir de diverses racines, c’est-à-dire de valeurs de cette quantité
Sappiate che ogni equazione può avere tante radici, vale a dire valori di questa quantità, quante sono le dimensioni (il grado) della quantità incognita

Egli conclude la sua trattazione dell'algebra con l’affermazione:

Le radici non sono sempre reali, talvolta esse sono immaginarie, cioè mentre noi possiamo sempre concepire tante radici per ogni equazione come ho già detto, tuttavia qualche volta non c’è alcuna quantità che corrisponde a quello che si immagina. Così sebbene si possa immaginare che l’equazione x3-6x2+13x-10=0 abbia tre radici, tuttavia ve ne è solo una reale, mentre le altre due sono immaginarie.

Quest’ultima affermazione sembra indicare che Descartes ammetta che un’equazione di grado n abbia esattamente n radici purché si considerino anche quelle complesse, che lui chiama immaginarie, anche perché se l’equazione ha tutte radici di questo tipo non può essere costruita geometricamente e quindi può essere solo immaginata.
Girard e Descartes anche se in modo un po’ confuso propongono quelle che sono considerate le prime enunciazioni del TFA. Essi non solo non forniscono alcuna giustificazione del loro enunciato, ma si limitano a verificarlo su esempi che riguardano equazioni fino al quarto grado, le uniche per cui all’epoca si conoscevano formule risolutive.
Proseguendo la nostra storia arriviamo a Isaac Newton (1642-1727) che, nella sua "Arithmetica Universalis" del 1707, considera le soluzioni complesse come una indicazione della impossibilità di risolvere un problema, di qui l’appellativo di "impossibili" da lui usato per questo tipo di numeri:

Così l’equazione deve esprimere tutti i casi del problema così bene sia quelli che sono impossibili sia quelli che sono possibili, secondo che le sue radici possono essere possibili o impossibili.

Giungiamo quindi al Settecento, il secolo dell’analisi infinitesimale, ma in cui tuttavia quasi tutti i più importanti matematici si occupano anche della risoluzione delle equazioni polinomiali, cercando metodi per risolvere equazioni di ogni grado. 
Gottfried W. Leibeniz (1646-1716) e Giovanni Bernulli (1667-1748) agli inizi del 1700 si occupano di fattorizzazione per la risoluzione di integrali razionali. In particolare Leibniz sulla base di un esempio, mal calcolato, affermò che purtroppo la decomposizione non è sempre possibile.
Il grande matematico svizzero Leonardo Eulero (1707-1783), invece, in una lettera del 1 ottobre 1742 a Nicola Bernoulli afferma, senza dimostrazione, che ogni polinomio a coefficienti reali può essere decomposto in fattori lineari e/o quadratici a coefficienti reali. Bernoulli non giudica corretta l’affermazione e si innesta così una lunga diatriba che sfocerà in una dimostrazione di Eulero in un articolo “Recherches sur les racines imaginaires des equations”, pubblicato, nel 1751, nelle "Mémoires de l’Académie de Berlin".
Il grande matematico svizzero, negli ultimi anni vissuti a San Pietroburgo compose anche un manuale divulgativo di algebra che apparve in edizioni tedesca e russa a San Pietroburgo nel 1770-72 e in edizione francese nel 1774 (sotto gli auspici di d’Alembert, autore forse del primo tentativo serio di dimostrazione del TFA nel 1746).  
In esso, aldilà dei pregi didattici, si riscontrano imprecisioni che possono però essere spiegati dal fatto che l'autore, ormai cieco, non era più in grado di scrivere e lo dettò, sfruttando solo la sua memoria, al segretario, Nicolaus Fuss che era anche il marito di sua nipote.
E proprio il capitolo XIII di questo testo è dedicato a quei numeri che egli chiama “quantità impossibili o immaginarie”. 
Dobbiamo a lui l’uso della lettera i per indicare  √-1 che però fu adottata appunto verso la fine della sua vita in una memoria del 1777, pubblicata sugli Atti della Accademia di San Pietroburgo,.
A Eulero siamo anche debitori di molti dei simboli ancora oggi usati in matematica. Fu lui infatti a introdurre la lettera e per indicare la base dei logaritmi naturali, ad usare sistematicamente π per indicare il valore irrazionale 3,1415926535.......,  Σ come simbolo per la sommatoria e f(x) per indicare una funzione.




Ma tornando alla dimostrazione del TFA, altri tentativi furono portati avanti, oltre a quello di Eulero, dal torinese Giuseppe Lodovico Lagrangia (più noto come Lagrange) nel 1772 e da Pierre Simon Laplace nel 1795, e finalmente nel 1799 Gauss, il principe dei matematici, riuscì nell'intento. 
Johann Carl Friedrich Gauss (1777-1855) provò a dimostrare questo teorema per la prima volta appunto nel 1799, nella sua tesi di dottorato, presentata in quell’anno presso l’Università di Helmstedt in Germania. Successivamente egli trovò altre tre diverse dimostrazioni dello stesso risultato, ma modestamente affermò che era pervenuto alla prima dimostrazione sfruttando i tentativi dei suoi predecessori. 
Infine, nel 1814 Jean-Robert Argand, un libraio appassionato di matematica, pubblicò un'altra dimostrazione molto più semplice rispetto a quella di Gauss.

Ma fra i motivi che hanno a lungo ostacolato la comprensione dei numeri complessi c’è sicuramente la mancanza di una loro rappresentazione geometrica.
Questa fu infine proposta quasi contemporaneamente e indipendentemente, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento da Caspar Wessel (1745-1818), Jean Robert Argand (1768-1822) e da Carl Friedrich Gauss (1777-1855). Ma anche se le tesi di Gauss e Argand apparvero già nel 1799 e nel 1806 rispettivamente, fu solo comunque dopo il 1831, anno in cui fu pubblicato il lavoro di Gauss "Teoria residuarum biquadraticorum. Commentatio seconda", che l’idea del piano geometrico complesso cominciò ad affermarsi. 
Gauss pose in corrispondenza i numeri complessi con i punti di un piano cartesiano fornendo così una interpretazione geometrica all’addizione e alla moltiplicazione di due numeri complessi, facendo così apparire più naturali, da un punto di vista intuitivo, queste operazioni e trasformando un numero complesso in un vettore.
Prende così una forma definitiva e coerente la teoria dei numeri complessi (chiamati con questo nome proprio da Gauss), la loro rappresentazione e la loro visualizzazione sul piano complesso che oggi porta il loro nome, detto appunto piano di Argand-Gauss.




Ma non finisce qui.
Un giorno un matematico irlandese, tale William Rowan Hamilton (1805-1865) non soddisfatto dei soli numeri complessi, decise di inventare i "quaternioni". Non bastandogli la sola i, aggiunse altre due unità immaginarie, j e k e così un quaternione assunse dunque la forma: q = a + ib + jc + kd
Se prima i numeri complessi avevano due parametri, la parte reale e la parte immaginaria, ora i quaternioni ne hanno quindi ben quattro. E se i numeri complessi potevano essere disegnati su di un piano, un ente bidimensionale, per i quaternioni non basta: ci vorrebbe un'entità a quattro dimensioni.
Ma non esiste, su questa terra!!!!!
Questo viaggio potrebbe proseguire ancora perché attraverso i numeri complessi si sono ottenuti i frattali e dai quaternioni i superfrattali con tutte le loro implicazioni e applicazioni probabilistiche alla fisica moderna, all'astronomia, alla meteorologia, alla neurologia, alla finanza o ancora alla  teoria della relatività e nella meccanica quantistica e in settori più applicati, come la computer grafica 3D, l'ottica e la robotica.




Ma questa è un'altra storia di cui potrei parlare in una terza puntata. Calvin e Hobbes sono esausti e non mi accompagnerebbero più!




Fonti:

From the book:
M.SPOGLIANTI "Appunti di Storia delle Matematiche" Litografia Cislaghi, Milano, 1974 
R.COURANT e H.ROBBINS "Che cos’è la matematica?" Boringhieri, Torino, 2010
C.B.BOYER "Storia della matematica" Oscar Mondadori, 2011
From website:
Per i metodi di calcolo e le proprietà dei numeri complessi consiglio questo link:
http://www.ing.unitn.it/~bertolaz/files/complessi.pdf 
From the pictures
Le immagini, rielaborate da me (Annalisa Santi), sono state reperite dal sito Calvin&Hobbes
http://calvinhobbesdaily.tumblr.com/




Matematica.....invenzione o scoperta?

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A volte mi sorge il dubbio che qualche studente, se avesse potuto viaggiare indietro nel tempo, avrebbe forse cercato di impedire a qualcuno di inventare la Matematica. 
Un desiderio probabilmente che nasce dal fatto che spesso gli studenti devono affrontare prove e compiti difficili di cui a volte farebbero volentieri a meno!
Ma sarebbe possibile fare ciò se si potesse tornare indietro nel tempo? 
Probabilmente no! 
E perché? 
A differenza di tante altre invenzioni, come l'automobile, l'aereo, la lampadina o il computer, la Matematica non è proprio un'invenzione, ma piuttosto una scoperta graduale a cui è molto difficile dare un inizio.
La scoperta della Matematica non può essere quindi attribuita ad una persona, ma può essere considerata solo come un lento sviluppo avvenuto con l'aiuto di migliaia di persone!




Ma come ha fatto ad iniziare? 
Nessuno lo può sapere con certezza, ma possiamo usare la nostra immaginazione per pensare a come la matematica abbia potuto aver inizio. 
A proposito di viaggio indietro nel tempo, potrei immaginare di farlo e di trovare l'amico uomo di Neanderthal intento a raccogliere bacche e quindi chiedergli: "quante me ne dai?" 
Forse proprio la risposta a questa domanda ha dato luogo al bisogno della matematica. 
Se io e il mio preistorico compagno stiamo raccogliendo in un cesto dei frutti di bosco, vorremmo probabilmente poterne dividere equamente il contenuto e per fare ciò avremmo bisogno, in primo luogo, di sapere quante bacche abbiamo raccolto e quindi dovremmo saper contare. 
È così che è nato il conteggio e i primi numeri? 
Nessuno lo sa, ma con l'aiuto del mio amico preistorico potrei scoprire cosa sia avvenuto!
E dopo la scoperta del conteggio e dei numeri arriverebbe necessariamente il concetto di divisione.
La divisione potrebbe essere nata proprio dalla necessità di dividere quel mucchio di bacche in modo equo tra me e lui. 
Ed è così, grazie proprio alle "scoperte" matematiche, che l'amico preistorico ha potuto progredire. Sembrerebbe infatti molto probabile che la necessità di alcuni principi matematici abbia avuto origine dalla vita quotidiana, principi che, come tali, sono stati scoperti o creati proprio da necessità piuttosto che "inventati". 
Semplici scoperte che però alla fine hanno generato i settori più avanzati della matematica, come la geometria, il calcolo, l'algebra, la trigonometria, l'analisi.......!

Ma veniamo al dunque e al vero perché di questo mio viaggio immaginario indietro nel tempo.
Quello che volevo capire e cercare di trovarne risposta era il cosiddetto enigma di Wigner: 
"la matematica è stata inventata o scoperta?"
Ma soprattutto questa "invenzione" o "scoperta"è proprio vero che nasca dall'esperienza?

Eugene Wigner, che nel 1963 ricevette il Premio Nobel per la fisica, era un fisico e matematico ungherese naturalizzato statunitense, noto, oltre che per i  suoi grandi contributi scientifici, per la sua gentilezza e modestia. 
Proprio il giorno del ricevimento del premio Nobel disse di non aver mai pensato ad una tale possibilità, aggiungendo: 
"Non mi sarei mai aspettato di leggere il mio nome sui giornali senza aver commesso qualche crimine." 
Negli incontri scientifici, sia formali che informali, quando qualcuno avanzava una proposta, spesso Wigner ribatteva semplicemente "Io non capisco", senza mai mostrarsi pretenzioso, né preoccupandosi di sembrare sciocco.
Nel 1960, già noto come uno dei più profondi pensatori nel campo della fisica matematica, Wigner compì una incursione provocatoria nel campo della filosofia della matematica con il suo saggio più famoso tra quelli non riguardanti la fisica, dal titolo "La irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali"(The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences). 
In esso egli sosteneva che la cognizione matematica potrebbe essere all'origine dei concetti fisici, come gli umani li percepiscono, anche se la felice coincidenza secondo la quale la matematica e la fisica si accoppiano tanto bene appare "irragionevole" e difficile da spiegare.
Da qui anche il famoso enigma che si pone sulla vera origine della Matematica.
Com'è possibile che un prodotto della mente umana, pur essendo indipendente dall’esperienza, si accordi tanto bene agli oggetti della realtà fisica? 
Se lo chiedeva, tra gli altri, Einstein pensando alla matematica, come a una disciplina che almeno dai tempi dei Pitagorici ha assunto un’aura di divinità per le sue caratteristiche di perfezione e trascendenza. 
Man mano che le nostre conoscenze tecniche si sviluppano, scopriamo che le formule e le forme geometriche, elaborate sullo slancio della speculazione pura, descrivono con precisione il mondo che ci circonda e spesso anticipano scoperte ben più tarde. 

Qual è il mistero di tanta “irragionevole efficacia”?
Ed ecco alcune frasi, messe a caso e senza ordine temporale o di priorità, che ritengo siano degne di nota e che rispondano bene al quesito.


Eugene Wigner

La prima risposta viene proprio da "L’Irragionevole Efficacia della Matematica nelle Scienze Naturali" di Eugene Wigner.
Communications in Pure and Applied Mathematics, vol. 13, No. 1 (February 1960)
che così conclude il capitolo:

"Il miracolo dell’adeguatezza del linguaggio della matematica per la formulazione delle leggi fisiche è un dono meraviglioso che noi non comprendiamo e non meritiamo. Dovremmo essere grati per esso e sperare che rimanga valido per le ricerche future, e che si estenda, nel bene e nel male, per il nostro piacere - forse anche per il nostro disappunto - in maniera da allargare le nostre possibilità di imparare e di conoscere."



Paul Adrien Maurice Dirac

Da "The evolution of the physicist’s picture of nature" di Paul Adrien Maurice Dirac  Scientic Amer., 1963, V.208, N.5. p.45-53

“Sembra essere una delle caratteristiche fondamentali della Natura che le leggi fisiche fondamentali siano descritte in termini di una teoria matematica di grande bellezza e potenza, che necessita di un elevato standard matematico per poter essere compresa.
Potreste chiedervi: Perché la Natura è costruita secondo queste linee? 
Si può solo rispondere che la nostra attuale conoscenza sembra mostrare che la Natura è costruita in questo modo. Dobbiamo semplicemente accettarlo. Si potrebbe forse descrivere la situazione dicendo che Dio è un matematico di livello molto alto, e che Lui ha usato una matematica molto avanzata per costruire l’Universo. I nostri deboli tentativi di matematica ci permettono di comprendere solo un pizzico dell’Universo, e solo procedendo a sviluppare una matematica sempre più avanzata possiamo sperare di capire meglio l’Universo.”


Albert Einstein

In un discorso alla Accademia Prussiana delle Scienze a Berlino il 27 gennaio 1921, Albert Einstein stava discutendo il significato della matematica nella storia del pensiero scientifico, ed osservò:

“A questo punto si presenta un enigma che in tutte le epoche ha agitato le menti interessate alla conoscenza. Come può essere che la matematica, che dopo tutto è un prodotto del pensiero umano indipendente dall’esperienza, sia così mirabilmente appropriata per gli oggetti della realtà?
Forse che l’umana ragione, quindi, senza l’ausilio dell’esperienza, per semplice forza di pensiero, è capace di determinare le proprietà delle cose reali?
E’ mia opinione che la risposta a questa domanda sia in breve questa: Nella misura in cui le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe; e nella misura in cui sono certe, esse non si riferiscono alla realtà.”

E ancora, nel famoso saggio di Einstein “Physics and Reality” del 1936 si legge:

"Il mero fatto che la totalità delle nostre esperienze sensoriali sia tale che mediante il pensiero ... possa essere messa in ordine, questo è un fatto che ci lascia sgomenti, ma che noi non potremo mai capire. 
Si potrebbe dire che “l’eterno mistero del mondo è la sua comprensibilità”. 
E’ una delle più grandi scoperte di Immanuel Kant che questo darsi di un mondo esterno reale sarebbe privo di senso senza la sua comprensibilità."


Sulla destra Sir A.S. Eddington inieme ad Einstein

E così rispondeva Sir Arthur Stanley Eddington (1882 – 1944) il grande  astrofisico inglese, noto soprattutto per le sue ricerche riguardanti la teoria della relatività:

“Così la mia prima risposta alla implicita domanda sull’irragionevole efficacia della matematica è che noi ci avviciniamo alle varie situazioni con un preciso apparato intellettuale di modo che possiamo solo trovare in molti casi quello che effettivamente troviamo.
E’ proprio così semplice e così sconcertante.
Ciò che ci hanno insegnato riguardo al fatto che la base della scienza sono gli esperimenti, nel mondo reale risulta solo parzialmente vero.” 

Eddington si spinse anche più oltre sostenendo che una mente sufficientemente acuta avrebbe potuto dedurre tutta la fisica.
"Forse si può ragionevolmente supporre che una sorprendentemente grande parte di essa può essere dedotta in questo modo."


Steven Weinberg

Da "Dreams of a Final Theory" di Steven Weinberg, London, Vintage 1993, 125) 

"E’ molto strano che i matematici siano condotti dal loro senso per la bellezza matematica a sviluppare strutture formali che solo più tardi i fisici trovano utili, anche se i matematici non avevano in mente tale scopo......I fisici trovano generalmente questa abilità dei matematici di anticipare la matematica necessaria per le teorie fisiche del tutto incredibile. 
E’ come se Neil Armstrong nel 1969, quando mise per la prima volta piede sulla superficie della luna avesse trovato impresse sulla sabbia lunare le orme di Jules Verne."



Dal libro di George Lakoff Rafael E. Núñez, “Where mathematics comes from” ("Da dove viene la matematica"), Basic Books N.Y. 2000

"L'efficacia della matematica nel mondo è un tributo all'evoluzione e alla cultura. L'evoluzione ha dato forma ai nostri corpi e cervelli in modo tale che abbiamo ereditato la capacità per le basi dei numeri e relazioni spaziali primitive. La cultura ha reso possibile a milioni di scaltri osservatori, in millenni di prove ed errori, di sviluppare e tramandare strumenti matematici sempre più sofisticati - strumenti forgiati per descrivere le osservazioni. Non c'è mistero nell'efficacia della matematica nel caratterizzare il mondo così come lo percepiamo: questa efficacia è il risultato della combinazione di conoscenza matematica e interconnessione del mondo. La connessione tra le idee matematiche e il mondo come percepito dagli esseri umani ha luogo nella mente umana. Sono gli esseri umani che hanno creato le spirali logaritmiche e i frattali e che “vedono” spirali logaritmiche nelle lumache e frattali nelle foglie di palma."





In definitiva si potrebbe concludere che secoli di interrogativi non bastano a dissipare il mistero dell'origine e della perfetta corrispondenza tra speculazione matematica e realtà fisica, che però, come sosteneva Dirac, ci hanno regalato almeno una certezza: se Dio esiste, di sicuro è un matematico integralista.





Colonia.....stavolta la Matematica non c'entra!

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Di solito in questo blog non mi occupo di questioni diverse dalla Matematica o dal Tango, ma questa volta ho voluto fare un'eccezione per riunire tre interviste (in ordine temporale) che finalmente si discostano dai "perbenismi", dall'ignoranza e dalle ipocrisie politiche.





Prima intervista ad Amalia Signorelli

Le violenze prima. La strumentalizzazione poi. Perché l'uomo occidentale difende le donne «per sentirsi superiore ai musulmani». 
Dalla open society alla fear society. Dalla società aperta che rende libere le facoltà critiche della persona a quella della paura, che in silenzio perde ogni giorno le libertà conquistate.
Dalle donne nude sui manifesti per sponsorizzare uno yogurth a quelle velate e rinchiuse in casa per difendere il focolare domestico, sino ad arrivare a quelle molestate e violentate nella centrale piazza di Colonia durante la notte di San Silvestro.
LA GUERRA DELL'UOMO OCCIDENTALE. 
Più che l'ennesimo scontro di civiltà, quello che si consuma sul corpo femminile è uno scontro tra uomini.
«L'uomo occidentale, che esercita la sua superiorità su quello musulmano, o almeno tenta di esercitarla. E non certo per difendere le donne, ma il proprio potere», spiega a Lettera43.it l'antropologa Amalia Signorelli.
Ma essendoci apparentemente in ballo 'solo' la dignità femminile, nei giorni dopo le violenze di Capodanno si è sentito solo tanto silenzio.
Quello delle forze dell'ordine di Colonia prima di tutto, che non sono intervenute davanti a quello che poi lo stesso rapporto della polizia ha definito «l'attraversamento delle forche caudine» per oltre un centinaio di donne. Un atto progettato da una banda che avrebbe addirittura più di un migliaio di adepti, e che era nota agli inquirenti tedeschi da oltre 18 mesi. Eppure nessuno ha fatto niente
IL SILENZIO E LA MANCANZA DI DIRITTI. 
Così come nessuno fa niente quando si legge che le donne in Italia guadagnano sei mila euro di pensione in meno rispetto agli uomini, che a parità di ore lavorate hanno stipendi più leggeri, che rivestono sì ruoli amministrativi e politici, ma quasi sempre al fianco di colleghi maschi che tengono il comando.
«Purtroppo ora anche le donne hanno iniziato a stare in silenzio», dice Signorelli, non senza tradire un pizzico di sconforto.


Amalia Signorelli, antropologa e sociologa

Colonia Signorelli: "A Colonia una guerra tra maschilisti"
08 Gennaio 2016, Antonietta Demurtas per L43

DOMANDA. Da cosa nasce questo silenzio?
RISPOSTA. C'è una paura diffusa che non è solo legata agli attentati e alle violenze, ma è più generale, ed è cominciata prima. C'è la preoccupazione di non esporsi troppo, di non farsi dare della femminista, dell'aggressiva.
D. Quella che vuole 'rubare' il potere all'uomo?
R. Forse dovremmo arrenderci all'idea o prendere atto che la storia dell'uomo solo al comando è un eufemismo per parlare di società che diventano sempre più centralizzate e autoritarie sulle materie che contano, lasciando poi un grandissimo margine di pseudolibertà sulle materie irrilevanti.
D. Ma andare controcorrente oggi non è così semplice...
R. Il non conformismo si paga caro e questo potrebbe avere inciso sui comportamenti pubblici di un po' di tutti, non solo delle donne, basta vedere cosa succede a livello politico.
D. Lei cosa vede?
R. Oggi chi fa il parlamentare in Italia non lo fa più per difendere le proprie idee, ma la propria carriera e ciò significa andare a chiedere l'appoggio laddove è meglio pagato, un orientamento diffuso generale sul quale ci sarebbe molto da riflettere e preoccuparsi, a partire dai riscontri oggettivi.
D. Per esempio?
R. Le riforme o le cosiddette 'schiforme', che vanno tutte in una direzione di centralizzazione delle decisioni e progressiva dipendenza da un'autorità che non è messa in discussione. Anche questa nuova figura del preside sceriffo è un segno.
D. Un'accentuazione del superuomo visto che sono ancora gli uomini a comandare. E a violentare...
R. Sui fatti di Colonia sono molto perplessa: non ho ancora capito che cosa sia successo veramente. Ci sono troppe notizie contradditorie e interpretazioni discutibili.
D. In che senso?
R. La violenza è da condannare, ma adesso, siccome dobbiamo dire tutti che il mondo islamico fa schifo, e per certi versi è anche vero,  per avvalorare questa tesi vengono tirate in ballo le donne. Tutto perché gli uomini occidentali sono convintissimi di due cose.
D. Quali?
R. Di averci dato loro la libertà e la parità, di avercela gentilmente concessa e per questa ragione di essere infinitamente superiori ai loro colleghi musulmani. Due balle colossali.
D. Perché?
R. Prima di tutto perché quel tanto che le donne occidentali hanno è frutto delle lotte femminili. Anche se la parità vera non l'abbiamo ancora raggiunta, c'è un riconoscimento nell'esercizio dei diritti, una base di partecipazione sociale abbastanza paritaria.
D. Quindi secondo lei più che scontro di civiltà siamo ancora allo scontro tra uomini, quello occidentale che esercita la sua superiorità su quello musulmano?
R. Più che esercitarla, tenta di esercitarla. E non certo per difendere le donne, ma solo il proprio potere. Come in altri casi ci hanno fatto fare la bandiera della loro capacità di repressione, ora ci fanno fare la bandiera della loro capacità di liberazione.
D. Che invece è un'autoliberazione.
R. Sì, noi i diritti li abbiamo perché ce li siamo presi. Son due secoli e mezzo che le donne occidentali si battono. Non è certo l'eroina più significativa, ma a titolo esemplificativo vorrei citare una donna come Angelina Merlin, di cui nessuno ora parla più.
D. Perché?
R. Ha avuto il coraggio di mettere il parlamento di fronte alla vergonga del sesso a pagamento pagato dallo Stato, le pare poco? E questa donna è stata derisa per tutta vita, messa ai margini della vita politica, anche se apparteneva a un partito socialista.
D. Gli uomini si sono vendicati così, emarginandola.
R. Salvo poi riconoscere che Merlin aveva ragione. Ma sono tante le donne che hanno fatto battaglie analoghe e anche più significative, davanti alle quali gli uomini hanno dovuto ingoiare il rospo.
D. Un rospo che ormai sembra abbiano digerito da tempo: le donne si sono arrese?
R. In effetti c'è un ritorno indietro da parte delle donne, una regressione. Ma soprattutto c'è un altro problema,
D. Quale?
R. Gli uomini non hanno mai fatto autocoscienza, non si sono mai chiesti, salvo pochissime eccezioni, che cosa vuol dire essere uomo, non hanno mai messo in discussione la tradizione aggressiva della loro sessualità.
D. E cosa hanno fatto, invece?
R. Hanno imparato che certe cose pubblicamente non le devono più dire e privatamente non le possono più fare con la libertà di un tempo. Ma non c'è mai stata una presa d'atto che la sessualità maschile è sempre predatoria anche nelle forme più addolcite.
D. Infatti ancora oggi il 60% delle violenze sulle donne viene compiuta dentro le mura domestiche.
R. D'altronde quando Silvio Berlusconi ha esibito in misura macroscopica la possibilità di mercificare i corpi femminili come voleva, purché uno abbia i soldi, ha trovato negli altri maschi italiani molta complicità.
D. Se non invidia...
R. Sì, al massimo in quelli che dovevano farlo per ragioni di ufficio c'è stata un po' di condanna moralistica, ma mai una presa di distanza, mai il coraggio di dire che l'amore prezzolato è qualcosa di infima categoria rispetto a quello spontaneo.
D. Non stupisce quindi che ancora oggi molti italiani sorridano ricordando la presunta battuta rivolta ad Angela Merkel, la «culona inchiavabile». Una donna capo di governo che noi chissà quando riusciremo ad avere...
R. Sì, ma se in un Paese come la Germania dove il presidente è donna, il sindaco di Colonia è donna, succedono le notti 'brave' come quelle di Capodanno, evidentemente la situazione non è così lineare.
D. Non basta ricoprire poltrone?
R. Pensa che il passaggio delle donne nel parlamento italiano da poche unità a un numero non disprezzabile abbia portato dei cambiamenti?
D. Che cosa manca ancora?
R. Una come Tina Anselmi per esempio. A quell'epoca le donne al potere erano davvero una minoranza schiacciata, oggi abbiamo più donne ma che non contano niente.
D. Maria Elena Boschi è ministro per le riforme costituzionali però.
R. La Boschi conta sino a quando Renzi la utilizza come copertura per fare certe operazioni. Il potere maschile mira ad autoconservarsi al massimo. Ed è abilissimo in queste operazioni.
D. Ora persino Salvini è diventato femminista e difende le donne violate dagli immigrati.
R. Dietro i fatti di Colonia c'è un di più che è esplicitamente politicante. L'impressione che sia tutto strumentalizzato per fini anti immigratori è chiarissima, e il sospetto che sia stata messa in scena per favorire una ondata anti migratoria non è del tutto gratuito.
D. Gratuito o meno sono comunque le donne a essere vittime. Eppure anche tra loro c'è stato un gran silenzio.
R. Non so cosa pensare, sono stata militante, ho costruito la mia vita in un'ottica femminista nel senso forte del termine ma da qualche anno mi ha impressionato molto l'atteggiamento tra le giovanissime, che ho conosciuto insegnando all'università.
D. Che cos'hanno queste ragazze che non va?
R. Danno per scontato che come stanno, stanno bene, che è inutile cercare di avere più di così, perché tanto il mondo non cambia e tutto sommato gli uomini le rispettano abbastanza. C'è un senso di arrendevolezza preoccupante.
D. Si sentono fortunate visto che non sono costrette a indossare un burqa...
R. Io non vorrei essere nata in un Paese musulmano, ma anche in Medio Oriente le ragazze vanno a scuola, si laureano con tutte le restrizioni e costrizioni, a Teheran ci sono medichesse, avvocatesse, giornaliste. Poi, certo, ci sono i veti dei regimi autoritari, censure per tutti. Ma la condizione femminile non è quella della schiava domestica, se non in parte minoritaria. E far sembrare che sia tutto così è solo una strumentalizzazione.
D. Dell'Occidente?
R. Sì, perché fa comodo l'immagine dell'uomo islamico che non vede l'ora di violentare una donna e per questo è inferiore all'uomo occidentale, che invece rispetta le donne. Sono in entrambi i casi due esagerazioni utili solo per la propaganda politica.
D. E in questo duello la donna che ruolo gioca?
R. Nessuno, perché oggi non riusciamo a organizzarci. I movimenti femministi di fine Anni 60-70 erano spontanei ma bene o male riuscivano a incontrarsi, creare dei collegamenti tra le varie città.
D. Ora invece?
R. Pare che su questi temi ci sia un isolamento totale dei singoli individui. A Roma in via del governo vecchio c'era l'università delle donne di Libera, ci incontravamo lì ad ascoltare le colleghe o a dire la nostra. C'era un rete che è indispensabile se si vuole fare politica.
D. Altrimenti il rischio è quello di rimanere in silenzio?
R. Il problema è che oggi posso dire di essere marxista, contro la società, atea, e questo non desta nelle altre persone la stessa reazione preoccupata e sdegnata di quando dico di essere una femminista.
D. Il femminismo è davvero un pericolo?
R. Per gli uomini certamente sì, perché sanno che gli argomenti delle donne, quando sono ben maneggiati, sono inconfutabili, mentre magari anche l'ateismo si può confutare.
D. L'ateismo non mira a diminuire il potere maschile.
R. Pensi che al festival internazionale di Angoulême, tra i finalisti non c'era nessuna artista donna. Dopo le proteste, gli organizzatori ci hanno ripensato. E siamo nel cuore della civilissima Francia.
D. Senza bisogno di andare in Medioriente quindi.
R. No, perché anche da noi scattano meccanismi subconsci, retaggi culturali che diventano automatismi, e su questo si dovrebbe ragionare perché sono prodotti di una socializzazione di un certo tipo ma sono poi talmente ribaditi e mai messi in discussione che diventano automatici e vengono praticati senza che ci sia più un minimo di consapevolezza.
D. Il fatto che negli Stati Uniti forse ci sarà il primo presidente donna della storia potrebbe iniziare a cambiare questo senso di consapevolezza occidentale?
R. Sia l'elezione di Obama che quella di Hillary Clinton sono talmente contro tutta la concezione tradizionale conservatrice dell'America profonda che non potevano non provocare reazioni.
D. Violente, visto il numero di neri uccisi dalle forze di polizia in questi anni.
R. E quella di Hillary potrebbe provocare un recrudimento dell'antifemminismo, non mi meraviglierebbe, ma rimarrebbe comunque un fatto importantissimo a livello storico culturale.
D. Che cosa cambierebbe?
R. Ci sarebbe un tabù spezzato. Non possiamo dare per scontato che d'ora in poi i neri godranno tutti i diritti ma, insomma, hanno avuto un presidente, e così varrà per le donne.
D. Per quello più che un tabù infranto, ci sarebbe bisogno di un miracolo...
R. Intanto si aprirebbe la discussione, la possibilità della rivendicazione, anche del conflitto magari, che non mi spaventa affatto.
D. Che cosa le fa paura invece?
R. Il tabù sacralizzato intoccabile per cui di certe cose non si deve neanche discutere, come la donna papa per esempio. L'idea oggi è talmente assurda e fuori dagli schemi logici che diventa perfino comica.
D. Un'eresia.
R. Si, o il rogo o gli sghignazzi.
D. Ma chissà: le vie del signore sono infinite.
R. Speriamo anche quelle delle signore.

Seconda Invervista a Massimo Cacciari


Massimo Cacciari, filosofo

Colonia, Cacciari: "Le europee cambieranno abitudini a calci. Da deficienti accogliere e basta"
12 gennaio 2016 ore 15:26, Marco Guerra per Intelligonews

“Sempre peggio, almeno per 50 anni, saranno costrette a cambiare stile di vita a calci”. È l’analisi di Massimo Cacciari relativa alle tensioni seguite ai fatti di Colonia contro le donne tedesche. Il filosofo sentito da IntelligoNews parla delle trasformazioni epocali che l’Europa sarà costretta ad affrontare. 

In Germania dopo i fatti di Colonia si registrano le prime ritorsioni contro i migranti. Dobbiamo preoccuparci per un’escalation delle tensioni? 

“Certo che c’è da preoccuparsi, siamo davanti all’assenza di qualsiasi politica, sia per l'immigrazione sia per l’integrazione, lo scenario si fa drammatico. Le nostre città saranno destinate, se non cambiano le cose, a trasformarsi in un insieme di ghetti, di barriere, di frontiere e di etnie separate con tutte le conseguenze immaginabili”. 

Ieri un altro episodio è successo nel salernitano, anche l’Italia non è immune?

“Ma tutto il mondo è Paese dagli Usa all’Europa, dovunque non ci siano politiche di integrazione che funzionano ci sono conflitti fra etnie, culture e persone povere e ricche. Crescendo le diseguaglianze crescono anche le occasioni di conflitto”.

Così, “io ti accolgo punto e basta” non può bastare più come risposta? 

“Ma non è mai servito, solo i deficienti potevano crederci, ma non c’è più nemmeno quello. Non c’è una politica che regola l’immigrazione né una politica per l'integrazione, quindi dove pensa che possiamo andare finire?” 

Un duro colpo per chi pensava che era possibile la convivenza? 

Colonia, Cacciari: 'Le europee cambieranno abitudini a calci. Da deficienti accogliere e basta'“Ma come si faceva a pensarlo, mancando qualunque politica? Come si poteva pensare che le cose potessero funzionare. Finito l’intervallo di misericordia per il bambino morto sulla spiaggia sono tornati identici tutti i problemi, che se non si affrontano si possono solo incancrenire!”

Ma non c’è una questione culturale di fondo secondo lei, un’incompatibilità tra culture diverse?

“Ma che vuol dire? Siamo diversi anche io e lei; se lei muore di fame e io sono ricco a un metro da lei, lei si incazza”. 

Ricordiamo anche le guerre alimentate dall’Occidente…

“Ma la storia c’entra poco, se andiamo alle fonti di tutto questo caos arriviamo ai tempi di Esaù, il problema è oggi e oggi manca qualsiasi politica per affrontare queste trasformazioni epocali, e pace all’anima nostra”. 

È sciocco continuare a dire come un mantra “non cambiamo il nostro stile di vita”?

“Sono tutte stupidaggini, tutte coglionate espressione di pura ignoranza, i nostri stili di vita sono cambiati mille volte nella storia in base a mutamenti di Stato, catastrofi, cambiamenti sociali e culturali. Nessuno sta fermo, non c’è un modo di vita immobile, sono tutte stupidaggini che vengono da persone ignoranti che sono al governo in Europa. Non esistono più gli Audenauer e i De Gasperi, c’è gentucola sprovvista dei fondamentali per affrontare una cambiamento d'epoca”.

Quindi le donne europee dovranno cambiare alcune abitudini della loro vita? 

“Sì, ma una cosa è cambiare perché sai di dover cambiare e governi il cambiamento, un conto è cambiare a calci. Quando cambi a calci i mutamenti sono drammatici”.

Dobbiamo aspettarci nuove episodi come quelli di Colonia e situazioni di tensione? 

“Ma sarà sempre peggio, almeno per 50 anni, fintanto che per ragioni demografiche non finiranno i flussi d’immigrazione. Nel frattempo dobbiamo aspettarci sempre peggio”. 

Terza intervista a Diego Fusaro


Diego Fusaro, filosofo

Colonia, Fusaro spiega: "Scenario apocalittico. In Occidente per essere eroe oggi devi essere vittima"
13 gennaio 2016 Marta Moriconi per Intelligonews

“Sempre peggio, almeno per 50 anni, saranno costrette a cambiare stile di vita a calci”. Era l’analisi di Massimo Cacciari espressa ieri a IntelligoNews e relativa alle tensioni seguite ai fatti di Colonia contro le donne tedesche. Oggi abbiamo intercettato un altro filosofo, il giovane Diego Fusaro, che con le parole di Martin Heidegger ci parla della “società della notte del mondo, quella in cui siamo precipitati” senza essere “più coscienti del buio in cui siamo”.

Fusaro condivide la riflessione espressa da Massimo Cacciari? Lo stile di vita cambierà e la trasformazione epocale non sarà indolore? 

"Sono d’accordissimo con Cacciari. Quello visto in questi giorni è uno scenario apocalittico. Mi ha colpito che in qualche modo il fatto che siano migranti e stranieri, che non andrebbe usato né come giustificazione né come aggravante, invece sia stato trattato come elemento attenuante. E’ paradossale. La logica vorrebbe che venissero trattati come tutti i cittadini. Per alcuni esponenti politici, penso a quelli del Pd, la questione dell’immigrazione viene prima di quella delle donne". 

Tutto quel tentativo di ridimensionare quanto accaduto a Colonia, non è comunque inutile?

Colonia, Fusaro spiega: 'Scenario apocalittico. In Occidente per essere eroe oggi devi essere vittima'"Certamente, ma questo è buon senso e non è di casa nel nostro tempo. Aggiungerei una domanda: quelli che fanno sempre le battaglie in difesa delle donne dove sono finiti? Vengono prima le battaglie per i migranti nella scala delle priorità da quanto ho capito...". 

E’ mancata una politica d’immigrazione e di integrazione per Cacciari. In compenso c’è stata un’escalation rispetto alle iniziative di dare qualche centinaia di euro a migrante accolto a famiglia. Che succede?

"Diciamo che l’immigrazione ha senso quando arrivano gruppi di migranti che vengono fatti integrare. Quando ne arrivano orde, come in questo caso, di persone non controllate questi fenomeni possono capitare. E comunque non c'è attenuante, cosa che colpisce invece in questa situazione".

Quanto accaduto in Germania, è lo specchio del vecchio conflitto tra ricchi e poveri? 

"No, io questo non lo leggo come un conflitto tra ricco e povero, ma un conflitto con i vigliacchi protagonisti. Chi alza le mani su una donna deve avere la pena massima, immigrato o autoctono che sia. Il conflitto tra uomini e donne è impari, è un altro fenomeno". 

Se Cacciari parla di scenario drammatico riferendosi al futuro, Fusaro di cosa parla?

"Io parlo di scenario per cui per un verso si limiteranno le libertà in nome della sicurezza, e per un altro verso ci andranno di mezzo immigrati che non fanno male a nessuno, ma che verranno visti come assassini. Poi, mi sento di dire che il buonismo ancora una volta trionferà. Da questa vicenda esce un migrante che si presenta come un nemico totale. E' il caso di ribadire poi che la concezione della donna occidentale - che pure non è perfetta perché ridotta a merce - ha comunque dei vantaggi rispetto a quella di questi signori qua".

E la virilità maschile come ne esce? 

"In maniera penosa. Perché intanto dove erano gli uomini tedeschi in quel frangente? Dove era la Polizia tedesca? Mi pare sia una domanda che in maniera onesta vada sottoposta. Vorrei proporre una lettura poi, leggete il libro di Daniele Giglioli "Critica della vittima": la vittima è presentata ormai come l’eroe del nostro tempo nell’Occidente. Ha ragione perfettamente, perché per essere eroe oggi devi essere vittima".

Che tra l’altro si trasforma in carnefice? 

"Esattamente". 

Una domanda sulla guida senza patente depenalizzata. Basteranno 5000 euro per sanare l’illecito. Soldi contro reati? 

"Io userei il caso che ha appena portato come esempio per spiegare a un bambino di 8 anni che cos’è il classismo e la disuguaglianza sociale: è una società dove tutto è possibile a patto che tu abbia i soldi per potertelo permettere. E’ un self service per fare tutto ciò che vuoi perché ogni limite morale viene abbattuto, probabilmente in futuro si potrà anche avere rapporti sessuali con i bambini e chi oserà dire che non è corretto sarà un pedofobo, però dovrai avere i soldi per potertelo permettere. Questa è la società più terribile che si potesse prospettare. Un incubo. Io la chiamerei con Heidegger la società della notte del mondo, siamo precipitati in un buio totale in cui nemmeno siamo più coscienti del buio in cui siamo".




I numeri del Kāma Sūtra

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"L'uomo è chiamato «coniglio», «toro» o «stallone» a seconda delle dimensioni del suo organo sessuale, mentre la donna è detta «cerva», «giumenta» o «elefantessa». Quindi vi sono 3 accoppiamenti uguali fra partner sessuali simili per dimensioni, e 6 disuguali, fra partner dissimili
(II, I, 1-2; pp. 41-42, Kāmasūtra, Adelphi edizioni, 2003)




Quei burloni dei Rudi Mathematici che ospitano il Carnevale della Matematica di febbraio, la cui uscita come d'abitudine coincide con il giorno di San Valentino, hanno pensato di mettere i "Matematti" in difficoltà con il tema scelto.
Hanno infatti testualmente scritto: 
"Ormai è chiaro a tutti i carnevalisti: qui su RM i temi sono sempre strani, inventati per avere la scusa di non rispettarli (non lo facciamo mai). Però i temi sono sempre richiesti. Quindi, in qualche modo ve la siete cercata.
Annunciamo ufficialmente che il tema del CdM numero 94 è: "Matematica e Sesso".
E mo' so affari vostri...."

Il tema in effetti è già stato affrontato e di libri ed articoli riguardanti la correlazione tra amore, sesso e matematica se ne sono visti.
Solo per curiosità ne citerei alcuni che avevo letto o trovato per caso:
"Mathematics and Sex" della matematica australiana Clio Cresswell, pubblicato nel 2004
"The Mathematics of Love" dell'inglese Hannah Fry (2015) di cui avevo già parlato nel Carnevale della Matematica di giugno 2015
e l'articolo (un po' datato anch'esso, del 2004) di un ricercatore cinese, Jentu Fan, che sosteneva che un uomo valuti sessualmente una donna servendosi inconsciamente di una formula matematica (VHI)
Sicuramente ce ne saranno altri che lascio alla curiosità del lettore trovare!


Templi del Kamasutra a Khajurhao Regione Madhya Pradesh (India)

Leggendo il tema, a me è venuta subito in mente una correlazione tra la grande tradizione matematica indiana e il testo più conosciuto sul tema sessuale, il Kāma Sūtra.
Certo trovare una vera correlazione matematica sembrerebbe quasi "volersi arrampicare sugli specchi" ma a ben vedere di correlazioni se ne potrebbero trovare  e diventare fonte di studi accurati.
Un esempio di correlazione che si potrebbe approfondire potrebbe essere quella tra le posizioni e la topologia, la branca della matematica che si occupa dello studio delle proprietà delle figure e delle forme.
Il Kāma Sūtra, il più antico libro di testo hindu esistente sull'amore erotico, offre infatti, nel secondo adhikarana (libro), descrizioni delle posizioni in un rapporto sessuale, la controparte erotica delle āsana ascetiche, le posizioni o posture utilizzate in alcune forme di yoga, in particolare nello Hatha Yoga. 


Scultura erotica - Templi di Khajuraho Regione Madhya Pradesh (India) 

Scritto da Vātsyāyana Mallanaga in sanscrito (il suo titolo completo è Vātsyāyana Kāma Sūtra - "Aforismi sull'amore, di Vātsyāyana"), probabilmente nella seconda metà del III secolo dC nel nord dell'India, durante il periodo Gupta, il titolo significa "desiderio / amore / piacere / sesso" (kama) e "trattato" (sutra).
Il vero Kāma Sūtra non è solo un trattato sul sesso che riporta esclusivamente posizioni sessuali, è anche un libro sull'arte del vivere, su come trovare un partner per mantenere a lungo un matrimonio, sull'adulterio, sull'uso di droga, o su come vivere con una cortigiana (potremmo tradurlo ai giorni nostri "il modo migliore per mantenere una relazione clandestina"). 
Esaminando anche questioni di classe e di casta, stabilisce le norme di vita di un Nagaraka (di un cittadino ideale), i codici per la condotta delle casalinghe, delle concubine, delle dame di harem e delle cortigiane. 
La materia scientifico-dottrinale che tratta risale comunque a epoche precedenti, tanto che l’autore può essere considerato più propriamente un compilatore. Lo scopo perseguito dal libro consiste nella descrizione di quanto è necessario al fine del raggiungimento del successo e del piacere in amore.
Si tratta di un’opera filosofica ricca d’informazioni di carattere documentario sulla civiltà indiana antica che affronta senza reticenze, ma anche senza compiacimenti, il tema delle relazioni amorose tra uomo e donna anche se in Occidente il Kāma Sūtra è stato a lungo accompagnato da una fama di immoralità e oscenità.

Scultura erotica - Templi di Khajuraho Regione Madhya Pradesh (India)
  
Principalmente il Kāma Sūtra risponde a uno dei 4 obbiettivi (Purushartha) della cultura classica hindu. Cultura che prevede che l’essere umano abbia il preciso obiettivo di perseguire un'armonica realizzazione di sé, senza trascurare alcun aspetto della vita terrena. 
È infatti prescritto che l'essere umano ricerchi 3 obiettivi terreni:
Artha: il benessere, sia fisico che economico
Kama; il desiderio, il piacere e la sua fruizione
Dharma: il senso etico che ricerca un equilibrio tra Artha e Kama
e a questi 3 si unisce 1 scopo ultraterreno:
Moksha: la liberazione dal mondo materiale e il raggiungimento della vera coscienza di sé


Tempio Induista

Sempre a proposito di numeri (il "fil rouge" di questo articolo) credo di dover fare una breve premessa sull'Induismo e i suoi concetti fondamentali, che non tutti conoscono, tanto è vero che non viene mai elencato tra le religioni monoteiste.

1 = Unicità di Dio¹ 

L'induismo è infatti una religione solo apparentemente politeista, ma basata sull'esistenza di un unico Principio Divino Universale, trascendente e immanente al tempo stesso.
"Dio è Uno, ma i saggi lo chiamano con nomi diversi" (Rig Veda, I, 164)
Dio è unico ma si esprime in infiniti modi e forme. Centinaia sono infatti le divinità del pantheon hindu, e tale diversità di espressioni del Divino esiste affinché ogni essere umano possa trovare la propria strada per realizzarlo.
L'Induismo è unità nella diversità: è infatti una religione universale ed estremamente tollerante.
"Vedi l'unità nella diversità, l'Uno divino appare nelle molte forme, immensa è la sua vastità, indescrivibile la sua gloria. Tutte le infinite terre, i soli e i pianeti che sono visti e quelli oltre la nostra percezione, esistono per suo comando. Accesa in varie forme, l'eterna fiamma è Una. Illuminando il mondo con i raggi dorati all'alba, dipingendo le nubi della sera con cangianti colori, il sole è uno." (Rig Veda)
Composto da una miriade di fedi, culture e filosofie, unisce milioni di persone nel mondo attorno a grandi principi di base, rispettando le reciproche diversità e valorizzando la particolarità di ogni individuo.
"Conosce la verità chi conosce questo Dio come Uno. Né secondo, né terzo, né quarto Egli è chiamato; né quinto, né sesto, né settimo Egli è chiamato; né ottavo, né nono, né decimo Egli è chiamato; Egli sopravvive a tutto ciò che respira e non respira; egli possiede il potere supremo. Egli è Uno, Uno solo, in Lui tutti i poteri divini diventano Uno soltanto." (Atharva Veda)


4 = Purusharthas (sanscrito पुरुषार्थ)²

I 4 scopi della vita. Principi che regolano la vita dell’uomo nel suo divenire: il loro conseguimento mira alla realizzazione di un’esistenza felice, soddisfacendo i bisogni materiali e spirituali in armonia con le norme etiche e in vista dello scopo ultimo: la liberazione.
Artha
il benessere. La realizzazione del benessere in generale, in relazione anche alle condizioni materiali e ai mezzi necessari per mantenere un buono stato di salute e una condizione sociale soddisfacente.
Kama
il desiderio. Il desiderio che sostiene qualsiasi azione conforme al dharma e un’armoniosa fruizione dei piaceri sensoriali e dei beni di cui si dispone.
Dharma
l’ordine etico universale. Il principio che mette in armonia gli altri scopi dell’esistenza e rappresenta le leggi etiche universali che governano tutto il cosmo manifesto.
Moksha
la liberazione. Liberazione dal ciclo delle incarnazioni e dalla schiavitù dell’ego, per riconoscere quello che siamo sempre stati: uno in Dio e uno con Dio.
Fine ultimo della vita e compimento di un lungo cammino evolutivo è il riconoscimento, a cui ogni essere vivente giungerà, della propria natura divina o meglio che l’unica Realtà, al di là della illusorietà del mondo, è Dio.

Sull’Artha è stato scritto l’Arthaśāstra di Kautilya, un trattato di arte politica, mentre sul Dharma è stata stilata la Manusmirti, ossia il Codice di Manu e quindi sul Kama il celebre Kāma Sūtra di Vātsyāyana.


Testo antico di Kāma Sūtra 

Dopo questi numeri 1 e 4, molto significativi della cultura hindu, analizzando la struttura del Kāma Sūtra, troviamo altri numeri che possiamo considerare altrettanto significativi e forse anche curiosi.
Come il trattato Arthasastra di Kautalya, il Kāma Sūtra è diviso in adhikaranas (libri), adhyayas (capitoli) e prakaranas (temi o argomenti). 
L'intero testo è composto nello stile di sutra (aforisma) e bhasya (commento) e lo stesso Vātsyāyana ricorda come i versi tradizionali siano stati tramandati a lui attraverso le generazioni precedenti.
Proprio analizzando questa struttura troviamo una prima incongruenza numerica di poco chiara interpretazione. 
L'intero testo è suddiviso in 7 adhikaranas o libri: 

il primo adhikarana (libro) ha 5 adhyayas (capitoli) e 6 prakaranas (temi o argomenti), 
il secondo 10 capitoli e 17 argomenti, 
il terzo 5 capitoli e 9 argomenti, 
il quarto 2 capitoli e 8 temi, 
il quinto 6 capitoli e 11 argomenti, 
il sesto 6 capitoli e 9 argomenti, 
il settimo libro, l'ultimo, ha 2 capitoli e 6 temi.

Secondo il calcolo originario di Vātsyāyana (Kāma Sūtra i.1.15-22), i 7 libri di tutto il compendio si dividono in 36 capitoli e 64 temi trattati in 1250 aforismi. 
Ma se proviamo a sommare gli argomenti (6+17+9+8+11+9+6=66 ?) il totale, tuttavia, non coincide con i 64 temi che lo stesso Vātsyāyana aveva specificato. 
Tale somma, come facilmente verificabile, è infatti 66. Questo numero non avrebbe coincidenza nemmeno con il testo Nāṭya Śāstra di Bharata Muni (un saggio che visse probabilmente, secondo una leggenda, fra il 400 e il 200 a.C. e scrisse Nāṭya Śāstra il più importante testo teorico del dramma classico indiano), dove viene specificato il numero di posizioni sessuali appunto in 64.
Il Kāma Sūtra contiene infatti un totale di 64 posizioni sessuali, rappresentate e legate ai temi suddetti e definite con nomi diversi, come ad esempio quelli degli animali o delle azioni degli animali. 
Vātsyāyana credeva infatti che ci fossero 8 modi di fare l'amore, moltiplicati per 8 posizioni per ognuno, che sono note come le 64 "Arti del piacere" e raccolte nel secondo adhikarana (libro) che è il più famoso e che, per questo, è spesso scambiato per l'intera opera. 
Vātsyāyana non ha ben specificato gli argomenti del suo testo, e la traduzione inglese più conosciuta del libro, quella del 1883 di Sir Richard Burton in collaborazione con Forster Fitzgerald Arbuthnot (l'edizione italiana di riferimento è quella della casa editrice Adelphi a cura di Wendy Doniger e Sudhir Katar nel 2003) ha ricondotto questi temi al numero 64, riducendo un argomento dal libro IV (ridotto a 38 bis - Un uomo che ha rapporti con molte donne) e uno dal libro VI (ridotto a 58 bis - Motivi per prendere un' amante in base ai tipi di cortigiane).


Illustrazione del testo antico di Kāma Sūtra 

Ma riscontriamo un'altra anomalia numerica!
Anche il numero di aforismi presenta un problema. Secondo lo stesso Vātsyāyana il numero dovrebbe essere 1250. Tuttavia non tutte le edizioni del Kāma Sūtra comprendono esattamente 1250 aforismi. 
In alcune sono 1492, mentre in quella di Goswami salgono a 1683. 
Quest'anomalia è dovuta al fatto che i redattori e i traduttori del Kāma Sūtra hanno commesso un errore grossolano ritenendo le "citazioni" fatte da Vātsyāyana  come suoi aforismi, mentre Vātsyāyana indica chiaramente che egli riproduce citazioni di qualche autore precedente correlate con gli aforismi.
Altro errore è stato quello di ritenere una parte in prosa un aforisma o, a volte, i copisti hanno diviso in due alcuni aforismi. 
Sembrerebbe proprio che certi editori non abbiano attentamente esaminato gli aforismi, non riuscendo quindi a mantenerne il numero originario previsto dallo stesso autore.

Insomma ricapitolando i numeri sono 1, 4, 7, 36, 64, 1250.
Visto che costruirne una successione numerica è piuttosto arduo (potreste sempre provarci!) e visto che Vātsyāyana non ha spiegato il perché della scelta numerica cerco di darne un'interpretazione sia legata alla tradizione induista, sia puramente da me "inventata", così per gioco.

All'1 e al 4 l'interpretazione è strettamente legata alla religione hindu, come detto sopra, e per gli altri?




7 = Chakras
Sette sono i chakras (punti caratteristici del corpo umano):

Muladhara (tra osso sacro e coccige, verso dietro)
Svadisthana (tra II vertebra lombare e osso sacro, verso avanti)
Manipura (plesso solare)
Anatha (cuore)
Vishudda (gola)
Anja (terzo occhio, fronte)
Sahasrara (fontanella)

Il Chakra (adattamento del sostantivo neutro sanscrito cakra traducibile come "ruota", "disco", "cerchio") è un concetto proprio delle tradizioni religiose dell'India, inerenti allo yoga e alla medicina ayurvedica traendo origine dalle tradizioni tantriche. 
Nell'accezione più comune è usualmente reso anche con "centro", per indicare quegli elementi del corpo sottile nei quali è ritenuta risiedere latente l'energia divina.


Dipinto eseguito a Bikaner, Rajasthan, tra il 1678 e il 1698. Fitzwilliam Museum, University of Cambridge
Copertina del libro  Edizioni Adelphi 20o3


36 = Le 6 tipologie sessuali moltiplicate per se stesse (6x6 = 36)

Questa fa parte di quelle inventate.
Non ho trovato una correlazione tra 36 e le tradizioni hindu, ma riflettendo sul fatto che per Vātsyāyana ci fossero 6 tipologie sessuali, moltiplicandole per 6 otterremo 36 che non sono le possibilità di accoppiamento (infatti sono solo 9), ma che riprende comunque anche il risultato ottenuto moltiplicando 9x4, dove 9 sono appunto dette possibilità e 4 gli obbiettivi (Purushartha) 

64 = Arti del piacere (8x8 = 64)

Vātsyāyana credeva che ci fossero 8 modi di fare l'amore, moltiplicati per 8 posizioni per ognuno che, nel libro, sono note appunto come le 64 Arti del piacere.

1250 = ?

Per cercare un perché a questo numero ho dovuto veramente "arrampicarmi sugli specchi"
Ma perché mai Vātsyāyana ha voluto specificare il numero dei suoi aforismi in 1250?
Il numero 1250 non ha alcuna correlazione con tradizioni hindu e non ha proprietà matematiche significative: non è un numero di Fibonacci, non è un numero di Bell o di Catalan, non è perfetto, né poligonale, né fattoriale......
Ormai mi ero infilata in questo "fil rouge" numerico e non potevo concludere senza una combinazione matematica, che comunque escludo tassativamente che sia stata considerata anche da Vātsyāyana.
Come ottenere 1250 usando tutte le cifre 1, 4, 7, 36, 64, eventualmente ripetute, e composte mediante le quattro operazioni elementari di somma, sottrazione, prodotto e divisione? 
Ecco una soluzione (se ne possono ovviamente trovare altre.....provateci!)

(64-36)x36+(7+4)x(7+4)x[(7+1):4] = 1250


Travolti dalla passione (1775-1780 ca) illustrazione tratta dal Gītagovinda di Jayadeva.
Copertina del libro Edizioni Adelphi 2010

In conclusione  questo post, aldilà del "fil rouge" numerico, voleva in primo luogo rendere più chiaro il fatto che il Kāma Sūtra è un classico della cultura indiana, che nulla ha a che fare con la pornografia e forse anche poco con la matematica. 
L’amore è lo scopo della vita, insieme alla virtù, alla prosperità, e alla ricerca del piacere sessuale finalizzata all’armonia del vivere.
Infinitamente piu fantasioso di qualsiasi moderno manuale di sesso, persino più spinto dei giornaletti erotici, questo antico testo, se pur profilo di una società distante nel tempo e nello spazio, ha magnificamente percorso la via del kāma, del "desiderio" e propone un modo di vedere l’amore perfettamente in linea anche con le esigenze dell’uomo del terzo Millennio
Una visione gioiosa e senza peccato, dove il corpo può diventare il mezzo per raggiungere lo spirito, e l’unione sessuale l’incontro delle divinità maschile e femminile che abitano in ciascuno di noi.
Il termine Kama può essere tradotto sia come amore che come piacere, e allora non c'è motivo di credere che parlare di sessualità sia cosa sconveniente, volgare e, per quanto possa sembrare strano a una lettura superficiale o maliziosa, il Kāma Sūtra o Codice dell’Amore può essere considerato dunque un libro religioso a tutti gli effetti.

«Il libro è scritto da un uomo per gli uomini: si sforza di penetrare le anime e i corpi femminili; eppure ammette che le donne restano misteriose e che sono loro, queste creature apparentemente passive, a incarnare l’energia sessuale dell’universo. Esse sono il sole, mentre i maschi soltanto la pallida, umida luce della luna. Il Kāma Sūtra cerca di regolare tutti i gesti umani: ma riconosce che i cuori sono volubili, che le fantasie amorose non hanno limite, che i desideri sessuali posseggono una forza tremenda, e che la passione non obbedisce a nessun manuale»³


Note

¹Si può parlare di "monoteismo induista" specificandone però la natura e sottolineando la diversità radicale rispetto a una concezione di Dio Personale come è inteso il Dio biblico dai tre monoteismi occidentali (ebraismo, cristianesimo e Islam). 
Gli induisti tendono a considerare l'induismo come una religione solo apparentemente politeista, ma in effetti basata sull'esistenza di un unico Principio Divino Universale, trascendente e immanente al tempo stesso; infatti ciò che noi chiamiamo "religione induista" in realtà non esiste, trattandosi invece di un insieme di tradizioni diverse unite da un'identica idea di Hindu Dharma o Sanathana Dharma, il Principio o Legge Suprema Universale, che accomuna fra loro le diverse fedi, i diversi popoli e le diverse caste autoctone del subcontinente indiano.
Diciamo autoctone (sebbene gli ariani abbiano in realtà invaso l'India al tempo delle grandi migrazioni indoeuropee, sottomettendo le popolazioni dravidiche native) poiché il cristianesimo e l'Islam non sono riconosciute come aderenti al Sanathana Dharma, e per questo motivo sono in qualche modo considerate un corpo estraneo rispetto alla tradizione religiosa hindu (sebbene il cristianesimo ortodosso del Sud e il sufismo islamico del Nord siano ugualmente rispettate come tradizioni religiose indiane a pieno titolo).
La vera origine del "politeismo induista"è quindi da far risalire ai Veda (si parla per questo di religione vedica o di "vedismo"), la cui profonda natura filosofica e metafisica identifica un Principio Divino Unico e Universale, che va ben al di là delle molteplici divinità particolari che presiedono alle diverse manifestazioni della Natura, quali sono le singole divinità del pantheon induista. (Pierluigi Gallo)

²Sicuramente 4 è un numero significativo non solo per l'Induismo. 
Il principio dei 4 purshartas e dei 4 stati di coscienza della metafisica hindu, ben si legano alla teoria dei tipi psicologici di Jung, come ben descritto da Pierluigi Gallo nel suo articolo "Non c'è tre senza quattro"

³Citazione tratta dalla recensione di Pietro Citati al libro "Kāma Sūtra" a cura di Wendy Doniger e Sudhir Katar - Traduzione di Vincenzo Vergiani - Biblioteca Adelphi - Edizione 2010


Fonti

From the book
Kāma Sūtra a cura di Wendy Doniger e Sudhir Katar - Traduzione di Vincenzo Vergiani - Biblioteca Adelphi 
From website
http://new.exoticindiaart.com/book/details/kamasutra-of-vatsyayana-IDH474/
http://www.hinduism.it/induismo-concetti.html#purus
https://it.wikipedia.org
From the pictures
https://sandrovivan.wordpress.com/tag/kamasutra/
https://it.wikipedia.org

Giornata della Memoria....foto da un baule

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Questo articolo nasce dai racconti del periodo della seconda guerra mondiale fatti a mio marito, da mio suocero Giovanni Mazzucchetti, e ritornati alla memoria da alcune foto ritrovate in un vecchio baule. 
Papà Giannino, come affettuosamente veniva chiamato in famiglia, era allora Capitano di Fregata e Aiutante di Campo dell'Ammiraglio Principe Aimone, figlio di Emanuele Filiberto, secondo duca d'Aosta, e fratello minore di Amedeo di Savoia-Aosta, terzo Duca d'Aosta, Duca di Ferro ed eroe dell’Amba Alagi, di cui poi ne prese il titolo alla morte, avvenuta nel gennaio 1942 in un Campo di Concentramento Inglese a Nairobi in Kenia, afflitto da malaria e tubercolosi.


Irene di Grecia - Foto con dedica a Giovanni Mazzucchetti

Meglio conosciuta come Irene di Grecia, in questa dedica al Capitano di Fregata Mazzucchetti, la Pricipessa si firma Irene di Savoia - Aosta Duchessa di Spoleto.
Infatti Irene, il 1º luglio 1939 in Santa Maria del Fiore a Firenze, sposò il principe Aimone di Savoia-Aosta, allora Duca di Spoleto, da cui poi ebbe un figlio, Amedeo di Savoia-Aosta, nato il 27 settembre 1943.
Irene di Grecia e Danimarca diventerà poi regina di Croazia e Slavonia dal 1941 al 1943, dato che Aimone venne incoronato Re di Croazia col nome di Tomislavo II, nonché Duchessa d'Aosta.

Proprio riguardo a questa incoronazione, papà Giovanni raccontava che tale nomina costituì una vera e propria tegola in testa per Aimone, che dovette congedarsi dalla Regia Marina, la sua vera passione, in quanto tale servizio sarebbe stato inconciliabile con la Corona. 
Aimone adorava la Marina e non avrebbe voluto lasciare né questa passione né l'Italia.
Uscito infatti dall'Accademia Navale di Livorno, un anno prima di Giovanni, nel 1916 con il grado di Guardiamarina, Aimone divenne Sottotenente di Vascello l'anno successivo e, impiegato in una squadriglia di idrovolanti negli ultimi mesi della prima guerra mondiale, fu decorato con una croce di guerra, due medaglie di bronzo ed una d'argento.
Nel 1933 ricevette la promozione a Capitano di Corvetta e venne trasferito al comando militare delle Isole Brioni. Arrivò quindi la promozione a Capitano di Vascello il 1º marzo 1934 e il 24 dicembre 1935, con il grado di Ammiraglio, Aimone sbarcò a Massaua ed assunse il comando delle siluranti nel Mar Rosso. 
Divenuto Ammiraglio nominò Giovanni Mazzucchetti suo Aiutante di Campo, vale a dire ufficiale assistente e responsabile delle attività militari e organizzative deputate ad Aimone.


Ammiraglio Principe Aimone di Savoia

Di questa incoronazione Aimone non ne voleva proprio sapere, dato anche che non aveva nemmeno mai avuto ambizioni politiche: 
"Non so nulla dei croati e della Croazia. Non desidero neppure conoscerli"
Comunque creò nel suo studio di Firenze un "ufficio per gli affari croati" allo scopo di conoscere il paese sul quale avrebbe dovuto regnare. 
Avrebbe dovuto salire al trono dello Stato Indipendente di Croazia con il nome di Zvonimiro II, che proprio rifiutò, ma il 18 maggio 1941, Aimone accettò a malincuore la nomina con il nome di Tomislavo II.
Del suo predecessore, Tomislavo I, Aimone sapeva soltanto che era vissuto oltre mille anni prima, che si era proclamato re di quelle terre, che aveva combattuto contro i bulgari e che poi era misteriosamente scomparso senza lasciare successori.

La Duchessa Irene, nella sua permanenza a Firenze, a villa Cisterna dove spesso veniva raggiunta dalla moglie di Giovanni, AnnaIda Marsaglia Mazzucchetti, si dedicò soprattutto all'attività di crocerossina, proseguendo così l'impegno della suocera Hélène d’Orléans, Duchessa d'Aosta, che della Croce Rossa fu una valida e importante rappresentante soprattutto nella prima guerra Mondiale. 


Hélène d’Orléans, Duchessa d'Aosta

La Duchessa Hélène era infatti ricordata, oltre che per essere una donna di gran cuore spesso vicina ai malati e ai feriti in un modo non certo convenzionale per una signora dell’alta società per di più reale, per non aver paura di nulla, né dei bombardamenti, spesso restava in prima linea accanto ai soldati, né dei vertici dell’esercito e per aver combattuto per tutti gli anni del conflitto una sua personale lotta contro l’inefficienza e le disposizioni assurde. 
Ne è anche conferma il diario che tenne in quel periodo, ricco di annotazioni sui feriti trasportati in carri bestiame nei quali le condizioni igieniche erano disastrose, sugli ospedali disorganizzati e sporchi, ma anche sulle strutture dove l’assistenza funzionava come si deve.

Proprio a Villa Cisterna, la caduta di alcune bombe alleate nei pressi della villa provocò, il 27 settembre 1943, il parto anticipato della Duchessa che, in una stanza al piano terra considerata al riparo dai bombardamenti, dette alla luce l'unico figlio Amedeo.
Il neonato fu battezzato dal Cardinale Arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, prontamente accorso, con i nomi di Amedeo (in ricordo dello zio caduto in Africa) Umberto Costantino Giorgio Paolo Elena Maria (in onore dei parenti) Fiorenzo (in omaggio alla città di Firenze) e Zvonimiro. L'ultimo nome, Zvonimiro, deriva dal fatto che, alla nascita, Amedeo era principe ereditario di Croazia in quando, come già ricordato, suo padre Aimone ne era diventato re nel 1941.
Preso atto di essere stato una marionetta di Ante Pavelic, fondatore del movimento nazionalista degli Ustascia e guida dell'autoproclamato Stato Indipendente di Croazia, nonché una piedina nel gioco strategico del totalitarismo, Aimone, che non soltanto non cinse la sua fantomatica corona ma neanche mise mai piede in Croazia, presentò la sua abdicazione al titolo il 12 ottobre 1943.
Il regime totalitario di Pavelic, che basava il proprio fondamento ideologico sulla difesa dell'elemento etnico croato e sul cattolicesimo integralista, aveva attuato infatti una dura politica di repressione nei confronti degli elementi allogeni. 
Le notizie che pervenivano da varie fonti (ambasciata italiana a Zagabria, servizi segreti, rapporti confidenziali e informatori fidati) e che portarono all'abdicazione, descrivevano lo Stato Indipendente di Croazia come una realtà incompiuta non soltanto a livello istituzionale, ma anche sociale e culturale, e convinsero Aimone a non rimanere una marionetta complice involontario della spaventosa gestione della situazione interna dello stato, caratterizzata appunto da continue persecuzioni ed eccidi da parte degli ustascia di Ante Pavelic, che avevano avviato una vera e propria pulizia etnica contro minoranze nazionali (serbi), avversari politici (comunisti) e minoranze religiose (ortodossi, ebrei e musulmani). 

Primo a destra Duca Aimone di Savoia e secondo a sinistra Giovanni Mazzucchetti

Dopo l'abdicazione, come Ammiraglio della Regia Marina, Aimone aveva quindi seguito Vittorio Emanuele III a Brindisi, e quindi, negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, era divenuto comandante della base navale di Taranto, ricevendo il grado militare di Ammiraglio di Squadra, ma perdendo dal settembre del 1943 i contatti con la moglie. 
Fu così che Amedeo, bimbo di pochi giorni, divenne re di Croazia rimanendo tale fino al 1945, quando lo Stato indipendente di Croazia si dissolse.

Ma altre peripezie aspettavano Irene e il suo bambino.
Tre settimane prima della nascita di Amedeo, il Regno d'Italia aveva firmato, il 3 settembre 1943, l'armistizio di Cassibile, cessando le ostilità contro le forze inglesi e statunitensi, che portò quindi al proclama dell'armistizio fatta dal Maresciallo Badoglio, l'8 settembre, e alla conseguente occupazione di Firenze da parte dei tedeschi.
Il 26 luglio 1944, su ordine firmato personalmente da Heinrich Himmler, i nazisti deportarono Irene con il piccolo Amedeo nel campo di concentramento austriaco di Hirschegg, vicino Graz, insieme alla cognata Duchessa Anna d'Orléans, moglie di Amedeo Duca di Ferro, con le figlie Margherita e Maria Cristina.
Come ricorda nel suo diario Carmine Senise, capo della Polizia dal 1940 al 1943 e poi, per un breve periodo, con il primo governo del Maresciallo Badoglio dopo la destituzione di Mussolini, anch'egli prigioniero nel campo di concentramento di Hirschegg, :

"Giunsero a fine luglio le due duchesse d'Aosta: Anna di Francia con le giovanissime principesse Margherita e Maria Cristina, ed Irene di Grecia, con un amore di bimbo di otto mesi, il principino Amedeo. La brutalità tedesca non aveva avuto riguardi né per la tenera età del bambino, [...] né per la nobiltà della personale condotta delle due duchesse, rimaste com'erano a Firenze solo per non abbandonare nell'ora del pericolo la popolazione fra la quale erano vissute. Senza umanità, senza rispetto per il rango, (i tedeschi) li avevano fatti prigionieri accomunandoli nel trattamento a qualsiasi altro internato. Il loro caso ci commosse, ne soffrimmo nel cuore e nei nostri sentimenti di italiani, ma la loro presenza nella tristezza del momento portò subito una nota di alta gentilezza e doveva essere poi, per i loro continui atti di bontà, come un raggio di sole"
(Giulio Vignoli, Il Sovrano Sconosciuto, Tomislavo II Re di Croazia, Mursia, pagina 149.)

Fortunatamente tutti ebbero miglior fortuna della Principessa Mafalda, figla del Re Vittorio Emanuele III, deceduta dopo atroci sofferenze nel Lager di Buchenwald.


Principessa Mafalda di Savoia

Mafalda morì infatti a 42 anni, il 28 agosto 1944, nel campo di concentramento di  Buchenwald. E in quel campo non badò mai a se stessa ma piuttosto agli altri internati e in particolare gli italiani del lager, ai quali fece sentire tutta la sua vicinanza. Le sue ultime parole furono proprio dirette a loro: 
"Italiani, io muoio, ricordatemi non come una principessa ma come una vostra sorella italiana"
Internata, le venne vietato di rivelare la propria identità e per scherno i nazisti la chiamavano Frau Abeba.
Occupò una baracca insieme all’ex deputato socialdemocratico Rudolf Breitscheid ed a sua moglie, e le venne assegnata come badante la signora Maria Ruhnau, alla quale Mafalda, in segno di riconoscenza, regalerà l’orologio che portava al polso.
La dura vita del campo, il poco cibo, che divideva con coloro che reputava avessero più bisogno di lei ed il glaciale freddo invernale, deperirono ulteriormente il già gracile e provato fisico di Mafalda. 
Nell’agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager e la sua baracca venne distrutta.
La principessa riportò gravissime ustioni e contusioni su tutto il corpo. Fu ricoverata nell’infermeria della casa di tolleranza dei tedeschi del lager, ma qui non venne curata. Dopo quattro giorni di agonia, sopraggiunse la cancrena al braccio sinistro che fu amputato con un interminabile e dissanguante intervento chirurgico. Ancora addormentata, Mafalda venne riportata nel postribolo e abbandonata, senza assistenza
 
Il dottor Fausto Pecorari, radiologo internato a Buchenwald dichiarò che Mafalda era stata intenzionalmente operata in ritardo e l’intervento era il risultato di un assassinio sanitario avvenuto per mano di Gerhard Schiedlausky (poi condannato a morte dal tribunale militare di Amburgo e giustiziato per impiccagione nel 1948), come era già avvenuto per altri casi, soprattutto quando si trattava di eliminare “personalità di riguardo”.

La salma di Mafalda di Savoia, grazie al padre boemo Joseph Tyl, monaco cattolico dell’ordine degli Agostiniani non venne cremata, ma messa in una cassa di legno e sepolta sotto la dicitura: “262 eine unbekannte Frau” (donna sconosciuta). 
Trascorsero alcuni mesi e sette marinai italiani, reduci dai lager nazisti, trovarono la bara della principessa martire e posero una lapide identificativa.



Francobollo Italiano commemorativo del 1995

Dopo la liberazione dal campo di concentramento di Hirschegg, avvenuta nel maggio 1945, Irene soggiornò per alcune settimane in Svizzera e il 7 luglio 1945 rientò in Italia e si fermò prima a Milano, dove Aimone vide per la prima volta il figlio, e successivamente raggiunse Napoli, dove viveva la suocera Hélène d’Orléans.

I racconti di Giovanni Mazzucchetti legati a Irene terminano qui, con questi ultimi momenti a Milano, dove mio suocero rimarrà invece fino alla morte, avvenuta prematuramente nel 1960.



Giovanni Mazzucchetti in alta uniforme



Rohani e le vignette che negano l'Olocausto

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Ieri sera, in occasione delle commemorazioni del XVI Giorno della Memoria, alla Sala Verdi del Conservatorio di Milano è stata organizzata una serata "Dalla Shoah al ritorno alla Vita - Parole Musiche e Silenzi".
Il programma comprendeva brani musicali, brani recitati, una interessante proiezione "Sciesopoli, il ritorno alla Vita" e alcuni interventi.
Proprio da questi interventi sono venuta a conoscenza di un fatto che mi ha lasciato sconcertata e basita e di cui non avrei mai supposto l'esistenza.


Olocausto: “Sciocchezze, non credo che sia avvenuto… Ma credo che avverrà” 
(vignetta di Shlomo Cohen su Israel HaYom)


Rohani arriva a Roma alla vigilia del Giorno della Memoria, mentre nel suo paese viene bandito un concorso con premi in denaro per la migliore vignetta che prende in giro l’Olocausto”. 

Lo ha detto l’ambasciatore d’Israele in Italia Naor Gilon in un’intervista pubblicata da Il Giornale alla vigilia della visita ufficiale del presidente iraniano Hassan Rohani.
Quasi in contrapposizione all'apertura dell'Occidente all’Iran e al tappeto rosso steso dall'Italia al presidente della Repubblica islamica dell'Iran, Teheran in risposta alle vignette di Charlie Hebdo, ha indetto per il 2016 un concorso di fumetti con tema "La negazione dell'Olocausto", per sbeffeggiare i morti della Shoah.

Dall'intevento di ieri sera sia di Ferruccio Bortoli, Presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, che del Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Milano, Rav Alfonso Arbib, sono venuta a conoscenza di questa ignobile iniziativa che dimostra come, mentre il mondo intero ha voluto ricordare le atrocità dell’Olocausto, ancora fresche nella nostra memoria collettiva, uno stato membro dell’Onu si faccia vanto invece di ospitare un concorso che oltraggia la memoria non solo dei sei milioni di ebrei assassinati durante la Shoah, ma anche di tutti coloro che furono vittime di quelle atrocità. 
Il concorso, organizzato dalla Municipalità di Teheran, chiede a vignettisti di ogni paese di inviare disegni che negano, sminuiscono o sbeffeggiano lo sterminio nazista degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, accusando gli  ebrei d’averlo inventato e/o sfruttato per cinici tornaconti di guadagno e di potere.
A differenza delle edizioni precedenti, è particolarmente significativo il fatto che quest’anno il concorso sia organizzato proprio dalle autorità ufficiali della capitale iraniana, e particolarmente proiettato a livello internazionale. Senza contare che il premio in denaro è stato più che quadruplicato, da 12.000 a 50.000 dollari.


In attesa della prossima visita di Rohani

Coperti i nudi dei Musei Capitolini, niente vino servito in tavola al Quirinale.....ma ci rendiamo conto di quello che facciamo e di quanto offendiamo la nostra cultura e le nostre tradizioni?
In nome del disgelo sulla questione nucleare e con l'obiettivo di un giro d'affari che regalerà alle aziende del nostro Paese contratti per 17 miliardi di euro......si può davvero dimenticare che l'Iran rappresenti una delle più rigide e spietate teocrazie islamiche?
Un regime che dimostra, non solo l'antisemitismo dilagante, ma una costante violazione dei diritti umani, con le persecuzioni contro omosessuali e oppositori politici, con l'introduzione della brutalità delle pene corporali o della lapidazione.......

Leggevo, proprio ieri, un articolo di Gaia Cesare che, oltre a ricordare il fatto che il ministero della Cultura e della Guida islamica di Teheran ha imposto qualche giorno fa la censura di tutti i libri in cui figura anche solo la parola "vino", (espressione dell'"offensiva culturale occidentale" e il cui consumo è punito in Iran con almeno 80 frustate e con la pena di morte in caso di recidiva), ben elencava le questioni che fanno del nuovo "interlocutore riformista" invece il leader di uno dei più duri regimi del pianeta.

Ed ecco parte dell'articolo di Gaia Cesare in cui si elencano 10 di queste questioni:

1 PENA DI MORTE 
L'Iran è il secondo Paese al mondo per numero di esecuzioni dopo la Cina. Il 2016 è cominciato con una media di tre esecuzioni al giorno. L'anno scorso sono finiti sul patibolo quasi 1000 iraniani (dati forniti da Iran Human Rights Italia). 
Durante la presidenza Rohani, cioè dal 2013, si è registrato il più alto numero 
di esecuzioni in 25 anni: 2277 impiccati (Nessuno Tocchi Caino). 
2 BRUTALITÀ 
L'impiccagione è il metodo preferito con cui viene applicata la sharia, la legge di Stato basata sul Corano. Di solito l'esecuzione con cappio al collo avviene in piazza perché sia di esempio, spesso con delle gru perché possa essere più lenta e dolorosa. Il codice penale iraniano prevede anche l'amputazione delle mani. 
3 MINORENNI 
Amnesty International ha identificato almeno 49 giovani nel braccio della morte arrestati quando avevano meno di 18 anni e un rapporto Onu del 2014 riferisce di oltre 160 detenuti finiti in manette da minorenni e destinati ora al patibolo.
4 DONNE 
Nel 2013 è stata reinserita la lapidazione come pena esplicita per l'adulterio. 
In Iran una donna maggiorenne non può uscire dal Paese senza il permesso di un parente maschio, né può sposarsi senza il via libera del padre. Alle donne non viene ancora consentito di assistere a eventi sportivi nonostante le autorità abbiano annunciato l'anno scorso la fine del divieto. 
5 ANTISEMITISMO
Rohani ha diplomaticamente negato la Shoah quando una giornalista della Nbc gli ha chiesto se davvero fosse "un mito", come l'ha definita il predecessore Ahmadinejad: 
"Non sono uno storico, sono un politico", ha detto. 
In risposta alle vignette di Charlie Hebdo, il Paese ha indetto per il 2016 un concorso di fumetti con tema: «La negazione dell'Olocausto». L'Ayatollah Khamenei, in un'intervista al New York Times lo scorso settembre, ha dichiarato: 
"Se Allah vuole, non ci sarà più alcun regime sionista tra 25 anni". 
6 OMOSESSUALITÀ
L'Iran è uno dei cinque Paesi al mondo dove essere omosessuale è più pericoloso. 
Amare una persona del proprio sesso è reato ed è punito con la pena di morte, spesso con l'impiccagione. 
La Guida Suprema Khamenei ha definito l'omosessualità una malattia e con una fatwa ha reso obbligatorio l'intervento per cambiare sesso. 
7 OPPOSITORI POLITICI 
Sono centinaia gli attivisti, i difensori dei diritti umani, i sindacalisti e i  membri di minoranze politiche o religiose condannati a pene detentive o alla pena di morte per questioni politiche. In queste ore il nipote del fondatore della Repubblica islamica Hassan Khomeini, considerato vicino ai riformisti, è stato escluso dalle elezioni di lunedì prossimo perché non avrebbe "sufficienti competenze religiose". 
8 LIBERA STAMPA
In carcere ci sono almeno 40 fra giornalisti e blogger. 
Negli ultimi 14 anni la magistratura iraniana ha chiuso almeno 150 testate riformiste. 
9 POETI E ARTISTI
In Iran si finisce in carcere o condannati alla frusta anche per un documentario mai uscito e di cui si conosce solo il trailer. 
È quello che succede al regista curdo iraniano Keywan Karimi, reo di "aver offeso le istituzioni sacre dell'islam". 
10 TERRORISMO
Come ha ricordato Obama lo scorso maggio, 
"l'Iran è chiaramente impegnato in comportamenti pericolosi e destabilizzanti in diversi paesi della regione"...."contribuisce a sostenere il regime di Assad in Siria, sostiene Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, aiuta i ribelli Houthi in Yemen".

Beh direi che per rimanere basiti e scandalizzati ce ne sia a sufficienza, senza dover ricordare altre n questioni che dimostrano come dialogare con chi non vuol comprendere e accettare altre culture sia davvero problematico se non impossibile.
   

Tarte Tatin, dopo un tango!

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Dopo una bella serata/esibizione/benefica di tango al Pirellone milanese, con gli amici tangueri abbiamo deciso di "farci" una pizza!
Di solito non uso fare pubblicità, ma questa volta devo dire che abbiamo trovato un posticino davvero degno di essere ricordato.
Non solo pizza, perché da Limone, questo il nome del locale di via Fabio Filzi, abbiamo trovato anche dell'ottimo pesce e ottimi dolci.
Ho scoperto poi che il ristorante rimane uno degli unici della città che ancora oggi acquista tutto il suo pesce direttamente al mercato centrale ittico di via Lombroso, il primo punto d’arrivo per le pescate più importanti d’Italia.
Ma qui è dei dolci che vorrei parlare, anzi di un dolce in particolare che ho trovato davvero eccezionale: una Tarte Tatin.
Non ho chiesto la loro ricetta ma credo sia senz'altro molto simile a quella che faceva mia mamma, ereditata da mia nonna, e di cui lascio una descrizione insieme ad alcune curiosità.





La Torta Tatin (in francese Tarte Tatin) è una torta di mele capovolta, tipica della Francia, in cui le mele sono caramellate in burro, zucchero e rum prima della cottura della torta.
Secondo la leggenda, questo dolce sarebbe originario di Lamotte-Beuvron, nel dipartimento di Loir-et-Cher (nella regione della Francia Centrale).
A fine ottocento due sorelle, Stephanie e Caroline Tatin, gestivano un ristorante, che esiste ancora sotto il nome di "Hôtel-Restaurant Tatin" (dal 1968 è gestito dalla famiglia Caille ), situato di fronte alla stazione frequentata da molti cacciatori. 
Una domenica, mentre preparavano una torta di mele, una delle sorelle dimenticò di porre la pasta brisée al di sotto della torta, lasciando caramellare così le mele nel burro e nello zucchero. 
Per rimediare all'errore pose dunque la pasta brisée al di sopra del composto ottenuto e poi capovolse il tutto in un piatto. I cacciatori apprezzarono questa torta, che divenne così la "Tarte Tatin".
Successivamente, visto il discreto successo riscosso, la Tarte Tatin fu adottata dal celebre ristorante parigino Maxim's che ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia.
Oggigiorno è uno dei dolci più amati in Francia ed è immancabile nelle Brasseries e nei Ristoranti, dai più modesti ai più lussuosi.

"Situé en plein coeur de la Sologne, l'hôtel s'enorgueillit d'avoir été le lieu de création de la célèbre tarte des demoiselles Tatin, il y a plus d'un siècle. 
L'établissement est un ancien relais de diligence qui possède un parc ombragé. Côté restaurant, vous pouvez déguster des spécialités à base de gibier, de champignons, en saison, de produits du terroir. Bien sûr, nous vous proposons la fameuse Tarte Tatin. Par ailleurs, plus d'une centaine de vins figurent à la carte." (Hôtel-Restaurant Tatin)




La pasta brisée la lascio alla curiosità del lettore o all'acquisto di quella che si trova già bella, buona e pronta in qualunque supermercato.
Ricordo solo che la pasta brisée è un classico della cucina francese che, come la pasta frolla, può essere base per dolci e richiede una lavorazione veloce. 
La differenza fondamentale è l’assenza di uova e di zucchero, i suoi ingredienti sono farina, burro, acqua fredda e sale.

Per il resto ecco la ricetta della "Tarte Tatin" di mia nonna (lei sosteneva essere molto simile, anzi identica, a quella delle sorelle Tatin).
La nonna sosteneva anche che per questa ricetta si dovessero usare le mele renette, perché la mela renetta è la più “nobile” delle mele visto che il suo nome deriva dal francese reine, che significa regina. 
Grossa, dalla forma appiattita ha la buccia gialla con macchie scure, si conserva a lungo e anche se la buccia diventa grinzosa significa che la sua polpa è ancora più buona e profumata. 
È la mela per eccellenza anche dei classici della cucina altoatesina: lo strudel e le frittelle di mele. 
Attenzione però....è bene sbucciarla all’ultimo minuto perché si ossida in fretta (meglio strofinare sempre del limone sulle mele sbucciate e sulle fette).

Ingredienti:

Pasta Brisée confezione da 230/250 g. (può essere sostituita con la Pasta Frolla)

Ingredienti per la farcitura:

Mele 1 kg. circa 5 renette o golden o stark delicious 
Burro 75 g.
Zucchero 150 g.
Rum un bicchierino

Ingredienti per la guarnizione:

Panna montata 
Gelato alla panna

Preparazione: 

1) Lavate le mele, sbucciatele, eliminate il torsolo e tagliate ogni mela in 8 spicchi.
2) Mettete in una teglia antiaderente il burro a fiocchetti, versate lo zucchero e il Rum (a piacere anche un cucchiaino di cannella) e fate sciogliere il tutto a fiamma moderata.
3) Unite le mele tagliate a spicchi, disponendole con la parte tonda verso il basso, rimettete quindi la teglia sul fuoco vivace e lasciate cuocere fino a quando lo zucchero sciolto sarà diventato biondo (importante che non scurisca troppo diventando caramello scuro).
4) Disponete la pasta brisée (o frolla) sopra le mele, rivoltando i bordi verso il basso come per avvolgere le mele, e punzecchiando la pasta qua e là con uno stecchino.  
5) Infornate a 200 gradi per 15 minuti e quando la pasta brisèe inizierà a gonfiarsi, abbassate il forno a 180 gradi e lasciate cuocere per altri 15 minuti. 
6) Terminata la cottura, estraete la Tarte Tatin dal forno, attendete che intiepidisca leggermente, quindi capovolgetela su un piatto o un vassoio e servitela ancora calda.





La Tarte Tatin fatta dalla mia mamma (sempre con la ricetta della nonna) era veramente da urlo, anche perché lei la serviva calda, guarnita con qualche ciuffetto di panna montata fresca e con un po' di gelato alla vaniglia in uno scodellino a fianco.
A volte variava il tipo di frutta sostituendo, a seconda della stagione, pere, albicocche o prugne ma quella tipica con le mele, delle sorelle Tatin, risultava imbattibile!
Un altro modo per apprezzarla è alla "Normande", cioè tiepida, annaffiata da una buona dose di Calvados e con una cucchiaiata di panna liquida a lato.

Beh.....buon dessert!!!! 
Sicuramente è da consumarsi anche dopo una bella serata di tango!!!!


Stagioni e mezze stagioni.....ha senso parlarne?

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"Egli è pur vero che l'ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi"......
Zibaldone - Giacomo Leopardi

Un recente articolo sul meteo intitolava "Caldo anomalo agli sgoccioli: dal 4 febbraio svolta meteo, arrivano condizioni più invernali".
In effetti questo è un inverno eccezionalmente caldo non solo qui in Italia ma anche nel nord Europa, che ci fa dire: "le stagioni non ci sono più", "si sono ribaltate", e, sempre più spesso, la frase più classica "le mezze stagioni non ci sono più"!


Stampa antica tratta dal Libro dei Globi in cui nel globo centrale sono indicate l'inclinazione della terra, i circoli polari, i tropici, l'equatore e l'eclittica - Vincenzo Maria Coronelli dedica a Luigi XIV - 1697

Ma davvero le stagioni non ci sono più? E soprattutto le cosiddette mezze stagioni, primavera e autunno, non ci sono più?
In realtà è solo l'inverno che cede il passo all'estate e viceversa, con anticipi di caldo e ritorni di freddo.
Possiamo forse dire che le mezze stagioni non sono mai esistite e che invece le vere stagioni sono in realtà solo 2? Quella prevalentemente fredda (da Ottobre a Marzo) e quella calda (da Aprile a Settembre)?
Dipende cosa si intenda per stagioni, i mesi sono sempre 12 ovunque.
Esistono infatti diversi modi di definire una stagione e quelli utilizzati più comunemente sono la suddivisione astronomica e meteorologica. 
Secondo la suddivisione astronomica una stagione è l'intervallo di tempo che intercorre tra un equinozio ed un solstizio. Si distinguono quindi quattro stagioni: primavera, estate, autunno, inverno, ciascuna delle quali ha una durata costante di tre mesi l'una e ben definita nel corso dell'anno, indipendente dalla latitudine e dalla collocazione geografica
Se si considerano le variazioni climatiche e quindi una definizione meteorologica, l'alternarsi delle stagioni dipende ovviamente anche dall'inclinazione dell'asse di rotazione terrestre rispetto ai raggi del sole e dalla distanza del sole dalla terra: afelio e perielio.
All'equatore e ai poli non si può certo parlare di stagioni in senso classico!
All'equatore i raggi arrivano sempre perpendicolari, tutto l'anno, ed ecco perché fa sempre caldo. Nelle zone tropicali l'anno si potrà dividere in due parti, definendole stagione delle piogge e stagione secca.
Man mano che ci si allontana dall'equatore, i raggi del sole sono più obliqui e si hanno variazioni climatiche e alternanza delle stagioni. 
Ai poli i raggi del sole arrivano molto obliqui, ed ecco perché lì fa sempre freddo. Nelle regioni polari generalmente si distinguono due sole stagioni (spesso denominate Sole di Mezzanotte e Notte Polare, oppure semplicemente estate e inverno) determinate dalla presenza o meno del sole sopra l'orizzonte.  

Climaticamente parlando il passaggio dall'inverno all'estate avviene con alterne vicende senza un confine netto che le separa ed è solo un luogo comune pensare a 4 stagioni "rigidamente" definite.
Inoltre non è detto che le stagioni si debbano necessariamente suddividere in base al clima.
I due equinozi, quello di primavera il 20 o 21 Marzo e quello di autunno il 22 o 23 Settembre (dove il giorno dura quanto la notte: 12 ore), ci hanno portato a dividere l'anno in 4 stagioni, ma nulla ci vietava di inventarne 3, 6 o 8.



Geroglifici Egizi

Per gli antichi Egizi le stagioni erano infatti 3!
In Egitto, la piena e il ritiro delle acque del Nilo determinavano le tre stagioni nelle quali era diviso l'anno.
Gli egizi dividevano l'anno in tre stagioni, ciascuna delle quali formata da quattro mesi. 
L'inizio dell'anno coincideva con la grande piena del Nilo. La stagione della "inondazione" veniva denominata Akhet, che andava approssimativamente da settembre a dicembre, seguita da Peret e Shemu.
Akhet era la prima delle tre stagioni e corrispondeva alla "stagione dell'inondazione", perché in questo periodo dell'anno del calendario egizio, le acque del Nilo allagavano i campi, arricchendo di nutrienti il suolo coltivato. 
La seconda, invece, era Peret, la "sparizione" o ritiro delle acque. Infine, la terza stagione, Shemu, era contrassegnata dalla "siccità"

Nella nostra cultura il luogo comune della mitidezza della mezza stagione primaverile, è dovuto anche al fatto che si associa la primavera al risveglio della Natura, alle giornate che si allungano e quindi a una "bella stagione", anche se in effetti, generalmente, è il secondo periodo più piovoso dell'anno (dopo l'autunno).

Tali periodi di transizione (definiti appunto primavera e autunno) sono capricciosi, proprio perché segnano il passaggio da un periodo prevalentemente freddo (inverno) a uno caldo (estate). 
Da piccola ricordo che sentivo i "grandi" lamentarsi che "il tempo non era più come una volta", e dovrebbe far riflettere il fatto che già nell'800, come si legge dai testi dell'epoca, si dicevano frasi come: "non ha mai fatto così freddo/caldo", "non si ricorda a memoria d'uomo", o "non ci sono più le mezze stagioni".




Un'amica, appassionata e insegnante di letteratura, mi ha ricordato che ne parlava già Giacomo Leopardi nello Zibaldone!

"Egli è pur vero che l'ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son piu’; e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre, che in sua gioventù, a Roma, la mattina di Pasqua di resurrezione, ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno dì impegnar la camiciola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’ inverno"...(qui testo completo)

A parte queste considerazioni polemiche non si può dimenticare come il tema delle 4 stagioni abbia ispirato artisti e musicisti di ogni tempo.
In architettura ne sono un esempio le splendide fontane di Torino e Milano.



La "Fontana dei Mesi e delle stagioni" di Torino al Valentino

La "Fontana dei Mesi e delle stagioni" di Torino, costruita in occasione dell’Esposizione Generale Italiana del 1898, è una delle opere architettoniche più significative del parco del Valentino. E' l’unico elemento architettonico ancora esistente dell’ampio apparato di edifici costruiti per l’Esposizione Generale Italiana del 1898, organizzata a Torino per celebrare il cinquantenario dello Statuto Albertino. 
Secondo una vocazione che si stava consolidando dopo l’Esposizione del 1884, il luogo prescelto per ospitare la manifestazione fu il parco del Valentino e il prestigioso compito di progettare i padiglioni e quindi la fontana fu affidato a Carlo Ceppi (1829-1921).


La "Fontana delle Quattro Stagioni" di Milano in p.zza Giulio Cesare

Riapparsa recentemente in piazza Giulio Cesare, a simbolo del nuovo quartiere CityLife, la "Fontana delle Quattro Stagioni", fu progettato dall’architetto Renzo Gerla nel 1927 e per anni lasciata andare in rovina.
La progettazione della "Fontana delle Quattro Stagioni" di Milano fu affidata infatti, dal Podestà Ernesto Belloni, all'architetto Renzo Gerla nel febbraio 1927, mentre erano in uno stadio molto avanzato i lavori per la realizzazione della Fiera Campionaria, proprio per provvedere a una degna sistemazione urbanistica della nuova piazza Giulio Cesare, quella che sarebbe diventata l’ingresso principale della Fiera Milano. 
La "Fontana delle 4 stagioni"è stata recentemente restaurata sia nelle parti architettoniche e nelle statue vicentine, ricalcate su originali del Settecento, sia con il ripristino impiantistico, riattivando così gli scenografici giochi d’acqua, i cui getti più importanti raggiungono un’altezza di 8 metri.


"Primavera" di Sandro Botticelli 1482

Nella pittura grandi maestri si sono ispirati alle 4 stagioni.
Come non citare la "Primavera" del Botticelli, considerato uno dei capolavori del Rinascimento italiano. 
L’opera, forse la più nota di Sandro Botticelli, databile intorn0 al 1482, venne eseguita per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (cugino di Lorenzo il Magnifico) ed è ora conservata alla Galleria degli Uffizi di Firenze. 
Un dipinto che deve il suo fascino non solo alla grande tecnica pittorica ma anche all’aura di mistero che circonda l’opera, il cui significato più profondo non è ancora stato completamente svelato.


"Inverno" e "Primavera" di Giuseppe Arcimboldo

"Estate" e "Autunno" di Giuseppe Arcimboldo

Che dire poi delle "Quattro Stagioni" di Giuseppe Arcimboldo
Tra le sue opere più celebri, ci sono otto tavole. di contenute dimensioni in forma di ritratto allegorico, raffiguranti le quattro stagioni (Primavera, Estate, Autunno e Inverno) e i quattro elementi della cosmologia aristotelica (Aria, Fuoco, Terra, Acqua). 
Trattasi di 8 allegorie, di cui le versioni più conosciute sono quelle del Louvre (copie eseguite dallo stesso Arcimboldo su richiesta di Massimiliano II nel 1573) in ognuna delle quali si ammirano grottesche "Teste Composte", ritratti burleschi eseguiti combinando tra loro, in una sorta di trompe-l'œil, oggetti od elementi dello stesso genere (prodotti ortofrutticoli, pesci, uccelli, libri, ecc) collegati metaforicamente al soggetto rappresentato, in una sorta di variegato impianto allegorico che ne fa un maestro del surrealismo.
Questi 4 quadri sono accoppiati a due a due (uomo e donna) e raffigurano l’ Inverno e la Primavera, l’Estate e l’Autunno.


"Estate""Autunno""Inverno""Primavera" di Gian Lorenzo Bernini

Nella scultura ne è un esempio l'opera, le “Quattro Stagioni”, che Gian Lorenzo Bernini (1598 – 1680) scolpì insieme al padre Pietro nei primi anni, e che riflettono ancora l’influenza di Caravaggio, dal quale ereditò la forte resa realistica.  
Il gruppo commissionato da Leone Strozzi per la sua Villa/Museo romana, fu riscoperto da Federico Zeri a villa Aldobrandini a Frascati.



Antonio Vivaldi "Il cimento dell'armonia e dell'inventione" 1725

Ma non si può certo dimenticare quella che rappresenta una delle più note e significative opere musicali, "Le Quattro Stagioni" titolo con cui sono noti i primi quattro concerti grossi per violino di Antonio Vivaldi da "Il cimento dell'armonia e dell'inventione".
Si tratta di un tipico esempio di musica a programma, cioè di composizioni a carattere prettamente descrittivo e che ben si adattano alla visione climatica delle stagioni.
Ad esempio, l'"Inverno"è reso a tinte scure e tetre, con riferimenti al freddo (Allegro non molto "Agghiacciato tremar tra nevi algenti"), al contrario l'"Estate" evoca l'oppressione del caldo (Allegro "Sotto dura stagion dal sole accesa") o la "tempesta", nel suo ultimo movimento (Allegro "Teme fiera borasca, e 'l suo destino"). 
Ma perché parlarne, la musica va ascoltata e qui lascio una stupenda esecuzione dell'"inverno" con Nicola Benedetti (violinista scozzese di origini italiane) come primo violino, che per l'occasione del Concerto di Natale - Assisi 2011, aveva suonato con uno Stradivari del 1712. 

Vivaldi - 4 Stagioni - Inverno - Concerto di Natale 2011, Assisi



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