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Trump, dalla grande inclusione alla grande espulsione

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Sorprendentemente, a giudicare dai titoli dei giornali e da come viene percepito il fenomeno migratorio, in un mondo di più di sette miliardi di persone solo il 3% sono migranti internazionali, che vivono al di fuori dei paesi in cui sono nati. 
Eppure, il mondo è sempre in movimento, creando in questo processo, molte trasformazioni. 
Viviamo sempre più in un mondo in cui le ricchezze sono in mano a pochi mentre è sempre più crescente la quota di poveri e quindi, inevitabilmente, le pressioni migratorie continueranno ad aumentare come risultato di disuguaglianze globali e di gravi conflitti, e in cui i paesi più sviluppati si troveranno a dover gestire, con sempre più difficoltà, da una parte l'espansione demografica e dall'altra la necessità di forza lavoro.
E' indubbio che l'immigrazione è una forza di trasformazione, che produce cambiamenti sociali profondi e imprevisti in entrambe le società, sia di partenza che di arrivo, nei rapporti infragruppo all'interno delle società di accoglienza, e tra gli stessi immigrati e i loro discendenti. 


Iimmigrants on the ferry in 1905

L'immigrazione influenza e viene influenzata quindi, giocoforza,  sia dalle politiche statali che cercano di controllarne i flussi, che dalle diverse forme di reazione da parte dei residenti e dei politici di turno, che possono visualizzare i nuovi arrivati anche come una minaccia culturale o economica. 
La paura dello straniero, la xenofobia che porta a una "società del disprezzo", è variata storicamente in tandem con tutte le forme di migrazione internazionale, aggravata oggi maggiormente da una crisi economica globale, dagli attacchi terroristici, dalla guerra, e quindi da sempre maggiori flussi di rifugiati.
Sicuramente una caratteristica della società americana, tanto da auto-definirsi "nazione di emigranti", è stata la capacità  di assorbire, come una spugna gigante, decine di milioni di nuovi arrivati da tutte le classi, culture e paesi. 
Questo risultato fenomenale, tuttavia, ha storicamente convissuto con due lati contrapposti nel processo di costruzione della nazione in quanto gran parte della storia americana può essere vista come una dialettica di processi di inclusione ed esclusione, e in casi estremi di espulsioni e rimozioni forzate.
Per capire la vastità dei processi di inclusione basterebbe raccontarne la storia attraverso due città, New York e Los Angeles.



Italian immigrants on the Ellis Island–Manhattan ferry in 1905

New York, può sicuramente essere considerata la città americana simbolo per eccellenza dell'immigrazione.  Dal 1820 (quando il numero degli arrivi ha cominciato ad essere stimato) al 1892 (l'anno in cui Ellis Island ha aperto all'ingresso del porto di New York, vicino alla Statua della Libertà, installata sul suo piedistallo nel 1886), gli immigrati arrivati prima alle banchine sulla punta di Manhattan, e poi attraverso la vicina Castle Garden (primo impianto di accoglienza degli immigrati) furono più 10 milioni.
Quindi più di 100 milioni di americani possono rintracciare i loro antenati (prevalentemente europei) in questo periodo. Lo stesso Donald Trump trova le sue origini di migrante nel nonno Friederich (Fred) Trump, che, nato il 14 marzo 1869 a Kallstadt in Germania, migrò nel 1885 negli Stati Uniti da Amburgo a bordo della nave "Eider" e diventò un cittadino degli Stati Uniti nel 1892 a Seattle, Washington.


Fred Trump (padre di Donald) nel 1915 da bambino (primo a sinistra), con i genitori, nonché nonni di Donald,
 Friedrich Trump ed Elizabeth Christ, la sorella Elizabeth e il fratello John G. 

Poi dal 1892 fino alla sua chiusura nel 1954, Ellis Island è diventata la porta d'ingresso per altri 12 milioni di immigrati ed è quindi ricordata come la più trafficata stazione di controllo degli immigrati del paese nel decennio tra il 1905 e il 1914.
Dopo il 1924 Ellis Island divenne invece principalmente un centro di detenzione e di deportazione. 
Altri 100 milioni di americani discendono quindi anche da questi immigrati che, arrivati a Ellis Island, si sono poi dispersi in tutto il paese. 
Così, incredibilmente, quasi due terzi della popolazione degli Stati Uniti, circa 320 milioni di oggi, possono rintracciare le loro origini ai nuovi arrivati che sono entrati attraverso New York City nel secolo tra i 1820 e 1920.

Ellis Island  porta d'ingresso a New York

Sulla costa occidentale invece, la storia dell'immigrazione si è  sviluppata in un modo un po' diverso e, in particolare a Los Angeles, che è considerata come la metropoli premier per immigrati nel mondo di oggi. 
E 'difficile valutare e descrivere la trasformazione demografica che la California ha subito nel corso dell'ultimo mezzo secolo. 
Ancora nel 1960 Los Angeles era la "più bianca" e la più grande città protestante nel paese, tuttavia entro la fine del 1980 un terzo di tutti gli immigrati verso gli Stati Uniti si erano stabiliti in California, e oggi, dei 10 milioni di persone a Los Angeles County (contea più grande della nazione), il 72% sono le minoranze etniche (cioè 7,2 milioni di persone, un numero significativamente più grande delle popolazioni della maggior parte degli stati degli USA). 
In effetti, il sud della California ospita la più grande concentrazione di messicani, salvadoregni, guatemaltechi, filippini, coreani, giapponesi, taiwanesi, vietnamita, cambogiani, iraniani, nonché di altre nazionalità che hanno trovato qui ospitalità al di fuori dei rispettivi paesi di origine e di contingenti considerevolmente alti, come ad esempio armeni, cinesi, honduregni, indiani, laotiani, russi e israeliani ebrei, nonché diverse nazionalità arabe. 
La maggior parte delle più grandi nazionalità di immigrati che si sono stabiliti negli Stati Uniti dal 1960 hanno quindi scelto  il loro insediamento primario a Greater Los Angeles.
Oggi, gli immigrati rappresentano ancora oltre un quarto della popolazione di 38 milioni di persone in California, e più di un quarto di tutti gli immigrati della nazione risiedono proprio in California. 
Questa quota considerevole di immigrazione ha beneficiato di varie leggi o delibere approvate in concomitanza di specifici momenti storici: della Immigration Act 1965 (che ha abrogato la razzista Quota Act 1924), il reinsediamento di centinaia di migliaia di profughi della guerra fredda da Cuba e dal Vietnam, Laos e Cambogia dopo la fine della guerra in Indocina nel 1975, e la disposizioni di amnistia del 1986, Immigration Reform and Control Act (IRCA), agli immigrati senza documenti.
Il censimento della popolazione nel 1970 contava la percentuale più bassa di persone di origine straniera nella storia degli Stati Uniti, il 4,7%. 
Oggi, che la quota è di oltre il 13% a livello nazionale, si avvicina così, ma senza superarlo, al massimo storico del 14,8% raggiunto nel decennio 1890 e 1900.


Los Angeles anni '60

Una caratteristica iconica quindi degli Stati Uniti è stata la sua notevole capacità di assorbire i nuovi arrivati da tutte le classi, culture e paesi.
La diversità etnica e nazionale dei migranti contemporanei negli Stati Uniti impallidisce in confronto alla diversità delle loro origini come classe sociale. 
Ne è un esempio eclatante il fatto che sia i più istruiti che i meno istruiti negli Stati Uniti oggi sono gli immigrati, il che porta a una riflessione sulle conseguenze sul piano lavorativo e di mercato che vede contrapposti tra gli stessi gruppi di migrazione professionisti ad alto livello e manodopera a basso costo, il che porta inevitabilmente a una clessidra che vede da una parte migrazione di "cervelli" e dall'altra lavoratori da sfruttare, spesso anche senza documenti.  
Questi ultimi hanno fatto emergere, in particolare in questi anni del 21esimo secolo, l'elemento più controverso nella politica dell'immigrazione. 
Alcuni milioni di loro sono entrati negli USA da bambini e un segmento di questi, i cosiddetti "Dreamers", sono stati i beneficiari delle politiche di Obama  volte a integrarli, fornendo loro status temporaneo legale, l'accesso al mercato del lavoro legale, patenti di guida e la sicurezza di non essere deportati.



Donald Trump insieme alla madre Mary Anne Macleod (scozzese) e al padre Fred Trump

Purtroppo quello che si pensava impossibile si è avverato e gli Stati Uniti oggi, con l'ascesa al potere di Trump assistono e assisteranno a stravolgimenti e picconamenti delle poliche precedenti, quella di Obama ma forse non solo. Dalla sanità pubblica alla costruzione di un muro lungo il suo confine meridionale, alla fine della cittadinanza per diritto di nascita (un marchio di garanzia degli Stati Uniti nonché diritto costituzionale a partire dalla fine della guerra civile), all'istituzione di un registro musulmano, al finanziamento federale di "città santuario", e, come già vediamo in questi giorni, alla riduzione del reinsediamento dei rifugiati e alla negazione di accoglienza per intere nazionalità (vedi i siriani), a vasti aumenti di divieti di accesso negli USA, detenzione e deportazione di immigrati.
E lui ha già stravolto tutto, “nessun presidente della storia moderna degli Stati Uniti ha cominciato il suo mandato con una tale quantità di iniziative sui temi più disparati e in così breve tempo” (fa sapere l’Agi), annullando anche i più consolidati diritti di donne, lavoratori, nativi, immigrati......ricorrendo persino a ricatti:
- nel giorno del suo insediamento, 20 gennaio, ha firmato un ordine per cominciare a smantellare la riforma sanitaria del suo redecessore. - tre giorni dopo, il 23 gennaio, ha ordinato di ritirare gli Usa dal Tpp, l’accordo di associazione transpacifico, che già in campagna elettorale aveva definito “un disastro potenziale” per gli Usa. 
- ancora il 23 gennaio il tycoon ha firmato un ordine per proibire l’utilizzo di fondi del governo per sovvenzionare le Ong che praticano o danno consigli sull’aborto. 
- sempre lunedì 23 gennaio ha firmato anche un terzo ordine esecutivo per bloccare nuove assunzioni nel governo federale, eccetto che per le Forze armate. 
- il 24 gennaio ha dato il via libera a due grandi (e controversi) progetti di oleodotto che Obama aveva congelato a causa dell’impatto sull’ambiente.
- il 25 gennaio ha firmato l’ordine esecutivo per avviare la costruzione nel giro di “mesi” del muro alla frontiera con il Messico. 
- ancora il 25 gennaio ha ordinato di creare altri centri di detenzione per clandestini, aumentare il numero degli agenti di controllo alle frontiere e interrompere i fondi federali a città come Chicago, New York e Los Angeles, che proteggono dall’espulsione gli immigrati irregolari. 
- il 27 gennaio, il tycoon firma al Pentagono gli ordini esecutivi per la sospensione dell’accoglienza ai rifugiati per 120 giorni (tempo necessario per poter esaminare i meccanismi di accettazione e assicurarsi che gli estremisti non mettano piede sul territorio statunitense), bloccando a tempo indefinito l’ingresso di rifugiati siriani e sospendendo per 90 giorni la concessione di visti a cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana con una storia di terrorismo: Libia, Sudan, Somalia, Siria, Iraq, Yemen e Iran. 
Dimenticandosi, ma forse no dati gli interessi economici in gioco, di paesi dichiaratamente coinvolti in attentati terroristici come Arabia Saudita, Pakistan o Afganistan.
Questi presupposti indicano che sicuramente con Trump è iniziata una nuova era, migliore o peggiore, lo si vedrà in futuro sempre che il Congresso non lasci a Trump carta bianca. In questo caso temo che da presidente si trasformerebbe in tiranno assoluto! 


29 giugno 2017 - Corteo di protesta contro Trump e il suo bando agli immigrati
partito da Battery Park verso Ground Zero e Midtown

Ci aspetta un futuro comunque incerto e potenzialmente uno dei più tragici e vergognosi della storia della "Immigrant America".
Mi auguro non si trasformi nel virulento anti-cattolicesimo "Know Nothing" della metà del 19esimo, o nei successivi movimenti nativisti contro meridionali e orientali europei, che culminò nel restrizionista e razzista "National Origins Quota Act" del 1924.
Prese di posizione che trascinano con se odio e isteria collettiva come quella anti-tedesca della prima guerra mondiale e che ricordano tragici momenti come l'internamento di giapponesi americani durante la seconda guerra mondiale, o il "rimpatrio" (rimozioni forzate) nel corso del 1930 di un milione di messicani americani (oltre la metà dei quali erano cittadini degli stati Uniti).
Al "Dream Act", il sogno di Obama, si era già sostituita la proliferazione di centinaia di leggi e ordinanze federali per cercare di controllare e arginare l'immigrazione a livello locale, nonostante mandati costituzionali in senso contrario statali e locali. 
Ironia della sorte, il presidente Obama, il cui sogno era quello della riforma dell'immigrazione, ha lasciato l'incarico dopo aver forse presieduto, suo malgrado, il maggior numero di espulsioni nella storia americana.



Foto
LEWIS HINE LA GRANGER COLLECTION / CORDON PRESS
dal sito elpais


Ricci......una passione per i libri

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Il tema, "libri di Matematica", del Carnevale della Matematica di questo mese, il #106, ospitato da Rudi Mathematici, mi ha ricordato dapprima un testo amato e odiato, quello di Analisi Matematica I del grande "Maestro" Giovanni Ricci, poi la sua grande passione per i libri.
Il testo, in due libri (parte prima e parte seconda) è legato al bel periodo dell'università ma anche a momenti di sconforto, dovuti all'incapacità o alla poca volontà di applicarmi a uno studio serio e, a volte, difficoltoso. 
Difficoltà che, per me, nasceva anche dal fatto, piuttosto originale e bizzarro, che il testo del libro era stato stampato direttamente copiato dagli appunti scritti a mano con la stessa calligrafia, rotonda e regolare, con cui Ricci, servendosi di una matita a cera bordeaux, copriva di appunti la lavagna luminosa della mitica aula A a piano terra.


Testo di Analisi I (parte seconda) di Giovanni Ricci
Il testo era tratto e copiato direttamente dagli appunti scritti "a mano" dal Maestro

Uno di questi momenti, in cui forse l'odio ha davvero prevalso, è stato il mio approccio con il teorema sulla copertura di un insieme di Heine-Pincherle-Borel-Lebesgue, che mi costò il primo tentativo di passare l'esame orale di Analisi Matematica I, con il mitico "Maestro" Giovanni Ricci (come si nota dall'immagine avevo evidenziato in rosso "no dimostrazione".....che invece ovviamente Ricci pretendeva!). 
Grande Matematico e grande Maestro, Giovanni Ricci ero noto a noi studenti anche per il suo modo di agire bizzarro: concedeva magari un 18 ma pretendeva il lancio del libretto nella fontana del  Dipartimento di Matematica (quello di via Saldini 50 a Milano) o fissava in aula timide matricole tuonando con la sua voce bassa, cavernosa e un po' impostata (vezzo di famiglia, essendo fratello dell'allora noto attore e regista teatrale Renzo Ricci):
"se non capite queste cose, che capirebbe anche il bigliettaio dell'autòbus (lo accentava sulla o), cambiate...... cambiate subito!"
A me disse "sa che lei è proprio carina? gradirei rivederla alla prossima sessione!", e, alla sessione successiva (fortunatamente mi tenne buono lo scritto) si ricordò di richiedermi proprio il famigerato teorema che però sapevo alla perfezione perché, forse anche grazie a lui e al suo rigore, il mio odio si era ritrasformato in amore.


I due volumi di Analisi I di Giovanni Ricci, decisamente logori perché sempre consultati

Un grande "Maestro" a cui deve sicuramente molto lo stesso Enrico Bombieri, l'unico matematico italiano a vincere la medaglia Fields, nel 1974.
Enrico Bombieri infatti entrò in contatto a Milano con il professor Giovanni Ricci che, dopo un incontro a casa, poi lo invitò a una corrispondenza scientifica da cui nacque, nel 1957, il primo lavoro di Bombieri, a soli 17 anni, sulle equazioni diofantee (equazioni in una o più variabili con coefficienti interi di cui si ricercano le soluzioni intere).
Tra gli aneddoti si ricorda che Ricci soleva dirgli: "se non impari l’analisi complessa sarai sempre un dilettante"!
Lo accolse quindi in università, consigliandolo, incoraggiandolo e fornendogli libero accesso alla biblioteca di Matematica (ora a lui dedicata) affidandogli addirittura le chiavi, lui gelosissimo dei suoi libri e della sua biblioteca, per permettergli di scorazzare indisturbato, perché come ribadiva sempre "fondamentale è leggere ed aggiornarsi".
Bombieri si laureerà quindi all'Università degli Studi di Milano con una tesi della quale fu relatore Giovanni Ricci, che lo manderà poi a Cambridge a incontrare Harold Davenport e a Parigi da Jean Pierre Serre, che insieme ad Aldo Andreotti e soprattutto all'"eccezionale e generosissimoEnnio de Giorgi, saranno i suoi "méntori".


Dipartimento di Matematica Federigo Enriques, di via Saldini 50 - Milano

Non voglio ricordare Giovanni Ricciper i meriti accademici o le capacità di insegnante e divulgatore (qui commemorazione di Giovanni Sansone), ma per la sua grande passione per i libri.
La Biblioteca del Dipartimento di Matematica di via Saldini 50 a Milano può essere infatti considerata il fiore all'occhiello di Giovanni Ricci.
Ma vediamo perché.
Il primo nucleo dell'attuale Biblioteca risale al 1924 (la prima acquisizione è datata 8 dicembre 1924) la cui sede era presso il Gabinetto di Matematica del Regio Politecnico. 
Il 31 dicembre 1934 la Biblioteca, costituita da 697 volumi, venne trasferita presso l’Istituto di Matematica della Regia Università nella attuale sede di via Saldini 50. 
Il 15 dicembre 1936, il prof. Giovanni Ricci venne chiamato da Pisa a Milano per ricoprire la Cattedra di Analisi Matematica nell'Università degli Studi, e qui trovò la Biblioteca molto misera, con pochi testi e pochi aggiornamenti. Ben diversa  dalla prestigiosa Biblioteca matematica della Scuola Normale Superiore di Pisa, di cui Giovanni Ricci, fine bibliofilo e grande amante di libri antichi e moderni, ne aveva avuto fino allora personalmente cura.
Questo era dovuto anche al fatto che, a differenza della tradizione matematica della Normale di Pisa, che nasce nel 1810, i corsi di laurea in Matematica a Milano erano molto più recenti, istituiti ufficialmente solo nel 1927 e con ridotto numero di docenti di ruolo. 
Fu così che subito Giovanni iniziò ad occuparsi della costituzione, presso l'Istituto Matematico dell'Università, di una Biblioteca matematica che fosse ricca ed efficiente. 
Un compito non facile e laborioso ma a cui egli vi si dedicò con entusiasmo, abnegazione ed impegno assiduo per tanti anni. 
Giovanni Ricci si preoccupò di acquistare libri nuovi e antichi, conoscendo e ricercando rivendite opportune ed antiquari da cui acquisì opere matematiche del ‘700 e dell’800, nonché riviste matematiche cercando anche di procurarsi man mano, se possibile, gli arretrati non posseduti. 
Interessato ai libri ma nello stesso tempo oculato, cercò sempre di servirsi di librai efficienti ma il più possibile convenienti (per esempio era ritenuto con questi requisiti Sperling & Küpfer) ed utilizzò tutte le sue conoscenze per rilevare anche edizioni antiche e rare, che si trovano tuttora nella "Biblioteca Matematica Giovanni Ricci". 
Il patrimonio crebbe così progressivamente arrivando a 4390 volumi alla fine del 1939, grazie anche a cospicue donazioni di docenti dell'Università, del Politecnico e dell'Università di Pavia.


Una delle edizioni dei Gründlagen di Hilbert

Nel 1940, dallo scoppio della guerra, divenne ben presto difficile comprare libri, soprattutto all'estero, tranne che in Germania e Ricci cercò di approfittarne il più possibile. Egli la ritenne infatti una buona occasione ed anche attualmente si nota nella biblioteca la vastità di quella operazione, ricordando anche che la produzione matematica tedesca, in quel tempo in particolare, era di ottimo livello, come, per esempio, le varie edizioni dei Gründlagen di Hilbert.
Giovanni Ricci dedicava molto del suo tempo anche nel lavoro materiale della schedatura dei volumi e per tanti anni si videro in Biblioteca le schede scritte con bella calligrafia (quella stessa regolare e rotonda dei libri e delle lezioni di cui parlavo) dallo stesso Ricci. 
Inoltre nei lavori di schedatura e di ordine nella Biblioteca, non avendo alcun personale specifico, si avvalse, fino alla metà degli anni '40, dell'aiuto di assistenti incaricati e volontari di Analisi Matematica (Clelia Romanini, Maria Vittoria Anzoletti, Cesarina Tibiletti, ecc.). 
Con la guerra la Biblioteca veniva a trovarsi in serio pericolo, soprattutto quando a Milano incominciarono, dalla fine del '42, i bombardamenti aerei e quindi, nel '43, si ebbe l'occupazione tedesca. 
Molti sfollarono da Milano e Ricci pensò di far sfollare anche la biblioteca, tenuto conto anche del fatto che allora era locata al secondo piano dell'edificio di via Saldini 50. 
Decise quindi di trasportare i libri nella Scuola Elementare di Locate Triulzi, località abbastanza vicina a Milano, e così partirono molti libri, legati a gruppi con robusti spaghi. 


Locate Triulzi, località vicina a Milano

La scelta però si rivelò non molto opportuna dato che la scuola suddetta non era sicura perché si trovava proprio presso la ferrovia Milano-Pavia-Genova, linea che era colpita spesso dai bombardamenti alleati. 
Nel 1944 Ricci pensò quindi di far rientrare i libri a Milano, ma con la paura che potessero essere requisiti dai Tedeschi, che avevano una loro sede in piazza Leonardo da Vinci, si pose allora il problema di nascondere i libri stessi. 
Al secondo piano di via Saldini 50 si trovavano, oltre alla Biblioteca anche le aule per le lezioni di matematica e due di queste aule avevano dei robusti banchi di legno posti in ripida scalinata chiusa dai vari lati. 
Perché non nasconderli sotto una di queste? Vi si trovava infatti un ampio vano vuoto! 
I pacchi di libri provenienti da Locate Triulzi vennero quindi inseriti in uno dei suddetti vani ben rinchiuso e celato rispetto all'esterno. 
Giovanni Ricci, per tutto questo lavoro di trasporto e sistemazione dei libri, si avvalse anche del valido aiuto di Angelo Buscaglia, mitico bidello dell'Istituto Matematico, intelligente collaboratore non solo di Giovanni ma di tutti i docenti dell'Istituto stesso. 
Naturalmente in questo periodo la Biblioteca, quasi priva di libri, era pressoché inutilizzabile, tanto più che nella sala d'ingresso della Biblioteca stessa era stata sistemata una fumosa stufa a legna. 


Ingresso Dipartimento di Matematica Federigo Enriques

Tra i pochi giovani frequentatori di quella Biblioteca alcuni si scambiavano, invece di libri e ben di nascosto, fogli di stampa clandestina, antifascista e antitedesca. 
In tutto questo bailamme Giovanni Ricci, sempre entusiasta, pensava costantemente a progetti per lo sviluppo futuro sia della Biblioteca che della Matematica a Milano e quando suonava la sirena nemmeno se ne accorgeva.
Quando suonava la sirena, che avvisava dell'avvistamento di aerei da bombardamento, occorreva scendere nel rifugio antiaereo (sistemato nell'interrato di via Saldini 50), ma Ricci, stando lassù al secondo piano, continuava a parlare dei suoi sogni agli interlocutori del momento, che forse, diversamente da lui, pensavano al pericolo effettivo ed immediato di una qualche bomba che troncasse tutto. 
Questo fino a quando Giovanni Ricci dovette raggiungere la famiglia a Firenze con un viaggio avventuroso che spesso ricorderà. 
Comunque andò bene sia a Ricci e sia alla Biblioteca e all'Istituto che non subirono alcun danno! 


Biblioteca del Dipartimento di Matematica intitolata a Giovanni Ricci

Subito dopo il 25 aprile 1945, ancora una volta con un viaggio non facile, Ricci tornò a Milano da Firenze, mentre arrivò da Torino anche Guido Ascoli, già professore di Analisi Matematica a Milano, che era stato estromesso dall'Università nel '38 per effetto delle leggi razziali e che era scampato alle persecuzioni naziste. 
E fu così che il sogno di Ricci incominciò a riprendere piede. Ricci ed Ascoli seduti insieme ad un tavolo in Biblioteca un giorno della primavera del '45, incominciarono a pensare al ripristino e all'ampiamento della Biblioteca, lavoro a cui Ricci si dedicò fino agli ultimi giorni, morirà nel settembre 1973.
Per più di trent'anni quindi, dal 1936 al 1973, Ricci fu illuminato direttore della Biblioteca e ne accrebbe ulteriormente la raccolta fino a 27.000 volumi, donando, alla sua morte, il patrimonio personale di circa 2.000 libri. 
Dal 2000, dopo una imponente ristrutturazione, la Biblioteca è stata a lui intitolata ed è diventata Biblioteca d’Area, dotata di autonomia finanziaria, di un proprio regolamento e in grado di offrire 45 ore settimanali di apertura a docenti e studenti, rendendo così possibile il sogno di Giovanni Ricci, che aveva sempre ribadito "fondamentale è leggere ed aggiornarsi"!


Giovanni Ricci

Fonti
Per alcune notizie relative alla Biblioteca di Matematica nel periodo 1940 - 45 mi sono avvalsa di un articolo scritto sul sito mat-unimi dalla docente di Algebra (negli anni della mia frequentazione) Cesarina Tibiletti Marchionna 



La statistica del "pollo" e i suoi inganni

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Come si legge sul sito ufficiale Mathematics and Statistics Awareness Month, il mese di aprile segna un momento importante per aumentare la comprensione e l'apprezzamento di "matematica e statistica", tema a cui è dedicato quest'anno.
La matematica e le statistiche sono infatti considerati importanti motori dell'innovazione nel nostro mondo tecnologico, in cui i nuovi sistemi e le nuove metodologie continuano a diventare sempre più complesse.
Ma il mese di aprile in USA oltre che alla matematica è dedicato anche alla poesia, National Poetry Month, e da qui prendo spunto per il mio post.

Proprio alla Statistica infatti è indirizzato un fine sonetto di Trilussa, alias Carlo Alberto Salustri (Trilussa è l'anagramma del suo cognome) intitolato proprio "La Statistica" (Roma, 26 ottobre 1861):



Anche se ai tempi di Trilussa mangiare pollo era considerata “una cosa da ricchi” mentre oggi la "statistica del pollo" potrebbe essere settimanle, non cambia certo il significato del fine ragionamento.
Un modo semplice, con stile e fine umorismo, ma chiaro e indiscutibile, per sottolineare come la statistica, con la sua più “proverbiale” osservazione a proposito della media non rispecchi la realtà.
Quella per cui se qualcuno mangia un pollo, e qualcun altro no, in media hanno mangiato mezzo pollo, senza contare che l’osservazione non è così ovvia come possa sembrare.

Tutto questo per introdurre un tema che mi sta molto a cuore proprio a proposito della statistica classica e delle sue "medie".
Siamo sicuri che oggi, con una più evoluta cultura della statistica, non si possa cadere in errore? 
La cosa non è così semplice o ovvia e i dati e le rilevazioni possono essere sia generati che interpretati in modi diversi, spesso portando a risultati intenzionalmente ingannevoli o sbadatamente deformanti.
Va tenuto infatti sempre presente (ma spesso sfugge all'attenzione) che la “media” è un dato poco significativo se non sappiamo a che cosa si riferisce, su quale base è calcolata, con quale criterio è definita. 
La media, comunque calcolata, rimane un concetto astratto e una delle poche certezze assolute della statistica è che ciò che è “medio” non esiste, perché ogni cosa si colloca necessariamente sopra o sotto il dato “medio”. 
E non è solo una questione di aritmetica e in ogni caso è importante diffidare di ogni concetto “standardizzato”, anche quando non è espresso in forma di media numerica.
E sempre più spesso accade che un dato statistico (come anche una notizia o un’opinione), arbitrariamente o incautamente pubblicata, sia ripresa acriticamente e abbia un’enorme diffusione senza che venga fatta alcuna verifica sull’attendibilità della sua origine. 
Talvolta una “bufala” può sopravvivere per millenni.
Disegno di Irving Geis da "How To Lie With Statistics" di Darrell Huff 
- New York, Norton - 1954

Anche se parrebbe esagerato affermare che la diffusione di una notizia possa essere inversamente proporzionale alla sua credibilità, sta di fatto, soprattutto ultimamente con la diffusione delle informazioni su internet, che molte cose considerate “vere” non hanno alcun fondamento se non il fatto che sono così diffuse da sembrarlo. 
E accade inevitabilmente con dati e statistiche come con ogni altro genere di informazioni.
Il problema non sta tanto nell’esistenza degli errori, che sono sempre possibili, quanto nella diffusa abitudine di accettare dati sballati e incoerenti come se fossero “certezze” indiscutibili e di ripeterli ad infinitum senza mai verificarne la credibilità.
E ciò purtroppo accade non solo per statistiche riguardanti sondaggi o previsioni meteo, ma anche per temi molto più delicati legati ad esempio all'informazione medica, alla prevenzione e alla cura di malattie.
Deformazioni consapevoli e stupidaggini involontarie le cui conseguenze sarebbero comiche se non fossero invece drammatiche e pericolose.

Le statistiche sono uno strumento di notevole utilità solo se usate bene!
Il problema non è la "statistica" e i procedimenti matematici da cui deriva, strumenti essenziali della ricerca scientifica, quanto l'uso, l'interpretazione o la deformazione dei dati che vengono rilevati e, molto importante come punto di partenza delle indagini stesse, la scelta del campione.
Scelta del campione che si rivela fondamentale volendo generalizzare dati rilevati su un numero finito di soggetti. E' facile capire che più basso o poco significativo è il nunero dei soggetti del campione più alta sarà la possibilità di errore o di manipolazione dei dati stessi nella valutazione generalizzata.

Non volendo addentrarmi nei metodi di rilevazioni statistiche ormai più comunemente adottati, vorrei invece sottolineare l'importanza di un approccio scientifico di personale specificatamente preparato, ma nello stesso tempo consapevole della non assoluta certezza nell'interpretazione dei dati stessi.
Insomma bisogna essere accorti, forse dubbiosi, ma mai certi!
Forse anche "ammirati", ma non fiduciosi, come Alice nel Paese delle Meraviglie?


Illustratione (1865), di John Tenniel, del romanzo di Lewis Carroll, "Alice nel Paese delle Meraviglie"
Alice, la Lepre Marzolina e il Cappellaio Matto 
Davanti alla casa, sotto un albero, c'era una tavola alla quale sedevano la Lepre Marzolina e il Cappellaio 
a prendere il tè; in mezzo a loro era seduto un Ghiro che dormiva profondamente e gli altri due lo usavano 
come cuscino per appoggiarvi il gomito, mentre facevano conversazione al di sopra della sua testa.

Charles Lutwidge Dodgson, che sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll scrisse le celebri quanto un po' ambigue e inquietanti favole di Alice, era oltre che un illustre fotografo britannico, anche un matematico e un logico, e questa è una sua osservazione in proposito:

"Se vuoi ispirare fiducia, dai molti dati statistici. Non importa che siano esatti, neppure che siano comprensibili. Basta che siano in quantità sufficiente".

Insomma una quantità sufficiente per trarre in inganno e questo mi ricorda anche un testo “piacevolmente sovversivo”, come lo definì l’Atlantic Monthly al tempo della sua prima pubblicazione, poi diventato il testo di riferimento per gli studi su come dati e statistiche possano essere intenzionalmente ingannevoli o involontariamente devianti.
Si tratta di un libro scritto da Darrell Huff (con le illustrazioni di Irving Geis) dal titolo originale "How to lie with statistics" (testo completo in inglese quiuscito in USA nel lontanissimo 1054, ma pubblicato in Italia, da Monti & Ambrosini Editori su licenza di Pollinger Ltd, solo nel 2007 (traduzione a cura di Giancarlo Livraghi e Riccardo Puglisi) con il titolo "Mentire con le Statistiche" e riproduce le illustrazioni originali di Irving Geis, alla cui simpatica immediatezza e ironia si deve certamente parte del successo del libro. 


Disegno di Irving Geis da "How To Lie With Statistics" di Darrell Huff 
- New York, Norton - 1954

Fu scritto, non da un matematico ma da un giornalista preparato, per tutte le persone che desiderassero capire meglio il significato di numeri, dati e deduzioni da cui siamo continuamente inondati e confusi, ma nel 2004, in occasione del cinquantesimo anniversario della prima edizione, il prestigioso Institute of Mathematical Statistics  dedicò al libro di Huff una sezione speciale della sua rivista. 
Un testo scientificamente preciso e sicuramente ancora molto attuale, di facile lettura, ironico e divertente, ma nello stesso tempo molto serio nella sostanza che cercava anche di porre fine all'apparente oggettività dei numeri e alla conseguente disinformazione selvaggia.
Ne ho riletto tempo fa l'edizione italiana e direi con molto interesse e piacere, anche perché arricchita da annotazioni e commenti, introduzioni e appendici dei traduttori che spiegano metodologie sviluppate nel frattempo, citando anche esempi italiani (o comunque “non americani”) tanto che alcuni di questi si percepiscono come davvero "illuminanti".
Illuminanti come una famosa osservazione di Platone

"Sappiamo bene che queste argomentazioni basate sulle probabilità sono imposture, e se non abbiamo molta cautela nel loro uso possono essere ingannevoli"

Certo bisogna fare una netta distinzione fra la matematica, che in questo caso coinvolge essenzialmente il calcolo delle probabilità, e il modo in cui si raccolgono, s'interpretano e si elaborano i dati. 
Anche se esistono metodi precisi per determinare il “margine di errore”, questo gioco forza non può mai essere zero, ed è proprio per  per questo si potrebbe definire la statistica la "scienza dell’inesattezza", in grado di dirci con precisione qual è il margine di errore in ogni dato. 
Perciò, come sosteneva Platone, nessuna statistica può essere “esatta”, anche se questa esigenza filosofica non deve togliere il merito alle statistiche di essere utili e, sempre nei limiti dell’inevitabile incertezza, credibili.
Come è auspicabile e nella sua stessa natura, ogni scienza ha il dovere di dubitare di se stessa e ogni teoria deve essere considerata valida fino al momento in cui nuovi sviluppi sperimentali o metodologici la possano mettere in discussione.


Disegno di Irving Geis da "How To Lie With Statistics" di Darrell Huff 
- New York, Norton - 1954


Comunque sta di fatto che le statistiche sono manipolabili e sempre in tutto il loro sviluppo, dall’impostazione iniziale (scelta del campione) fino alle interpretazioni conclusive (inferenze e generalizzazioni), anche se le deformazioni a volte non sono necessariamente intenzionali ma dovute a superficialità di valutazione o a errori di impostazione. 
Errori non “voluti”, ma che ugualmente risultano devianti, e che, diffusi come presunte certezze, hanno la pretesa di “dimostrare” tutto e il contrario di tutto.
Una frase famosa attribuita da Mark Twain a Benjamin Disraeli, I conte di Beaconsfield, politico e scrittore britannico nel periodo Vittoriano, ma mai riscontrata nei suoi lavori, riassume molto bene la valenza che possono avere alcune statistiche:

"There are three kinds of lies: lies, damned lies, and statistics" 
("Ci sono tre specie di bugie: le bugie, le sfacciate bugie, e le statistiche")

Non sempre si tratta di “bugie” e una statistica può essere “falsa” non per distorsione intenzionale, ma per un errore di metodo o di interpretazione. 
Anche quando la significatività, da un punto di vista matematico, è seria (anche se spesso non lo è) ci possono essere molti fattori che rendono discutibile il risultato. Basta una piccola differenza nel modo in cui si pone una domanda o come si raccolgono e si interpretano i dati, per poter appunto “dimostrare” tutto e il contrario di tutto. 



Da un'illustrazione della Bibbia di Gustave Doré

Eppure inizialmente la statistica aveva scopi assolutamente nobili e la parola statistica deriva dalla parola "Stato" ed è una scienza nata proprio per poter governare bene uno stato. 
Infatti, la necessità di effettuare rilevazioni statistiche fu avvertita quando gli antichi popoli cominciarono a darsi una organizzazione sociale, una struttura economica, un ordinamento militare. 
Uno tra i più antichi rilevamenti di dati di cui si abbia notizia, è quello svolto da Mosè nel deserto del Sinai, durante il ritorno in Israele del popolo ebraico.²
Fu Dio a chiedere a Mosè di contare tutti i maschi delle 12 tribù di Israele che avevano un'età superiore ai 20 anni, per sapere quanti erano gli uomini sui quali si poteva contare per costruire l'esercito d'Israele e questo censimento è documentato nella Bibbia, proprio nel Libro dei Numeri.
E i numeri costituiscono le basi della statistica, anche se capire se abbiano un significato e cosa se ne possa dedurre è tutt’altro che facile. 
Insomma ci possiamo “fidare” delle statistiche solo se sappiamo che cosa sono e come funzionano e il problema non è tanto lo strumento matematico, ma l’uso che se ne fa.
Si può usare un coltello per tagliare frutta, verdura o salumi, ma anche per ferire o uccidere. 
La Statistica, al pari di un coltello, può essere quindi usata in vari modi. Seri e utili quando si tratta di individuare i problemi e i metodi per risolverli, o le risorse che è opportuno sostenere e valorizzare. Inutili o catastrofici e pericolosi quando viene utilizzata per sostenere teorie o demolire quelle non condivise, pro campagne elettorali o contro avversari e schieramenti politici.


"How To Lie With Statistics" di Darrell Huff  con i disegni di Irving Geis da 
- New York, Norton - 1954


E come affermava, in un'intervista nel marzo 2013 di Filomena Maggino, Giancarlo Livraghi, uno dei due traduttori del libro:

"L’inondazione di numeri con cui ci affliggono continuamente i mezzi di cosiddetta informazione, basata su statistiche mal capite o su dati del tutto immaginari, rischia di far annegare nel marasma anche quelle valutazioni che meriterebbero di essere seriamente approfondite......per quanto riguarda le statistiche, sarebbe importante diffondere come cultura di base la capacità di capirne il significato. Potrebbe bastare una estesa adozione del libro di Darrell Huff nelle scuole medio-superiori, e renderlo testo obbligatorio per la qualificazione al mestiere di giornalista".

Aggiungendo anche che purtroppo questo libro irriverente e divulgativo è apprezzata molto più dagli “addetti ai lavori” che dal pubblico cui sarebbe invece destinato: 

"Il pregiudizio, che sembra difficilmente superabile, è che la statistica sia un argomento comunque ostico, difficile, poco interessante per chi non è direttamente coinvolto. 
Superare questa barriera dovrebbe essere invece un impegno, consapevole e ostinato, da parte di tutto il sistema didattico e culturale, e uno strumento adatto allo scopo, sarebbe proprio il libro di Darrell Huff".

Un libro che rappresenta un antidoto sicuro nei confronti dell’uso spesso impreciso, talora sconsiderato, quasi sempre pericoloso, che della statistica fanno pubblicitari, giornalisti e politici a volte con il solo scopo di fare del sensazionalismo, a volte per promuovere interessi economici, politici o personali.
Gli stessi divulgatori spesso non hanno una percezione corretta dei numeri che stanno usando, ma non possono resistere, come l’autore ci mostra, dall’impiegarli per gonfiare, sensazionalizzare e sovrasemplificare.
Darrel Huff non rivolge una critica alla scienza statistica in sé, la cui utilità e importanza non è messa in questione, ma alle sue distorsioni, talvolta inconsce, che ci conducono a dare un significato diverso da quello contenuto (oppure assente) nei dati presentati. 
E'quindi soprattutto un libro che educa alla comprensione della statistica ma che insegna anche ad essere scettici non solo sull'accettazione dei dati ma anche sull'interpretazione che noi stessi potremmo darne. 
In statistica bisogna essere scettici su tutto, anche sulla propria analisi perché 
"Non ci sono fatti, solo interpretazioni"(Friedrich Nietzsche) 

Concludo questo post aggiungendo alcune citazioni che riguardano la statistica e che sono state inserita nel libro "Mentire con le Statistiche" dagli stessi traduttori Giancarlo Livraghi e Riccardo Puglisi.


"Mentire con le statistiche" edizione italiana di "How to lie with statistics" 

Citazioni sulla Statistica

63 statistiche su 100 sono inventate. Compresa questa.
Scott Adams

Come altre tecniche occulte di divinazione, il metodo statistico ha un gergo deliberatamente inventato per rendere oscuri i suoi metodi ai non addetti.
G. O. Ashley

Siccome un bambino su sette è cinese, noi ci siamo fermati a sei.
Marie-Lyse Aston

Il meteorologo non sbaglia mai. Se c’è l’80 % di probabilità di pioggia, e non piove, vuol dire che siamo nel 20 %.
Saul Barron

Oggi, più che mai, le persone colte hanno il dovere di seminare dubbi, non di raccogliere certezze.
Norberto Bobbio

Il sondaggio è il gioco di parole delle cifre.
Albert Brie

Le previsioni sono estremamente difficili. Specialmente sul futuro.
Niels Bohr

Le statistiche dicono che uno su quattro soffre di qualche malattia mentale. Pensa ai tuoi tre migliori amici. Se stanno bene, vuol dire che sei tu.
Rita Mae Brown

Posso dimostrare di tutto con le statistiche – fuorché la verità.
George Canning

Se vuoi ispirare fiducia, dai molti dati statistici. Non importa che siano esatti, neppure che siano comprensibili. Basta che siano in quantità sufficiente.
Lewis Carroll (Charles Lutwidge Dodgson)

La radice della maggioranza degli illeciti statistici è l’abbandono ella neutralità matematica e l’introduzione di ipotesi di causalità che non hanno basi scientifiche. Ciò equivale a praticare scienza tramite prestidigitazione: la velocità delle statistiche è tale da ingannare la mente.
Bruce Charlton

State attenti, la statistica è sempre la terza forma di menzogna.
Jacques Chirac

Le sole statistiche di cui ci possiamo fidare sono quelle che noi abbiamo falsificato.
Winston Churchill

Ci sono tre generi di bugie: le bugie, le maledette bugie e le statistiche.
Attribuita a Benjamin Disraeli

Mentre una singola persona è un intrico incomprensibile, nell’aggregato diventa una certezza matematica. O così dicono le statistiche.
Arthur Conan Doyle

Lo statistico è uno che fa un calcolo giusto partendo da premesse dubbie per arrivare a un risultato sbagliato.
Jean Delacour

Se torturi i numeri abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa.
Gregg Easterbrook

Un’altra fra le ostinate bende sugli occhi è la nuova scienza della statistica.
Ralph Waldo Emerson

Quando le regole della matematica si riferiscono alla realtà non sono certe – e quando sono certe non si riferiscono alla realtà.
Albert Einstein

La statistica: l’unica scienza che permette a esperti diversi, usando gli stessi numeri, di trarne diverse conclusioni.
Evan Esar

Certo, certissimo, anzi probabile.
Ennio Flaiano

La statistica è la prima delle scienze inesatte.
Edmond de Goncourt

Tutte le statistiche del mondo non possono misurare il calore di un sorriso.
Chris Hart

Nella vita reale non c’è alcun uomo medio.
Aldous Huxley

I numeri precisi sono sempre falsi.
Samuel Johnson

Statistiche: la teoria matematica dell’ignoranza.
Morris Kline

La teoria delle probabilità in fondo non è altro che buon senso ridotto a calcolo.
Simon de Laplace

Nei tempi antichi non c’erano le statistiche, perciò era necessario ripiegare sulle menzogne.
Stephen Leacock

Oggi i giornali hanno pubblicato una nuova statistica. A quanto pare tre persone su quattro sono il 75 % della popolazione.
David Letterman

Non possiamo nutrire gli affamati con le statistiche.
David Lloyd George

Le statistiche sono come i bikini. Ciò che rivelano è suggestivo, ma ciò che nascondono è più importante.
Aaron Levenstein

L’esattezza non è la verità.
Henry Matisse

L’umano medio ha una mammella e un testicolo.
Des McHale

Non ci sono fatti, solo interpretazioni.
Friedrich Nietzsche

I fatti sono ostinati, ma le statistiche sono più flessibili.
Laurence Peter

Credo che il calcolo delle probabilità sia l’unica branca della matematica in cui buoni autori ottengono spesso risultati completamente sbagliati.
Charles Pierce

Sappiamo bene che queste argomentazioni basate sulle probabilità sono imposture, e se non abbiamo molta cautela nel loro uso possono essere ingannevoli.
Platone

In ogni statistica, l’inesattezza dei numeri è compensata dalla precisione dei decimali.
Alfred Sauvy

La morte di una persona è una tragedia, la morte di milioni è una statistica.
Josif Stalin

Le statistiche sono come un lampione. Le possianmo usare per fare luce, ma non come l’ubriaco, che ci si appoggia.
Mark Twain

Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola.
Voltaire

Non fidatevi di ciò che le statistiche dicono prima di avere attentamente considerato ciò che non dicono.
William Watt

Satana si diletta con le statistiche quanto con citazioni delle sacre scritture.
Herbert George Wells

È meglio essere sempre un po’ improbabili.
Oscar Wilde

Senza deviazione dalla norma il progresso non è possibile.
Frank Zappa



Note

¹Alice nel paese delle meraviglie, pubblicato nel 1865, era nato nel 1862 come manoscritto illustrato da Dodgson stesso per una delle sue giovanissime amiche, Alice Liddell, figlia del decano di Christ Church.
La successiva pubblicazione del 1865 fu illustrata dalle incisioni di John Tenniel, il più famoso disegnatore vittoriano, che potè consultare l'autore sul modo di interpretare le sue creature fantastiche.
²Origini della Statistica "Storia della Statistica - I momenti decisivi" di Maria Pia Perelli D’Argenzio 



Con la macchina del tempo alla scoperta della protomatematica

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Gli ultimi esperimenti condotti con successo, all’Università di Napoli, da un gruppo internazionale di giovani fisici teorici (un greco, un iraniano, uno slovacco e un giapponese) coordinato da Salvatore Capozziello, docente di Astronomia e astrofisica nell’ateneo campano, dimostrano che potrebbe anche realizzarsi un viaggio nel tempo. 
Più precisamente si tratterebbe di un passaggio da un punto all’altro dello spaziotempo, o da un universo a un altro universo, proprio come ipotizzato da Albert Einstein e dal suo allievo Nathan Rosen negli anni Trenta con la teoria dei wormhole, letteralmente buco di verme.



Niente Stargate per il momento mah.....chissà se con la Macchina del Tempo, viaggiando a ritroso, potrei finalmente scoprire le origini della Matematica?
E' evidente che, a differenza di altre invenzioni, la scoperta della Matematica non può essere attribuita ad una persona, ma può essere considerata solo come un lento sviluppo avvenuto con l'aiuto di migliaia di persone.

Le origini dell'uso dei numeri da parte dell'umanità naturalmente non sono documentate e nessuno le può sapere con certezza, ma possiamo usare la nostra immaginazione unita ai reperti per pensare a come la matematica abbia potuto aver inizio. 
Ma come è iniziato questo processo e quali reperti preistorici ci possono aiutare?


Perone di babbuino di Lebombo - 35.000 a.C.

Viaggiando indietro nel tempo, potrei incominciare a fermarmi a circa 35.000 anni a.C., quando l'essere umano aveva già intrapreso il processo che lo ha portato a diventare Homo Sapiens, ma non aveva ancora inventato né l’agricoltura né l’allevamento. 
Era abituato a vivere in gruppo, quindi aveva la necessità di ripartire il cibo. Proprio questa esigenza lo portò ad effettuare dei veri e proprio calcoli aritmetici, che fanno pensare all’esistenza di una protomatematica.
Così nelle montagne dello Swaziland, un piccolo Stato posto a nord-est del Sudafrica, troverei senz'altro un Homo Habilis intento a cacciare e quindi potrei chiedergli: "quanti animali hai ucciso?"
Potrebbe rispondermi 29 o meglio segnalarmi una per una le 29 tacche del suo perone di babbuino! 
Questo osso, rinvenuto in una caverna delle montagne Lebombo, al confine con lo Swaziland, (detto appunto osso di Lebombo) veniva infatti probabilmente usato come arma e presenta 29 tacche che si presuppone rappresentino le prede uccise da un cacciatore e costituisce la testimonianza più antica del senso del numero.


Osso di zampa di lupo di Vestonice - 30.000 a.C.

E se facessi una puntatina in Europa a 30.000 anni a.C.?
Troverei anche qui un Neanderthaldiano che mi risponderebbe 55, o meglio mi indicherebbe una per una le 55 tacche del suo osso di lupo. 
Nel 1937 fu infatti rinvenuto da Karl Absolon presso Vestonice, nella Repubblica Ceca, un osso di zampa di lupo di circa 18 cm e risalente appunto al 30.000 a.C. circa. 
In esso è possibile notare 55 tacche: una serie di 25 tacche raggruppate a 5 a 5, separate da due tacche da una seconda serie di altre 30 tacche. 
Anche in questo si potrebbe presupporre che sia stato utilizzato da un cacciatore per registrare il numero delle prede uccise.
Anche se si ritiene che inizialmente gli uomini primitivi sapessero distinguere soltanto tra uno, due e molti, capacità che si osserva nei bimbi nella primissima infanzia¹, la presenza di questi aggruppamenti a 5 a 5 farebbe pensare che l’uomo primitivo, utilizzasse le mani per contare, famigliarizzando così con i multipli di 5.
Insomma scoprirei un'idea di numero molto più antica dei progressi tecnologici, come l'uso dei metalli, che precede la nascita della civiltà e della scrittura, nel senso usuale del termine.
Osso di babbuino di Ishango - 20.000 a.C.

Se facessi un'incursione nel Paleolitico Superiore, circa 20.000 a.C., ad Ishango, nei pressi del Lago Edoardo, vicino al confine tra l’Uganda e lo Zaire, troverei non solo uomini Sapiens ma forse dei veri "matematici".
In questa tarda età della pietra, vicino alle rive del lago Edward, le tribù si dedicavano anche alla pesca.
Una vera civiltà che era capace di migliorare sistematicamente i propri strumenti di lavoro, come gli arpioni fatti di osso, che disponeva di mole e pietre di quarzo perfettamente tagliate, che aveva corde fatte di fibre vegetali. Tutti oggetti che ha lasciato sulle rive del lago in provvidenziali discariche, insieme alle ossa degli animali e gli scheletri dei pesci.
La popolazione che nel 20.000 a.C. abitava le rive del lago potrebbe essere stata tra le prime a utilizzare i numeri per contare, ma purtroppo questa società durò poche centinaia di anni perché fu distrutta da un’eruzione vulcanica. 
La prova di ciò la troverei in un un osso di babbuino, che prende proprio il nome di Osso di Ishango.
L’osso, che risale al Paleolitico Superiore (20.000 a.C. – 18.000 a.C.), è un perone di babbuino di colore scuro, con una scaglia di quarzo innestata ad un’estremità, probabilmente utilizzata per incidere o scrivere. 
L’osso presenta 168 tacche disposte in sedici gruppi di segni.
L’organizzazione delle tacche in tre raggruppamenti asimmetrici implica che la loro funzione era più pratica che decorativa, tanto da far supporre che la loro disposizione sia dovuta alla necessità di sviluppare un sistema numerico e potremmo quasi definirlo un 
"regolo calcolatore preistorico". 



La colonna centrale inizia con tre tacche (leggendo da destra verso sinistra) e subito dopo si trovano 6 tacche (il doppio). Lo stesso procedimento si nota per il numero 4, seguito dall’otto. Per poi invertire il sistema per il numero 10 che è seguito dal 5. Questi numeri, quindi, non possono essere puramente casuali, ma suggeriscono una qualche comprensione della moltiplicazione e divisione per 2. Pertanto l’osso può essere stato utilizzato come uno strumento di “calcolo” per semplici procedure matematiche.
Inoltre, i numeri di tacche su entrambi i lati della colonna centrale parrebbero indicare una maggiore capacita di “calcolo” dell’utilizzatore del manufatto. 
I numeri su entrambe le colonne di destra e sinistra sono tutti dispari (9, 11, 13, 17, 19 e 21). Quelli incisi nella colonna di sinistra sono tutti numeri primi compresi tra 10 e 20, mentre quelli sulla colonna di destra sono composti nella maniera 10 + 1, 10 – 1, 20 + 1 e 20 – 1. 
La somma dei numeri sulle righe dà 60 e 48, entrambi numeri divisibili per 12 e ritroviamo ancora i concetti di moltiplicazione e divisione.


Rinvenuto nel 1950 dal geologo belga Jean de Heinzelin de Braucourt durante una campagna di esplorazione in quello che fu il Congo Belga, viene oggi conservato a Bruxelles, in mostra permanente al 19° piano dell’Istituto Reale delle Scienze Naturali del Belgio.
Studi recenti di Alexander Marshack, che ha esaminato l’osso al microscopio, portano a ritenere che esso possa essere un calendario lunare di 6 mesi e Claudia Zaslavsky ha suggerito che questo fatto potrebbe indicare che il creatore dello strumento sia stata una 
donna; infatti potrebbe rappresentare il tracciamento delle fasi lunari in relazione al ciclo mestruale.

Osso di Ishango e la sua replica di 7 m. nella piazza Munt di Bruxelles

Questi reperti dimostrano comunque l'esistenza di una "corrispondenza biunivoca", che sta alla base del contare, in questo caso, una corrispondenza fra animali (o cos'altro) e tacche su ossa.
Naturalmente poco importa qual è lo strumento di questa corrispondenza e il nostro antenato avrebbe potuto usare per il suo scopo anche un mucchietto di sassi o di pietre.
Per l'Homo Sapiens o Sapiens Sapiens "conteggio" significa comunque "stabilire una corrispondenza biunivoca" fra oggetti o animali e tacche su ossa o bastoni, sassi, perline, conchiglie, nodi su cordicelle o altri².  
In questo modo sono stati "contati" animali, oggetti, giorni, mesi e così via, ma senza numero!


Jean de Heinzelin, il geologo belga autore degli scavi sulla riva congolese del lago Edward - 1950

Ma cosa significa contare senza il numero?   
Stiamo parlando del periodo di protomatematica cioè di una matematica in cui ancora manca il concetto astratto di numero, non ci sono le parole per indicare i singoli numeri, né tanto meno dei simboli, ma c'è già la pratica del mettere in corrispondenza biunivoca due insiemi.
In quella che si definisce protomatematica manca del tutto la padronanza di due aspetti basilari del numero: 
- il suo essere cardinale e/o ordinale, e cioè il suo rappresentare una "quantità" (quanti elementi ci sono in un insieme)
- il suo essere in una precisa posizione in una serie ordinata (in questa accezione, la "conoscenza" di un numero prevede la conoscenza di tutti i precedenti).
In realtà quello che si può supporre è che in effetti ben prima del concetto di numero, l'umanità abbia elaborato la "capacità di contare" per la necessità di effettuare un qualche tipo di conteggio con l'evolversi di attività umane più complesse, come l'allevamento di animali  (ad esempio con la necessità di verificare che un gregge portato al pascolo rientrasse al completo), o l'agricoltura (necessità di una forma di "calendario", conteggio delle "lune" ad esempio, per sapere quando è tempo di seminare o di eseguire altre operazioni agricole), oppure con l'inizio di una pur semplice economia di scambio, che prevedesse baratti di qualche tipo.   
Certo sono supposizioni su reperti, che però dimostrano quanto anche nella preistoria abbia avuto importanza la ricerca del "contare".
Contare sicuramente anche legato alla struttura anatomica del corpo, che ha giocato forse un ruolo determinante nel modo di contare degli uomini primitivi.


La tribù Pirahã in Amazzonia che possiede un linguaggio anumerico 
(audio/intervista a Dan Everett rettore alla Bentley University di Waltham, in Massachusetts)

Sicuramente la presenza delle 5 dita delle mani ha indirizzato l’uomo a contare sulle dita, anche se in realtà sembrerebbe che il contare sulle dita sia avvenuto in una fase successiva dello sviluppo del contare.
Infatti, prima di arrivare al numero 5, l’uomo preistorico doveva superare il limite dell’uno, due e molti.
Ne è prova il fatto che  ancora oggi esistono delle tribù in Africa, in Amazzonia e in Australia³ che distinguono tra uno, due e molti. 
Certamente non esisteva ancora il concetto astratto di numero.
Doveva ancora passare del tempo perché esso si liberasse dall’inventare un simbolo diverso per ogni numero nuovo a mano a mano che lo incontrava.
Cioè il passaggio da una mera corrispondenza biunivoca fra "oggetti da contare" e "oggetti simbolo", al momento in cui i simboli acquistano valori diversi.
Quello che si potrebbe definire il vero passaggio dalla Protomatematica alla Matematica.




Da questo viaggio nel tempo preistorico si può comunque capire come l’essere umano abbia attraversato diverse fasi fondamentali prima di pervenire a un vero e codificato sistema di numerazione. 
Si possono quindi individuarne tre importanti:
- in una prima fase si distingueva tra uno, due e molti
- in una seconda fase è stato superato il limite del tre e utilizzato il linguaggio corporale per contare
- in una terza fase l’uomo ha finalmente liberato il linguaggio numerico da quello corporale.
Lo sviluppo del linguaggio ha avuto una importanza essenziale per il sorgere del pensiero matematico astratto, anche se le parole che esprimono concetti numerici si vennero formando con relativa lentezza. 
Come abbiamo visto i segni numerici precedettero le parole che indicavano numeri, in quanto è senz'altro più facile praticare incisioni su un osso o un bastone che formulare una frase per indicare un numero. 
Quanto sia stata lenta la formazione di un linguaggio che esprimesse astrazioni quali il numero, si deduce anche dal fatto che le espressioni numeriche verbali primitive facevano sempre riferimento a specifiche raccolte concrete (due pesci, due bastoni) e che solo molto più tardi una espressione del genere verrà adottata convenzionalmente per indicare tutti gli insiemi di due oggetti.
Ne è prova anche il fatto che, ancora oggi, nel nostro linguaggio esistano termini diversi per indicare la stessa quantità numerica, per esempio vengono utilizzate le espressioni “un paio”, “una coppia”, “un duetto” per indicare il numero 2.
E anche in molte delle attuali misure di lunghezza si riscontra la tendenza del linguaggio a evolversi da forme concrete verso forme astratte, come ad esempio al "piede", al "pollice" o al "braccio".

Insomma nel mio viaggio tra il Paleolitico e il Neolitico ho scoperto che grazie proprio alle "scoperte" protomatematiche, l'amico preistorico ha potuto progredire e come la nascita di alcuni principi matematici abbia avuto origine dalla vita quotidiana. 
Principi che, come tali, sono stati scoperti o creati proprio da necessità.
Semplici scoperte di protomatematica che però restano gli inizi che porteranno alle basi della Matematica, passata da "necessaria" ad "astratta", generandone via via i settori più avanzati, come la geometria, il calcolo, l'algebra, la trigonometria, l'analisi.......!

Ma questa è un'altra storia!!!!! 


Note

¹ protomatematica nei bambini "L'Istinta Matematico"
²Tutti questi metodi sono stati osservati anche successivamente presso popolazioni e tribù in varie parti del mondo:  vedi articolo "Gli Incas e il loro strano calcolo matematico"
³ protomatematica nelle tribù Zulu e Pigmei in Africa, di Aranda e Kamilarai in Australia, ed in altre tribù isolate in Oceania od in Amazzonia
Ad esempio i Pirahã, una tribù di cacciatori-raccoglitori che vive lungo il fiume Maici, in Brasile, che è stata studiata a lungo da Dan Everett rettore alla Bentley University di Waltham, in Massachusetts, usano un linguaggio anumerico.
Il loro linguaggio presenta solo 3 termini per indicare in modo aspecifico e generico le quantità senza alcun vocabolo che indichi dei numeri: “Hòi” significa “piccola quantità o dimensione” o "uno circa uno", “Hoì” “abbastanza grande” o "due un po' più di uno", mentre “baàgiso” vuol dire "molto grande” o “molti".


Il caffè perfetto......matematico?

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Una interessante e affascinante visita guidata al museo MUMAC (Museo della Macchina del Caffè - Cimbali - Binasco MI), a cui è  seguito un concerto per piano e solisti dell' Accademia Teatro alla Scala e un delizioso rinfresco, è stata l'occasione che ha attirato la mia curiosità per il "mondo del caffè" fin'ora a me ignoto.


Il progetto architettonico del MUMAC è stato curato 
dall’architetto Paolo Balzanelli e dall’ingegnere Valerio Cometti

Ho scoperto così un mondo davvero affascinante e un'industria in Italia che è il fiore all'occhiello della produzione mondiale, con brands come appunto Cimbali, azienda nata nel 1912 e che dal 2005 è diventata Gruppo Cimbali, comprendendo anche il marchio Faema, ma anche Nuova Simonelli, azienda marchigiana attiva dal 1936 e che oggi comprende anche il marchio Victoria Arduino, La Marzoccoazienda toscana fondata nel 1927 da Giuseppe e Bruno Bambi, o più recenti come la Sanremo, azienda veneta nata nel 1997 e la Dalla Corte di Baranzate (Milano) fondata nel 2001, o Rancilio, azienda di Villastanza di Parabiago (Milano)........e tante altre.
Colossi tutti tricolori, queste grandi aziende produttrici, che hanno come fattore comune, un'elevata percentuale di vendite all'estero, soprattutto in paesi come la Corea del Sud¹, che è il paese che più di tutti si sta interessando al mondo dell'"espresso" e dove dal 9 al 12 novembre si terrà il World Barista Championship 2017², ma anche Shangai e Hong Kong, Thailandia e Australia sono fra i maggiori acquirenti, senza dimenticare il mercato statunitense.


La Pavoni - 1905  Nel 1901, Luigi Bezzera, artefice di alcuni perfezionamenti tecnici, ottiene il brevetto della sua
 macchina per caffè espresso, presentata al pubblico in occasione dell'Expo di Milano del 1906. Inizia così la
 produzione e commercializzazione sistematica di questi apparecchi, avviando una produzione seriale.

Insomma un'esportazione d'eccellenza grazie anche alle continue ricerche e innovazioni per raggiungere la "perfezione" nella tazzina.
Perfezione che dipende ovviamente dal funzionamento della macchina per l'espresso!!! 
Funzionamento di cui è difficile fornire una spiegazione valida per tutte, perché ogni azienda dispone di diversi modelli con funzionalità e sistemi differenti.
Senza contare che ogni estrazione varia a seconda della materia prima, della qualità e freschezza del chicco, anche se, tradizionalmente, la bevanda viene erogata a 9 bar di pressione. 
Sono tante però le varianti disponibili sul mercato per il controllo della temperatura e aumentano le tecnologie per consentire al barista di verificare tutte le fasi di estrazione e modificare la temperatura a seconda del caffè utilizzato. 
Perché la temperatura dell'acqua è uno dei parametri fondamentali per un buon espresso, solitamente compresa tra 91 e 95°C secondo la composizione e il grado di tostatura del caffè, miscela o singola origine. 


Cimbali M100i, una macchina tradizionale dotata di un innovativo sistema integrato 
macchina – macinadosatore  

Dal tour guidato al MUMAC sono così venuta a conoscenza del lavoro di ricerca attento e scrupoloso da parte del Gruppo Cimbali, che ha recentemente lanciato sul mercato la M100i, una macchina tradizionale dotata di un innovativo sistema integrato macchina – macinadosatore in grado di guidare il barista nella preparazione del caffè passo dopo passo. 
Il macchinario ha inoltre un nuovo sistema automatico per la preparazione e l’erogazione del latte montato caldo e freddo. Una tecnologia innovativa, questa introdotta da Cimbali, che si propone di facilitare il lavoro del barista. 
C'è poi la Faema E71, con cui è possibile lavorare con temperature differenti su ciascun gruppo: grazie all’inedito circuito idraulico con sistema di controllo dell’infusione GTi, si garantisce la massima stabilità termica durante l’estrazione.  Faema E71 offre inoltre al barista la possibilità di lavorare sia con leva manuale sia con le selezioni su schermo touchscreen, un doppio sistema di interazione barista - macchina che rappresenta una novità assoluta nel mondo delle macchine tradizionali.


Macchina a Leva La Pavoni modello "Diamante" 1956
Designed by Bruno Munari and Enzo Mari

Fino a qualche decennio fa, le macchine per espresso erano ben diverse da quelle di oggi. 
La maggior parte dei macchinari era a leva, tipologia ancora diffusa in tanti bar napoletani tradizionali e che lavora a temperature più elevate. In queste macchine l'infusione avviene nel momento in cui si abbassa la leva e l'acqua bagna il caffè a una temperatura ben sopra i 95/96°C (livello massimo a cui può essere estratto l'espresso) ed è pressoché impossibile garantire un prodotto costante: la leva infatti verrà abbassata da ogni barista in maniera diversa ogni volta e la pre-infusione  e la seguente estrazione, proprio perché frutto di un lavoro manuale, sarà sempre differente. 
I due parametri fondamentali (temperatura e pressione) non possono così essere sotto il controllo attento dei baristi.


Modello per il centenario Cimbali 1912 - 2012

Preparare un buon caffè insomma non è per niente semplice e infinite sono le diverse ricette esistenti, che esprimono sia i gusti personali che le differenti tradizioni nei vari Paesi.
Il caffè è una delle bevande più consumate al mondo, e in ciascuna delle varie zone del pianeta è diffuso un metodo proprio di preparazione: dalla classica “tazzina” mediterranea (con, al top, l’espresso italiano), alla bevanda molto più allungata tipica del mondo anglosassone. 
Di sicuro c’è però il fatto che i differenti metodi di preparazione del caffè hanno tutti in comune la tecnica di estrazione. 
In ogni caso, infatti, si tratta di far passare acqua bollente attraverso una porzione di polvere di caffè ottenuta dai semi (i “chicchi” della pianta) tostati e macinati.
A questo punto mi è sorta spontanea una domanda: 

"Ma con tanta varietà si potrà mai raggiungere davvero una perfezione? Sarà possibile introdurre un algoritmo matematico in grado di verificare tutte le variabili e trovare la soluzione migliore? Dato che esistono più di 1.800 molecole diverse che conferiscono struttura, profumo e sapore al caffè, sarà possibile costruire una formula che consenta di avere una tazza di caffè perfetta?"


(Credit: Kevin M. Moroney)

Una risposta è arrivata da un gruppo di ricercatori irlandesi (il team di ricerca formato da Kevin Moroney, William Lee, Johan Marra, S.B.G. O'Brien, F.Suijver dell’Università di Limerick e Portsmouth), che ha cercato di migliorare la comprensione dei numerosi parametri che influenzano il prodotto finale tenendo gli occhi puntati sul sistema di filtraggio del caffè, che come accennato sopra sembrerebbe essere il punto chiave della preparazione (con i due parametri fondamentali, temperatura e pressione).
Già da tempo ricercatori studiano la matematica che si nasconde dietro la preparazione di un buon caffè, ma ora, in questo studio apparso su SIAM Journal on Applied Mathematics , viene descritto un nuovo modello (vedi Asymptotic Analysis of the Dominant Mechanisms in the Coffee Extraction Process .pdf che sembra svelare un metodo ideale di preparazione.
Questo modello, che prende in considerazione precise correlazioni tra i parametri fisici della preparazione, delle materie prime e la qualità del prodotto finale (che contiene ben 1800 diversi composti chimici), tiene conto principalmente del passaggio dell’acqua calda su un letto di chicchi di caffè contenuto in un filtro, della forza di gravità che spinge l’acqua attraverso di questo e del caffè solubile che viene estratto dai grani durante il passaggio dell’acqua. 


(Credit: Kevin M. Moroney)

Come si diceva non è la prima volta che degli studiosi di matematica si applicano al problema dell’estrazione del caffè, ma finora tutti avevano dedicato poca attenzione al sistema di filtraggio.
I modelli di estrazione del caffè che si trovano nella letteratura scientifica - spiega Kevin M. Moroney, primo firmatario dell’ articolo - non sono basati su specifici meccanismi, validati sperimentalmente. Il nostro modello invece, descrive il flusso dell’acqua e il processo di estrazione in una dose di caffè macinato in funzione delle proprietà dei chicchi, ed è controllato sperimentalmente”.
Di sorprendente abbiamo notato che in questo passaggio in realtà esistono due processi con cui il caffè viene estratto dai chicchi”, prosegue William Lee, uno degli autori dello studio. “Nel primo, che avviene piuttosto velocemente, il caffè viene estratto dalla superficie del chicco, mentre nel secondo, progressivamente più lento, il caffè fuoriesce dall’interno del chicco stesso”.
Inoltre, come spesso si nota, i chicchi di caffè finemente macinati possono conferire un sapore troppo amaro mentre quelli poco macinati possono produrre un caffè troppo acquoso. Un’eccessiva macinazione, infatti, da una parte aumenta la superficie del chicco che viene a contatto con l’acqua, e dall’altra riduce gli spazi tra un chicco e l’altro, rendendo più complicato il passaggio del liquido. Questo passerà quindi più tempo a contatto con il caffè, aumentandone l’estrazione nel prodotto finale che di conseguenza risulterà più amaro.

(Credit: Kevin M. Moroney)

Già in un precedente articolo (pubblicato nel 2015 su “Chemical Engineering Science”) il team di ricercatori irlandesi aveva presentato il modello nelle sue linee generali. 
Là venivano considerati parametri quali la portata del flusso d’acqua, la dimensione dei grani e la pressione, ipotizzando che la temperatura rimanesse costante in tutto il processo (in un intervallo tra i 91 e i 94 gradi Celsius) e che l’acqua saturasse tutti i pori presenti sulla superficie dei chicchi di caffè.
Ma ora, Moroney e i suoi colleghi si sono spinti oltre. 
Il lavoro che abbiamo presentato l’anno scorso - ha aggiunto William T. Lee, coautore dell’articolo - era matematicamente completo, ma era uno di quei modelli che possono piacere solo a un computer: un complicato sistema di equazioni differenziali che possono essere risolte solo per via numerica. Ora abbiamo prodotto un sistema ridotto di equazioni per cui è possibile trovare soluzioni approssimate”. 
Il nuovo modello di Lee e colleghi ha cercato quindi come prima cosa di semplificare i complicati processi fisici alla base della preparazione del caffè, costruendo un sistema di equazioni in grado di catturarne le caratteristiche principali. In seguito si sono occupati di relazionare le performance del sistema di preparazione con le proprietà del caffè, dell’acqua e della macchina usata, con lo scopo finale di riuscire a predire la qualità del caffè ottenuto.
Questo modello, infatti, considera anche le diverse fasi del filtraggio dell’acqua: lo stadio iniziale, in cui il chicco di caffè è ancora integro; il passaggio dell’acqua bollente, che determina una rapida estrazione delle sostanze dalla superficie del chicco, tra cui la caffeina; la fase successiva, in cui gli strati esterni del chicco sono ormai esauriti e il processo di estrazione è dominato dalla lenta diffusione delle sostanze presenti nella parte 
più interna, che era inizialmente trascurabile. 
Insomma, un’analisi complessa e articolata.
Il valore delle soluzioni trovate - conclude Moroney - è nella possibilità di correlare le prestazioni del sistema di percolamento con le proprietà del caffè, dell’acqua e dell’apparecchiatura usata. Queste soluzioni dovrebbero permettere di prevedere la qualità del caffè in base alle specifiche configurazioni usate”.


(Credit: Kevin M. Moroney)

In sostanza, quello di cui si è occupato il team di ricerca dell’Università di Limerick e Portsmouth, è stata la comprensione dei numerosi parametri che influenzano il prodotto finale tenendo gli occhi puntati sul sistema di filtraggio del caffè, che sembra essere appunto il punto chiave della preparazione.
Circa 10 degli oltre 18 milioni di macchine da caffè vendute ogni anno in Europa, infatti, funzionano facendo passare dell’acqua calda su un letto di chicchi di caffè contenuto in un filtro.
La gravità spinge l’acqua attraverso di questo e del caffè solubile viene estratto dai grani durante il passaggio dell’acqua.
Di sorprendente abbiamo notato che in questo passaggio in realtà esistono due processi con cui il caffè viene estratto dai chicchi”- racconta William Lee -“Nel primo, che avviene piuttosto velocemente, il caffè viene estratto dalla superficie del chicco, mentre nel secondo, progressivamente più lento, il caffè fuoriesce dall’interno del chicco stesso”.
Come detto un’eccessiva macinazione da una parte aumenta la superficie del chicco che viene a contatto con l’acqua, e dall’altra riduce gli spazi tra un chicco e l’altro, rendendo più complicato il passaggio del liquido. 
“Quello che abbiamo fatto nel nostro lavoro"prosegue Lee "è raccogliere tutte queste osservazioni e renderle delle informazioni di tipo quantitativo, in modo da sviluppare un modello matematico completo che sarà utile a costruire le macchine da caffè del futuro, così come la fluidodinamica è utile a costruire le macchine da corsa”.


(Credit: Kevin M. Moroney)

Un altro fattore sembra influire sul sapore finale, vale a dire il cambiamento di posizione dei grani di caffè durante il passaggio dell’acqua e quindi la domanda che si pone Lee e ricercatori è questa:
Sarà meglio usare un unico getto di acqua indirizzato verso il centro del filtro, o una pioggia diffusa che raggiunga tutta la superficie?” si interroga Lee, rendendo quella del caffè perfetto un’idea scientificamente ineccepibile ma forse ancora un po' lontana.
Per il momento credo che per preparare un buon caffè sia ancora il caso di fidarci delle sane tradizioni di casa nostra .





Note

¹ In Corea la cultura del caffè nasce intorno al 1910 e si deve all’Imperatore Sunjong, il secondo e ultimo imperatore della Corea (1907-1910). Storia del caffè in Corea
² Francesco Masciullo porterà i colori dell’Italia alla competizione più attesa al mondo, il World Barista Championship di Seoul.
Il WBC, una vera e propria “Olimpiade del Barista” si terrà a Seoul dal 9 al 12 novembre 2017. On line l’incredibile performance del miglior barista italiano 2017, vincitore del Campionato Italiano Baristi 2017

Fonti

From website
https://sinews.siam.org/Details-Page/the-mathematics-of-coffee-extraction-searching-for-the-ideal-brew 
https://phys.org/news/2016-11-mathematics-coffee-ideal-brew.html
https://phys.org/news/2016-06-chill-coffee-beans-flavorsome-brew.html


E come Euro.....E come Eisenmenger?

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L'€-sign, alla sua presentazione nel 1997, era stato descritto come "una combinazione dell'epsilon greco, segno del peso della civiltà europea, una E per l'Europa e le linee parallele che attraversano il simbolo, come segno della stabilità dell'euro".
Un disegno da cui possiamo ricavare molti spunti geometrici legati non solo al cerchio o alle parallele ma anche alle proporzioni tipiche del rapporto aureo.


Questo diagramma illustra la costruzione del simbolo dell'euro, basato sulla documentazione ufficiale.
ADF e BCDE si intersecano in D. BCDE, GH e IJ sono parallele. BCDE interseca in C la verticale passante per A.

Era il 23 dicembre 2001 e mancavano solo 9 giorni alla grande revisione monetaria in cui il simbolo dell'Euro sarebbe diventato omnipresente come il simbolo del Dollaro o quello della Coca-Cola.
Ma l'uomo che aveva ideato l'€-sign trascorreva i suoi ultimi anni di vita dimenticato e trascurato dai burocrati di Bruxelles, su una sedia a rotelle nella casa di riposo, Santa Elisabetta, a Eislingen nella Germania meridionale, e non poteva nemmeno più nutrirsi autonomamente.
Si chiamava Arthur Eisenmenger (1914 – Eislingen/Fils, 19 febbraio 2002) , allora 86enne, ed aveva ideato il simbolo dell'euro (presentato come un "nuovo" segno) più di un quarto di secolo prima. 
Fu infatti uno dei suoi ultimi incarichi, prima di ritirarsi da capo designer grafico per la Comunità Economica Europea (come si chiamava allora). 
Nel 1975, poco prima di andare in pensione, ricevette il compito di disegnare un simbolo non monetario ma per identificare l'Europa stessa. 
Dal suo ufficio in Lussemburgo, mandò così i suoi disegni alla Commissione Europea a Bruxelles che, dopo aver approvato la proposta, la lasciò però rinchiusa in un cassetto per vent'anni, fino a quando nel 1997 Jacques Santer presentò il simbolo alla stampa di tutto il mondo per la prima volta.
Quel giorno Eisenmenger stava guardando la televisione in diretta, mentre l'allora presidente della Commissione Europea, Jacques Santer, presentava al mondo una versione di cinque metri di altezza in plexiglass del simbolo dell'euro, su cui i governi dell'UE avevano concordato all'unanimità. 
In quel momento Eisenmenger balzò dalla sedia gridando alla moglie  "Mechthild, guarda, questo è il mio E, il mio E!!!"
A tutt'oggi però Arthur Eisenmenger non ha ricevuto alcun riconoscimento ufficiale per la creazione del simbolo dell'euro perché l'Unione europea non riconobbe a Eisenmenger la paternità dell'opera, che invece fu attribuita ad un team di designer rimasti anonimi.
Eisenmenger progettò l'€-sign come simbolo generico dell'Europa 25 anni prima dell'introduzione della nuova moneta e avrebbe detto in un'intervista : "Quando ho disegnato questo simbolo non pensavo all'euro, al momento, ma solo a qualcosa che simboleggiasse l'Europa.", aggiungendo, rivolto a Jean-Pierre Malivoir, l'uomo responsabile di euro PR, "Ho progettato e disegnato questo simbolo da solo e giuro che non c'era stata nessuna squadra".
Circostanza che all'epoca fu confermata da un suo collaboratore, Julien Bozzola, un illustratore francese che aveva lavorato con il tedesco per 13 anni, fino alla metà degli anni Settanta: "Sono assolutamente convinto che questo sia il suo disegno, che è stato inizialmente ispirato dal modo in cui firma il suo nome, con una E a giro doppio-arrotondato e mi dispiace solo che non gli sia stato riconosciuto."
E sua moglie, Mechthild, aveva allora commentato al The Observer: "Mio marito non vuole soldi, solo un 'grazie' sarebbe belloaggiungendo "Sono molto orgogliosa di lui, almeno è bello pensare che vedrò questo suo successo ogni volta che andrò a fare shopping."




Fra le sue creazioni artistiche si ricordano la Bandiera Europea e il Marchio CE, il simbolo europeo dei beni di consumo di controllo della qualità.
Purtroppo va ricordato che c'è un altro simbolo camuffato da marchio CE. 
Quello ideato da Arthur Eisenmenger significa “Conformità Europea” e l'altro, il "tarocco" copiato dalla Cina, significa "Cina Export" e, come si vede, i loghi sono molto simili.
Non c'è molta differenza, l'unica è che la E è più vicina alla C nel simbolo "Cina Export", mentre nella versione europea sono più distanti, ma entrambi utilizzano lo stesso tipo di carattere. 





Qui è riportato un esempio di entrambi i loghi.



Topi, tope e topette......a Venezia

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Chi mi conosce sa che adoro i "topastri" e che ne ho una collezione piuttosto ricca di esemplari in stoffa, gesso, legno, ceramica......di tutte le dimensioni.
Non dedicandomi a quelli veri, che comunque ritengo simpatici e carini (quelli di campagna e magari non quelli di fogna), mi incuriosisce tutto ciò che è legato anche a questo termine, topo o topa, che in italiano assume spesso significati molto diversi da quello che identifica il roditore.
Ma vogliamo vedere cosa significa topo, topa o topetta a Venezia?


Gondola a altri natanti a Venezia

Per me, e credo per la maggior parte di coloro che visitano frettolosamente Venezia, tutte le barche a remi che si vedono nei canali e in Laguna, sono gondole.
Naturalmente non è così e ho scoperto invece una moltitudine di modelli diversi in circolazione. 
Ogni barca, infatti, è stata gradatamente modificata nel corso dei secoli, in modo da adattarsi perfettamente al suo impiego, tanto da affermare che non esistano due barche uguali nella Laguna di Venezia.
Attualmente ci sono un centinaio di scafi diversi raggruppati in alcune grandi famiglie.
Tra loro certamente le quattro più famose sono il sandalo, la mascareta, la topa (derivata dal topo) e la  topetta.
Topi, tope e topette, eccoli quindi questi natanti dai nomi curiosi di cui vi parlerò!
Iniziamo dal topo.
Il topo (ormai quasi del tutto sostituito dal mototopo) è un'imbarcazione tipica della tradizione lagunare veneta.
Il topo veneziano elegante, slanciato, lungo e stretto, con la poppa rotonda, è principalmente usato come barca da trasporto merci.
E' un'imbarcazione lagunare e costiera a fondo piatto, lunga tra i 6 e i 14 metri che si distingue per fianco e poppa tonda con asta curva verticale e prua curva distesa in avanti.
Nella sua versione commerciale ha anche degli antenati a vela. 


Topo  veneziano

Il topo si adattava alla vela al terzo e veniva usato nelle zone meno calme della laguna di Venezia dove la vicinanza del mare ne rendeva la navigazione più difficoltosa per le barche a fondo piatto. 
Le dimensioni inferiori rispetto al burchio (altro tipo di natante) lo rendevano più agile di quest'ultimo e dunque più adatto a rispondere ad esigenze di manovrabilità anche se naturalmente riduceva le capacità di carico.
L'albero, posto a circa un terzo della lunghezza dello scafo a partire dalla poppa, evitava lo scarroccio di uno scafo a fondo piatto a bassissimo pescaggio e il timone, con una pala che affonda ben sotto lo scafo, funge da superficie di deriva.
Il materiale tradizionale per la costruzione dello scafo è il legno e la sua lavorazione richiede l'uso di forme e piegature a caldo. 
Il motore dei modelli da trasporto è collocato all'interno dell'imbarcazione in un apposito vano e ha potenze che possono arrivare a richiedere la patente nautica per la conduzione. 
L'odierna versione mototopo, molto conosciuta nella città lagunare, è l'equivalente del furgone da trasporto in terraferma, infatti a Venezia incontriamo le più note compagnie di trasporto, come ad esempio i corrieri espressi, che utilizzano questa imbarcazione per eseguire le consegne in città.
Oltre al topo veneziano ne esistono molte altre varianti tra cui il topo chioggiotto più tozzo, piuttosto largo, con la poppa tozza e rientrante, o quello istriano che, pur derivando da quello chioggiotto, è più addolcito nelle linee e infine quello buranello tipica versione dei cantieri di "Zio vecio" a Burano, dove le tecniche di lavorazione e l’uso dei materiali, venivano tramandati di padre in figlio senza soluzione di continuità, secondo parametri dettati da un’esperienza comune, patrimonio di una stirpe di pescatori, trasportatori e barcaioli in generale.


Topa in laguna

E dopo aver descritto il topo vediamo di parlare della topa.
A venezia il termine topa non ha il significato che s’usa nell’Italia centrale, e soprattutto in toscana. A venezia la topa è un tipo di barca tradizionale di legno o anche in (puà) plastica o meglio vetroresina. 
Per inciso ricordo che il doppiosenso nasce anche con un’altra barca, cioè la passera istriana.
Tornando alla topa vediamo che essa è molto simile al topo e la differenza è data dalla poppa a specchio quasi verticale.
Si tratta in realtà di una semplificazione del topo, nata nel novecento, soprattutto per il diporto a vela, con dimensioni più contenute, che vanno dai 6,50 ai 7,30 metri in lunghezza, con una larghezza variabile tra 1,70 e 1,90 metri.
Attualmente la topa, è una barca lagunare sulla quale si può agevolmente installare un motore fuoribordo.
La propulsione è versatile e l'imbarcazione può essere spinta sia a remi (con posizione di voga alla veneta da uno a quattro rematori) che a vela, con albero asportabile alloggiato nel tratto poppiero, timone-deriva a barra posizionato a poppa e vela al terzo. 
La forma a specchio della poppa si è in seguito dimostrata perfettamente adatta per l'installazione di motori fuoribordo, favorendo così il rapido passaggio a una propulsione completamente motorizzata.
Proprio grazie a questa sua versatilità, ha avuto un grande successo, tanto da essere fabbricata anche in serie, quindi non solo in legno ma anche in vetroresina.


Topetta a motore

Arriviamo infine alla topetta.
La topetta è anche lei un'imbarcazione a fondo piatto tipica della tradizione lagunare veneta che, grazie alle ridotte dimensioni e alla discreta capienza, è quotidianamente utilizzata con motore fuoribordo per uso diportistico (capienza consentita 6 persone) e per il trasporto di piccole quantità di merci. 
Come la topa è molto versatile, può essere armata con vela al terzo ma può essere anche spinta a remi e ha bande alte e prua ampia e affusolata.
Si tratta quindi di una variante di dimensioni più ridotte della topa che, come questa, ha un ampio specchio di poppa, largo poco meno della larghezza massima dell'intera imbarcazione e praticamente perpendicolare al piano di galleggiamento. 
Il materiale tradizionale per la costruzione dello scafo è il legno e la sua lavorazione richiede l'uso di forme e piegature a caldo ma recentemente, vista la versatilità e il successo di cui gode questo tipo di imbarcazione, i costruttori ricorrono sempre più spesso all'utilizzo della vetroresina.


Topo veneziano

Topo mestieretto

Topo istriano da pesca

Topa



Quindi topi, tope e topette non sono solo dei simpatici roditori, spesso anche protagonisti di altrettanti simpatici cartoni animati, ma, come abbiamo scoperto, anche imbarcazioni legate alla tradizione marinara veneziana che ha prodotto una tipologia di imbarcazioni vastissima. 



Schrödinger e la sua luminosa equazione

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In occasione del Compleanno di Erwin Schrödinger, nato a Vienna 130 anni fa il 12 agosto 1887 quale miglior omaggio se non rendere la sua famosa equazione ancor più "luminosa"?
Un'equazione che diventa una luminosa opera d'arte. 
Alcuni anni fa a Londra, per 14 giorni, un pannello luminoso mostrò come la fisica possa diventare arte.
L'idea nacque dalla collaborazione fra l'artista Geraldine Cox, dell'Imperial College di Londra e il fisico quantistico Terry Rudolph.


Video dell'opera dell'artista Geraldine Cox

Questa strana combinazione di simboli è infatti un'importante equazione della fisica, l'equazione di base della teoria quantistica.  
In meccanica quantistica è un’equazione fondamentale, che determina l’evoluzione temporale dello stato di un sistema, ad esempio di una particella, di un atomo o di una molecola. 
Formulata dal fisico austriaco Erwin Schrödinger nel 1927 si basa sul principio che le particelle che costituiscono la materia, come l’elettrone, hanno un comportamento ondulatorio.
Mentre i fisici si spremevano il cervello con il calcolo delle matrici per descrivere il comportamento degli elettroni o anche dei quanti di luce, i “fotoni”, intesi come particelle (la meccanica delle matrici di Heisenberg, che ebbe la sua prima formulazione nel 1925),  Schrödinger suggerì di trattarli come onde. 
Per farlo, bisognava trovare un’equazione che ne descrivesse matematicamente il comportamento. Anche nella fisica classica, quella newtoniana, il comportamento di un’onda è regolato da un’equazione differenziale. 
Fu proprio quella che Schrödinger trovò dopo un intensissimo sforzo mentale e creativo, nel corso di alcune settimane di pernottamento in una stazione sciistica svizzera dove si era rifugiato con una sua amante.
Almeno così si racconta vista la vita libertina condotta da Schrödinger , che scandalizzò spesso i suoi più puritani colleghi per gli atteggiamenti disinibiti nella sfera delle relazioni intime.
Che l'abbia ispirata una relazione amorosa o meno poco importa, resta il fatto che l’equazione di Schrödinger ha avuto un ruolo determinante nella storia della meccanica quantistica che è alla base del nucleare e dei semiconduttori.
Schrödinger partendo da un punto di vista diverso da quello di Heisenberg e affascinato dall'ipotesi di Louis de Broglie (formulata nel 1924 e che gli diede il Nobel nel 1929), cercò una equazione delle onde che potesse descrivere il comportamento di un elettrone, e, nel 1925 (lo stesso anno delle matrici di Heisenberg) la trovò.
Era quella che divenne poi universalmente nota come l’equazione di Schrödinger, l’inizio della cosiddetta "meccanica ondulatoria" e che gli valse nel 1933 il premio Nobel. 


Pannello luminoso dell'artista Geraldine Cox 

In questa espressione, scritta nel linguaggio universale della matematica, onde di materia e particelle di luce convivono nell'inaccessibile mondo dei quanti, inaccessibile eppure manipolabile.
Schrödinger  e alla sua equazione dobbiamo la grande scoperta che esiste un mondo dove le leggi della fisica classica non valgono più. Scoperta che ci ha permesso di creare cose precedentemente impensabili: il backbone internet in fibra ottica, il laser, le macchine a raggi X, microscopi elettronici, GPS e cellulari, elettronica a stato solido¹, reattori nucleari, computer e pannelli solari......insomma ha reso possibile la progettazione di gran parte del nostro mondo moderno.
¹ per elettronica dello stato solido si intende tutta l'elettronica basata su dispositivi a semiconduttore; quindi, praticamente tutta l'elettronica attuale con i vari diodi (a giunzione p-n, giunzione metallo-semiconduttore, LED, p-i-n, gunn, IMPACT, ...) transistor (BJT, JFET, MOSFET, IGBT, MESFET, HEMT, HBT).


Epitaffio sulla tomba di Erwin Schrödinger a Alpbach (Zillertal, Tirol, Austria)

In questo post, essenzialmente dedicato a ricordare il compleanno di un grande scienziato, non entrerò in approfondimenti sull'equazione e sui contributi di Schrödinger ma darò solo alcuni piccoli chiarimenti affinché anche i non addetti ai lavori possano avere un'idea di questi strani simboli, lasciando ovviamente alla loro curiosità un serio approfondimento.
Vediamo di analizzare questi simboli matematici che nell'insegna luminosa ricordano anche quelli apparsi, come epitaffio, sulla tomba del grande Erwin Schrödinger a Alpbach (Zillertal, Tirol, Austria) e che si differenziano un pochino da quelli usualmente considerati. 


Equazione di Erwin Schrödinger

La caratteristica più importante di questa equazione è la funzione d'onda Ψ (psi) che descrive (in probabilità) tutte le proprietà: l'energia, la posizione, la velocità e il momento (per citarne alcune) delle particelle microscopiche di materia o di luce. 

Il lato sinistro descrive come funziona l'onda e quindi queste quantità fisiche cambiano con il tempo e si legano all'energia del sistema nel lato destro che guida questo cambiamento. Quindi è un'equazione dinamica per sistemi infinitesimamente piccoli.  
In entrambe le due immagini della formula troviamo:
nella parte sinistra:
i è l'unità immaginaria (la radice quadrata di -1) 
h (con trattino detto h tagliato) rappresenta la costante di Planck divisa per 2π  
Ψ (psi puntato in alto) nella prima o ∂ / ∂t Ψ è la derivata parziale rispetto al tempo della funzione d'onda Ψ (psi) 
nella parte destra:
Ψ (psi) è la funzione d'onda del sistema
Ĥ o H è l'operatore Hamiltoniano, che rappresenta l'energia del sistema e dove l'operatore Hamiltoniano è la parte chiave che descrive il tipo di sistema che stiamo guardando.  



Il libro di John Gribbin, "Erwin Schrödinger - La vita, gli amori e la rivoluzione quantistica"

A conclusione di questi brevi cenni, per i più curiosi, consiglio un'accurata biografia dedicata alla personalità, non solo scientifica, di Erwin Schrödinger, inserita nel contesto dello sviluppo della meccanica quantistica nel XX secolo.
Un libro di John Gribbin, "Erwin Schrödinger - La vita, gli amori e la rivoluzione quantistica", in cui l’esposizione, pur non essendo per esperti di fisica delle particelle, non è banale. Un testo quasi senza formule, in cui però c’è un tentativo di far comprendere non solo le problematiche, senza ovviamente entrare in un linguaggio matematico complesso, ma anche in che cosa consistono le soluzioni.
Le scoperte della fisica di quei primi anni del XX secolo nel libro di John Gribbin si intrecciano con la vita dei fisici più conosciuti descrivendo un mondo particolarmente fecondo di idee. Un mondo nel quale Schrodinger aveva un posto molto importante in quanto nel 1926 aveva infine completato la seconda rivoluzione quantistica con la pubblicazione di una serie di articoli che spiegavano la teoria della meccanica ondulatoria.
Sullo sfondo, ma comunque molto importante nella vita di Schrodinger, si trovano i suoi amori, per la moglie Anny ma anche per la giovane amante Ithi, amori che in qualche modo sono stati sempre di stimolo alle sue scoperte.
Erwin Schrodinger morirà nel 1961 lasciando una enorme eredità al mondo anche in campi non direttamente collegati alla fisica, tra questi le sue considerazioni filosofiche e biologiche raccolte nel libro "Cos'è la vita" pubblicato nel 1944 dalla Cambridge University Press.





La matematica diventa magia......nel "Laberinto"

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"Solo nelle scienze matematiche, come dice Averroè, si identificano le cose note per noi e quelle note in modo assoluto. Le conoscenze matematiche sono proposizioni costruite dal nostro intelletto in modo da funzionare sempre come vere, o perché sono innate o perché la matematica è stata inventata prima delle altre scienze. E la biblioteca è stata costruita da una mente umana che pensava in modo matematico, perché senza matematica non fai labirinti." 
così Guglielmo da Baskerville, il protagonista de Il nome della Rosa, apostrofava il suo discepolo Adso. 

Un curioso libro del XVII secolo ci fa capire come usavano i numeri per leggere nel pensiero quattro secoli fa.
Siamo nel 1607 e Andrea Ghisi, nobile veneziano, pubblica un curioso libro intitolato "Il Laberinto del Signor Andrea Ghisi". 


60 xilografie dell'edizione del Laberinto del 1616 custodita nella Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia

E’ un libro che si presenta insolito e misterioso, praticamente senza testo (a parte l'introduzione e la dedica al principe di Mantova, Francesco Gonzaga (1586-1612), figlio primogenito di Vincenzo Gonzaga e Eleonora de Medici), costituito praticamente di sole immagini.
Per la precisione 2260 immagini, ordinate in 21 tavole contrassegnate dalle lettere dell’alfabeto.
In questa dedica il Ghisi descrive la sua opera come un esercizio dell’ozio, un'attività ricreativa come lo sport, senza alcuno scopo pratico, utile soltanto per recuperare le energie e dare ristoro al corpo e allo spirito"......"che aprendolo tre volte, con facilità si può saper qual figura si sia immaginata"
Nel 1610 l’editore londinese Thomas Purfoot lo dà alle stampe in traduzione inglese con il titolo "Wits Laberyhth or, the Exercise of Idlenesse".
Infine nel 1616 il libro viene ristampato presso la tipografia di Evangelista Deuchino a Venezia con il titolo "Laberinto dato novamente in luce dal Clarissimo Signor Andrea Ghisi, nobile veneto, nel quale si vede MCCLX figure, quali sono tutte pronte al servitio con la sua obbedienza, & corrispondenza, che parlano l’una all’altra et con la terza volta infallibilmente si saprà la figura immaginata". 
La nuova edizione riporta una diversa dedica, questa volta al doge Giovanni Bembo e il Ghisi dichiara che quelle figure “sono tutte pronte al servitio con la sua obedienza et corrispondenza, che parlano l’una all’altra ”.
Un'esemplare di questa seconda edizione è posseduto dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia ed è interessante per due ragioni. 
La prima è che data la sontuosa legatura, risulterebbe essere con ogni probabilità l’esemplare offerto proprio dall’autore al Doge Giovanni Bembo, al quale l’opera è dedicata. 
La seconda, e ciò che lo rende davvero particolare, è data dal fatto che conserva, incollato tra le prime pagine, un foglio di "Dichiaratione" che svela il segreto del labirinto e ne spiega il meccanismo.
Si noti che nel titolo delle prime due edizioni, 1607 e 1610, le 1260 immagini (esattamente riportate in quella del 1616) erroneamente erano riportate come 2260.
Le tre edizioni presentano immagini leggermente diverse, ma il principio alla base del gioco è il medesimo.


Edizione del 1616 custodita nella Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia

Poche parole e moltissime immagini, perché il suo scopo principale non è quello di raccontare una storia ma di leggere nel pensiero.
Il Laberinto è quindi una raccolta di 21 tavole, una per ciascuna lettera dell’alfabeto italiano, ognuna delle quali copre due pagine.
Ogni tavola presenta le stesse 60 immagini, mescolate in modi sempre diversi, suddivise in quattro riquadri di 15 figure ciascuno. 


Copia de "Il nobile e piacevole passatempo", presso la Biblioteca Queriniana di Brescia

Mariano Tomatis, studiando un articolo sulle carte da gioco, scritto da Romain Merlin (1793-1876) nel 1857, scopre anche che Andrea Ghisi aveva realizzato un altro libro/gioco magico. 
Secondo Merlin si intitolava "Il nobile e piacevole passatempo" e sarebbe stato stampato nel 1620 a Venezia, 13 anni dopo il Laberinto (1607).
Ma Roberto Labanti messosi sulle tracce di questo libro, scoprì l'esistenza di una edizione precedente datata 1603, ovvero quattro anni prima dell'edizione del Laberinto del 1607, che si trova a Brescia, presso la Biblioteca Queriniana. 
Il Passatempo, datato effettivamente 1603, risulterebbe essere dunque il più antico ipertesto magico di cui si abbia notizia.
Il titolo completo dell’opera è "Il nobile et piacevole gioco, intitolato Il passatempo, dato in luce nuovamente dal Bidello Academico Cospirante, stampato in Verona da Bonifacio Zanetti alla Porta de i Borsari (1603)". 
L’opera presenta 74 immagini distribuite in modo disordinato su 21 tavole. Su ogni tavola compaiono 52 figure, per un totale di 1092 disegni.
Il libro veniva usato nelle corti italiane per presentare un singolare gioco di prestigio, in cui una persona era invitata a scegliere mentalmente una figura e indicare il riquadro in cui compariva. Al fondo di ogni riquadro c'era il rimando a un’altra pagina, dando vita a un percorso di lettura non lineare che consentiva, a chi ne conosceva il segreto, di indovinare la figura pensata.


Edizione inglese del 1610 su cui si è basato il libro di Mariano Tomatis

Ma torniamo al Laberinto e allo studio, per carpirne i segreti, fatto da Mariano Tomatis nel suo libro "La mappa del Laberinto di Andrea Ghisi" che si concentra sull’edizione inglese di Thomas Purfoot.
Lo studioso statunitense Bill Kalush segnalò infatti una copia in .pdf dell’edizione inglese del 1610 disponibile negli archivi del Conjuring Arts Research Center e il file trovato nel database del centro studi americano è stato sufficiente per portare avanti un lavoro accurato e un’analisi completa.
Si scopre così che il libro è un sofisticato gioco di prestigio, basato su complessi calcoli matematici. 
Un libro “magico” che consente di leggere nel pensiero.
Chi conduce il gioco apre il libro alla prima pagina, dove le 60 figure sono disposte in 4 settori o “quartieri”, e chiede all’interlocutore di pensare una figura e di dichiarare solo il “quartiere” ("riquadro") in cui si trova; la stessa operazione viene ripetuta una seconda volta, finché alla terza il conduttore è in grado di indovinare, tra lo stupore e la meraviglia degli astanti, l’immagine pensata.
Un gioco di società, dunque, come scrive l’autore nella dedica, nel qual potessero i gentili spiriti stanchi trovar riposo anco nell’esercitio honesto”, ma un gioco costato nell’ideazione una non picciola fatica”, perché a differenza degli altri giochi dove gran parte ha la Sorte, et poca l’Ingegno”, qui invece “tutto viene dall’Ingegno”.
Ma come avviene tutto ciò? Qual'è il ragionamento logico ideato dal nobiluomo veneziano?
Tomatis arriva a determinare un “grafo orientato connesso aciclico” che ci aiuta a capire bene il meccanismo "magico".


Grafo orientato connesso aciclico dei percorsi per "leggere nel pensiero"

Per poter analizzare la parte "matematica" occorre però prima scannerizzare ogni figura (sono 1260) e restaurarla digitalmente, per rimuovere le tracce di sporco e le distorsioni dovute alle cattive condizioni delle pagine e, forse la parte più difficile, effettuare il riconoscimento dei 240 piccoli numeri che compaiono sulle quattro tavole. 
Importante poi che le 1260 xilografie vengano reimpaginate seguendo la stessa struttura del libro originale secondo tutte le 60 “partite” possibili, a partire da ciascuna figura. 
Come abbiamo detto e come Tomatis spiega bene nella sua "mappa", il libro veniva usato per indovinare, attraverso tre domande successive, quale figura stesse pensando una persona.
Bisognava quindi analizzare con cura le 21 tavole, una per ciascuna lettera dell’alfabeto italiano, ognuna delle quali copre due pagine, tenendo presente che ogni tavola contiene le stesse 60 immagini, mescolate in modi sempre diversi, suddivise in quattro riquadri di 15 figure ciascuno.
Va anche tenuto conto del fatto che l'alfabeto usato da Andrea Ghisi include la K ma manca la U. L’ordine delle lettere (e dunque delle tavole) è quindi il seguente: A, B, C, D, E, F, G, H, I, K, L, M, N, O, P, Q, R, S, T, V, Z.


Pagina A di partenza, i numeri associati alle figure e divisione in "quartieri" o riquadri 

Un lavoro ciclopico se applicato appunto a 1260 xilografie?
Resta però da considerare il fatto che più di 1000 di esse sono puri riempitivi, disposte alla rinfusa solo per rendere molto difficile l’analisi del gioco da parte di chi vi ricercava un unico ordine complessivo e che le xilografie diverse e da indovinare sono molto meno cioè 60!
Con l'aiuto del computer il lavoro è stato fatto e Tomatis è riuscito a individuare esattamente la struttura iconografica del Laberinto.
Tomatis inizia con l'isolare le componenti ed elaborarle in un modello astratto, associando a ogni immagine un numero da 1 a 60.
Ogni tavola diventa così una griglia numerica, una traduzione che semplifica enormemente la conversione del libro in linguaggio informatico.
E poiché ognuna delle 21 tavole è diversa dall’altra, l’intero libro non è che una gigantesca matrice numerica misteriosa. 
Il libro ne dà una descrizione molto accurata (qui una copia in .pdf) mentre io mi soffermerò solo sull'analisi del grafo.

Partendo dal presupposto che ciascuna delle 60 figure è raggiungibile attraverso un singolo percorso: analizzandoli tutti, si può risalire al metodo usato da Ghisi per dare forma al suo labirinto. 
Poiché per indovinare ogni figura è sufficiente consultare 3 tavole, ogni percorso può essere descritto con le 3 lettere che le identificano.
I passaggi sono così esplicati e le 21 tavole possono dunque essere suddivise in tre gruppi, a seconda della posizione occupata nei 60 percorsi:
1) il gioco inizia dalla tavola A, che contiene tutte le 60 xilografie diverse, quindi tutti i percorsi avranno la A come prima lettera. 
2) poiché all’inizio di ciascun riquadro della tavola A compaiono la Malinconia (Riq.I), Rinaldo (Riq.II), il Girasole (Riq.III) e il Bullo (Riq. IV), la seconda lettera di ciascun percorso potrà essere soltanto una tra le seguenti: M, R, G o B.
3) analizzando separatamente le tavole B, G, M e R si individua una regola interessante: per come sono disposte le figure, nessun percorso torna su una tavola già visitata in precedenza. Al contrario, tutti i percorsi conducono da una tavola a un’altra che si trova in posizione successiva nell’alfabeto.




Prendendo nota dei 60 percorsi e mettendoli in ordine alfabetico, il risultato mostra un certo grado di ordine:




Se scegliessimo per esempio come figura il Tamburo:
1) partiremmo ovviamente dalla tavola A
2) trovandosi nel IV riquadro che inizia con la xilografia del Bullo si passerebbe alla tavola B
3) da questa si passerebbe alla tavola E essendo la xilografia dell'Edificio la prima del I riquadro in cui compare il tamburo
4) infine nella tavola E il Tamburo compare nel IV riquadro e qui si osserva che l’iniziale della prima figura del riquadro indicato nell’esempio è la lettera D di Dante. 
Iniziando a contare dalla prima immagine (pronunciando mentalmente la lettera A, poi B poi C fino alla D che corrisponde proprio al Tamburo scelto.
Quindi il percorso che conduce al Tamburo può essere individuato dalla sequenza ABE4.

Per apprezzare quindi l’ordine nascosto dietro il Laberinto, ecco due rappresentazioni:
la prima è una rappresentazione grafica della sua mappa proposta come una serie di scatole cinesi, la seconda è proprio il grafo orientato connesso aciclico di cui parlavo all'inizio.


Accanto a ognuna delle figure nel grafo compare, con un numero romano, il riquadro in cui si trovano nella tavola finale. 
L’immagine rende evidente la simmetria nascosta dell’opera: 
il quarto riquadro manca dalla tavola C (che è la prima in alto) e dalla tavola Z (che è la prima dal basso), ma anche dalla H (la quinta a partire da sopra) e dalla Q (la quinta da sotto).
Una volta identificati tutti i 60 percorsi, è facile accorgersi che la grande maggioranza delle immagini che compaiono nel Laberinto sono riprodotte per pura misdirection, cioè sovrabbondanti e disposte alla rinfusa solo per rendere molto difficile l’analisi del gioco.
Le uniche immagini necessarie allo svolgimento del gioco sono quelle che rispondono ad almeno uno dei due seguenti criteri:
- si trovano in una tavola la cui lettera compare sul proprio percorso
- si trovano all’inizio di un qualsiasi riquadro in una tavola in posizione 2 o 3 del percorso, tranne che per i riquadri IV delle tavole C, H, Q e Z (in cui l’autore non ha fatto concludere alcun percorso).

In conclusione, come scrive il nobile veneziano Andrea Ghisi, davvero quindi un gioco di società, “nel qual potessero i gentili spiriti stanchi trovar riposo anco nell’esercitio honesto, ma un gioco costato nell’ideazione una non picciola fatica, perché a differenza degli altri giochi dove gran parte ha la Sorte, et poca l’Ingegno, qui invece tutto viene dall’Ingegno”.
Un gioco di società di cui Mariano Tomatis ha scoperto i "trucchi matematici" , dandoci la possibilità di giocarci anche ai giorni nostri e, molto più modernamente, on line!



Per "giocare" cliccare sotto questa immagine
Per giocare o meglio per leggere nel pensiero cliccare qui
Come indovinare un numero pensato?
Le tavole A, M, S e Z riportano sotto le figure alcuni numeri che
consentono di presentare un secondo gioco di lettura del pensiero 
e costituiscono l’ampliamento dell’edizione inglese rispetto alla prima italiana.
Tutte la spiegazioni da pag. 67 a 71 del libro di Tomatis

Così come ci dice Mariano Tomatis:
"L’ultima fase del mio lavoro è stata quella, naturale, di restituire al libro la dimensione ipertestuale e interattiva che aveva nella mente di Andrea Ghisi. Il Laberinto era stato pensato per Internet con quattrocento anni di anticipo, ma finalmente vi è approdato. Qui potete giocarci cliccando letteralmente sui riquadri in cui si trova la figura pensata, e farvi leggere il pensiero attraverso il Web da un uomo morto da quattro secoli. Un’esperienza che definirei di “tecno spiritismo

Labirinto (nel film del 1986) Il nome della rosa e mappa della biblioteca

"Come nel labirinto de Il nome della rosa, la chiave del Codice Ghisi sta nelle lettere dell’alfabeto. 
Nel romanzo di Eco, per trovare un libro il bibliotecario doveva comporre una parola percorrendo, una dopo l’altra, le stanze corrispondenti alle sue lettere.
Libri diversi corrispondevano a parole diverse e quindi a percorsi diversi.
Come nel castello de Il nome della Rosa, sul perimetro esterno dell’edificio, le 16 stanze potrebbero contenere le 60 icone. 
In altre parole, il Laberinto accompagna il lettore attraverso le sue stanze dalla prima all’ultima tavola, senza che sia necessario usare una mappa. 
Solo la conoscenza del suo segreto consente di orientarsi e per questo si può definire un libro esoterico. Il suo segreto non è né mistico, né spirituale, ma si tratta di un segreto matematico. Un segreto che conferisce a chi lo possiede il potere di leggere nel pensiero."


Fonti

From the book
La mappa del Laberinto di Andrea Ghisi - Mariano Tomatis Antoniono - Pubblicato nel 2011
http://www.marianotomatis.it/biblioteca/repository/Tomatis2011.pdf
From website
http://www.marianotomatis.it/biblioteca/repository/Tomatis2011.pdf
http://www.marianotomatis.it/slide.php?folder=slides/laberinto#
From the pictures
http://www.marianotomatis.it/biblioteca/repository/Tomatis2011.pdf
http://www.marianotomatis.it/slide.php?folder=slides/laberinto#
http://panizzi.comune.re.it/Sezione.jsp?titolo=Il+segreto+del+Labirinto+(1616)&idSezione=902
e rielaborazioni con Photoshop di Annalisa Santi



Rudolf Laban e la matematica della danza

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Danza
...ma preferisco ancora la danza
a queste forme imperfette
che son le parole sgraziate,
inclini all'imbonimento dei sogni,
di voraci sentimenti...
...preferisco la danza che cuce
audaci forme di fuoco nel mio
corpo di terra, in linee aeree
lo dipana volando,
da un abbraccio a un assolo,
sempre in cerca di fluidi gesti
veraci nel sentimento
...preferisco la danza capace
di tramutare in liquida bellezza
anche le mie stonature.
(tratta da "Effimeri, totali" poesie di Barbara Bonazzi)

Penso che questa poesia sia perfetta per introdurre questo mio articolo dedicato a Rudolf Laban (1879-1958), geniale teorico ed artista poliedrico, che, dai primi del '900, ha creato una vera e propria Weltanschauung (Visione del mondo), rispondente a una visione universalistica della danza.
Una danza libera per valorizzare il gesto e il movimento del corpo esprimendo la personalità del danzatore a partire dalla sua spontaneità. 




Uno dei grandi sogni della mia infanzia fu quello di diventare una ballerina, e fin dall'età di cinque anni mi dedicai, con impegno e grande passione, a questa disciplina che per dieci anni ha comunque forgiato il mio carattere.
La danza infatti si conquista lentamente con lavoro, sudore, con un grande senso di umiltà e in questo modo prepara ad affrontare anche la vita.
La danza, oltre ad essere una meravigliosa arte, è soprattutto una disciplina molto rigorosa per la quale ci vogliono impegno, lavoro duro, ore e ore di esercitazioni quotidiane e sacrificio.
È un coinvolgimento totale di se stessi, una continua ricerca della perfezione, un lavoro assiduo nella speranza di plasmare il proprio corpo per renderlo più duttile, forte ma allo stesso tempo armonioso ed espressivo. 
Per me la danza è stata anche un modo di vivere e, con il tango argentino, è tornata ancora ad esserlo in questi ultimi anni. 
Percepisco e guardo la danza, ancora oggi, come l'avevo guardata la prima volta, con occhi incantati di bimba, e ogni volta colgo la sua capacitò di esprimere quello che l'essere umano ha dentro di sé, attraverso il movimento, il gesto, lo sguardo, tutta la propria persona e tutto quello che non riusciamo a dire con le parole. 
E'questa per me l'arte probabilmente più difficile e completa tra tutte, poiché contiene, in modo interdisciplinare, tutte le altre forme d'arte.
Come non vedere l'arte della danza legata alle altre meravigliose discipline, quali la musica, la pittura, la filosofia, la fisica, la storia, la letteratura.......e perché no, anzi forse principalmente, la matematica?
Si proprio la matematica e un esempio della sua intima correlazione lo dà l'approccio analitico-funzionale basato sullo studio fisico/matematico del movimento del corpo nello spazio del grande Rudolf Laban. 
Secondo Laban gli elementi dell’armonia si comprendono meglio utilizzando una forma geometrica, dimostrando anche come la successione armonica dei movimenti non sia casuale.


Rudolf Laban - Ballerino e studioso del movimento

Laban ma chi era costui?
Il 15 dicembre 1879 nasceva a Pozsony (ora Bratislava in Slovacchia) il grande danzatore, coreografo e teorico della danza e del movimento, Rudolf Von Laban. 
Egli dedicò tutta la sua vita alla descrizione del movimento, sia simbolico che geometrico, e il suo interesse per la matematica e la danza lo portò a strutturare un sistema di annotazione, detto dal suo nome Labanotation, ancora oggi in uso. 
Laban percepiva la danza come forma primaria e privilegiata dell’espressione umana, e, per lui, comprendere il movimento significava comprendere se stessi. 
Laban può essere considerato a tutti gli effetti uno dei “padri fondatori” della danza contemporanea di cui ha messo in luce le potenzialità educative insite nell’arte della danza, oltre ad offrire un grande contributo alla nascita della danzaterapia.
Alla base di tutti gli studi del XX secolo che hanno avuto la danza come materia di fondo c'è sicuramente l'analisi tra le relazioni esistenti tra il corpo che si muove e lo spazio in cui si esprime, tra il significato di movimento e la sua decifrazione.
Le sue idee hanno generato innovazioni non solo nella danza, ma anche nella recitazione e nella messa in scena, negli studi sulla comunicazione non verbale, in ergonomica, nella teoria educativa e formativa, nello studio della personalità e in psicoterapia.


la Labanotation è: 
- Un linguaggio che codifica movimenti e azioni mediante simboli.
- Attraverso questo metodo è possibile rappresentare graficamente tutte le forme del movimento.
- I movimenti vengono riprodotti attraverso l’uso di caratteristiche matematiche e simboliche 
Attualmente la Cinetografia viene utilizzata in appositi software algoritmici elaborati per questa speciale disciplina 

Cos'è la Labanotation?
Rudolf von Laban espresse i fondamenti della “Cinetografia labaniana” o “Labanotation”, per la prima volta sulla rivista “Schrifttanz” (Methodik, Orthographie, Erläuterungen) nel 1928, che elaborò in occasione del secondo Congresso tedesco di Danza  a Essen. 
L'analisi del movimento di Laban è un metodo e un linguaggio per  descrivere, visualizzare, interpretare e documentare il movimento umano, e trae origine da campi diversi tra cui la matematica e la geometria, l'anatomia, la kinesiologia e la psicologia. 
La Cinetografia (Kinetographie) di Laban, ormai nota e usata ovunque appunto col nome Labanotation, è un metodo di scrittura del movimento pressoché universale, nato per la danza ma utilizzabile per ogni tipo di movimento umano. 
Con simboli geometrico/astratti, su di un rigo somigliante a quello musicale ma disposto verticalmente, permette di annotare passi, gesti e movimenti di ogni singola parte del corpo unendoli in una visione complessiva. 
La Cinetografia permette così di realizzare il sogno di fissare e rendere riproducibile il movimento danzato, labile ed effimero per sua natura, evitando la perdita di opere d'arte coreutiche o di antichi balli popolari in via di estinzione e favorendo l'analisi e lo studio del movimento nelle scienze motorie, nell'educazione, nella terapia psicofisica ecc.
E' utilizzato quindi da ballerini, coreografi, attori, musicisti, atleti, ma anche da professionisti della salute come terapeuti fisici e professionali o psicoterapeuti, nonché in antropologia, consulenza aziendale e sviluppo della leadership.
Diversamente da altri sistemi di notazione quello di Laban è ispirato a principi di rigore e universalità e si basa su principi generali della cinetica che regolano il movimento del corpo umano.
La rappresentazione iconografica non può contenere tutte le informazioni necessarie per consentire la ricostruzione del movimento, come d’altra parte non lo consentono le parole che lasciano un ampio margine di ambiguità.
Quindi il presupposto da cui partì non fu quello di costruire un sistema utile ai fini della ricostruzione del movimento coreutico, ma una vera e propria lingua dotata di un simbolismo rigoroso e universalmente comprensibile.
Un sistema di notazione elaborato mettendo in correlazione danza, geometria e matematica, tenendo presente che qualsiasi danza, indipendentemente dall’origine e dallo stile, può essere descritta, e quindi riprodotta, attraverso l’uso di un linguaggio con caratteristiche matematiche (basate sulle geometrie), o mediante un linguaggio simbolico. 
L’essenziale è che questo linguaggio venga compreso e decodificato.




Il critico Pontremoli, sostiene che:
"la scienza labaniana della danza si divide in tre branche: 
- la coreosofia, o filosofia della danza, che stabilisce di quest’ultima i principi etici ed estetici
- la coreologia, disciplina analitica che studia i nessi grammaticali e sintattici del movimento e cerca di individuare le leggi che ne regolano lo sviluppo spaziotemporale
- la coreografia, scienza della scrittura della danza da intendersi sia come il prodursi del movimento in una serie di connessioni, sia come possibilità di fissare questo sviluppo discorsivo sulla carta per mezzo di un sistema univoco di segni.
Nello studio delle coreografie egli raggiunse, quello che probabilmente è il suo apice e quello per cui è maggiormente conosciuto, poiché riuscì in ciò che nessuno prima di lui era riuscito: tradurre in scrittura il movimento" 




E veniamo ora a descrivere nei suoi elementi fondamentali questa terza branca, cioè il linguaggio simbolico.
La Labanotation è ancora oggi la metodologia più usata per trascrivere una coreografia, ma in genere ogni tipo di movimento, che ha reso l’arte della danza meno effimera, sostituendosi alla tradizione a memoria (o con pochi esempi scritti) delle sequenze. 
L’idea di base della Cinetografia (dal greco kìnesis e gràfo, scrittura del movimento), o Labanotation, è che qualsiasi movimento (e qualsiasi danza) possa essere descritta tramite un linguaggio con caratteristiche matematiche e geometriche. 
Da qui l’ideazione di una simbologia che solo attraverso forme e linee indichi la lunghezza del movimento, la sua direzione, la sua altezza e la parte del corpo coinvolta. 
Laban arriva persino a identificare i piani diagonali usati nel movimento e a servirsi di queste linee per costruire le forme geometriche dentro cui idealmente si inscrive l’azione corporea. 



Lo spazio ideale entro cui un ballerino si può muovere è, a suo parere, l’icosaedro, un solido a venti facce.
Attraverso simboli, che rappresentano le linee fondamentali del corpo e le sue parti, egli è riuscito a codificare scientificamente un linguaggio unico per la danza, l’equivalente di quello che è la notazione per la musica.
Linee fondamentali che vengono disegnate a partire:
- da un “center” che indica il centro dello spazio di riferimento 
- dalle otto direzioni principali di movimento 
- dalla profondità del movimento data da simboli più o meno ombreggiati
- dalla durata del movimento
I parametri fondamentali che identificano lo studio del movimento  sono: Peso, Spazio, Flusso, Tempo, Energia e Sforzo.
La sua teoria si basa sull’analisi di direzione, altezza, tempo, della parte del corpo in movimento e del genere di movimento. 
I simboli utilizzati contengono quattro tipi di informazione fondamentali: 
- il tempo (lunghezza del simbolo), 
- la direzione (forma del simbolo), 
- il livello (colore del simbolo) 
- la parte del corpo in movimento (posizione rispetto all’asse).


Per visualizzarli e ingrandirli andare al link

Il metodo si basa su 4 fattori di movimento: 
Spazio (S)
in cui identifica:
- direzione e livelli dei passi e dei gesti 
- cambio di fronte 
- estensione dei passi e dei gesti
- forma dei gesti. 
Tempo (T)
che può manifestarsi come:
- rapido e lento nei gesti e nei passi
- ripetizione di un ritmo
- tempo di un ritmo
Peso (P)
che si contraddistingue in: 
- tensione forte o debole
- posizione degli accenti
- fraseggio risultante da periodi accentati e non accentati
Flusso (F)
che può essere: 
- scorrevole 
- interrotto
- arrestato.
Spazio, Tempo, Peso e Flusso sono quindi i fattori di movimento attraverso i quali la persona che si muove adotta un particolare atteggiamento (Energia e Sforzo), che, a seconda dei casi si può descrivere come: 
- un atteggiamento flessibile e lineare nei confronti dello spazio 
- un atteggiamento di prolungamento o di abbreviazione nei confronti del tempo 
- un atteggiamento rilassato o energico nei confronti del peso 
- un atteggiamento di liberazione o di contenimento nei confronti del flusso.



Come descrive chiaramente Leonetta Bentivoglio (in "La danza contemporanea, Milano, Longanesi, 1985 pag.60) 
"Laban si serve, per chiarire tale codificazione, di una figura geometrica esemplificativa l’icosaedro, ossia un solido regolare costituito da venti triangoli equilateri che si incontrano in dodici punti a destra e dodici a sinistra. 
La figura prescelta racchiude in sé tre dimensioni spaziali: 
lunghezza, larghezza e profondità. 
Analogamente, il corpo umano si muove in tre direzioni: 
in senso verticale (dall'alto verso il basso o viceversa), 
in senso orizzontale (da destra a sinistra o viceversa) 
e nel senso della profondità (avanti e indietro). 
Le due parti simmetriche del corpo umano, destra e sinistra, possono compiere nelle tre dimensioni una gamma di movimenti la cui direzione nello spazio può essere sempre stabilita mediante la definizione dei punti d'incontro (dodici per la destra e dodici per la sinistra) delle venti facce triangolari dell'icosaedro, i quali punti costituiscono gli estremi delle linee tracciate dal movimento del corpo nello spazio. 
Così Laban può ricostruire le forme geometriche del movimento naturale servendosi delle ipotetiche diagonali segnate dal moto, che congiungono i punti da cui si parte o verso i quali si va: le diagonali corrispondono alla struttura anatomica e simmetrica dei movimenti umani.” 




Laban per ideare questa simbologia e pubblicarne quindi i risultati si avvale di ricerche scientifiche e analisi condotte sia sui movimenti della danza che sul movimento in generale.
Interessante notare che Laban compì anche analisi sugli operai, quando, superati i sessant’anni e dopo aver già fondato il Laban Art Movement Studio a Manchester (che dirigerà fino alla morte, nel 1958), si trovava in Inghilterra, obbligato a lasciare Berlino nel 1938 a causa della censura nazista che non apprezzava le sue idee anticonformiste. 
Era questa l’epoca in cui nascevano le prime catene di montaggio, emblema supremo della spersonalizzazione, e Laban mostra per la prima volta il corpo come uno strumento per opporsi all’alienazione, per affermare il proprio personale modo di stare nel mondo. 
Proprio in quest’ottica acquistano un senso maggiore queste sue osservazioni sugli operai.
Le catene di montaggio prevedono l’esecuzione di movimenti ripetitivi e uguali per tutti, tuttavia Laban aveva notato che ogni operaio li eseguiva a modo suo, coi propri tempi e con la propria personale gestualità, confermando il suo motto "Ognuno è un danzatore". 


Dal 1913 al 1918 Rudolf Laban aveva aperto una Scuola d’Arte a Monte Verità.
Monte Verità (Monte Monescia, una collina sopra Ascona nel Canton Ticino) era una comune, una colonia 
cooperativa vegetariana, dove, alla fine del 1800, si insediò il “movimento alternativo”.

Sono questi anche gli anni in cui l’ammirazione per le sue idee si diffonde tra le nazioni, e in cui fioriscono in tutta Europa scuole labaniane. 
Laban stesso fonda un istituto di ricerca scientifica sulla danza, Laban Art of Movement Studio, che dirige a fianco della sua collaboratrice Lisa Ullmann, proseguendo la sua instancabile attività creativa fino all'anno della sua morte a Londra nel luglio 1958.
Un apice glorioso conseguenza della grande opera di teorizzazione, avvenuta negli anni precedenti, tra Monaco e Zurigo, in cui vengono posate le basi del suo pensiero, nel quale il ballo diventa una danza pura in cui azione, musica e parola si intrecciano in modo indissolubile e continuo.
Il corpo viene visto da Laban in maniera del tutto rivoluzionaria. 
Non più un corpo, come volevano Platone e Cartesio, gabbia della mente, un’appendice ingombrante che deve eseguire gli ordini del pensiero, bensì protagonista e mezzo tramite cui agire nel mondo e autoaffermarsi. 
Nonostante la mole delle sue teorie sia legate a scienze esatte, come la fisica e la matematica, l’idea di Laban non è affatto concentrata solo sulla forma, e le figure che si vanno a costruire non devono essere, come per il balletto classico, solo esteticamente piacevoli, ma soprattutto veicolare un’emozione.



Con un ritardo di cinquant'anni appare nel 1999 la traduzione di "L'arte del movimento", uno dei testi fondamentali del teatro e della danza di questo secolo, frutto dell'attività artistica, teorica e pedagogica di Rudolf Laban, che può considerarsi capostipite indiscusso della danza espressiva tedesca, anzi della danza "moderna". 
La parte più interessante del testo è forse costituita dai primi tre capitoli, dove vengono esposti i principi della meccanica del movimento seguiti da un'analisi dei quattro fattori del moto (Spazio, Tempo, Peso e Flusso), e da una serie di esercizi mirati all'accrescimento della consapevolezza delle potenzialità dinamico/espressive del corpo. 
Di ciascun movimento viene quindi proposta la trascrizione grafica secondo il metodo di notazione ideato da Laban, a tutt'oggi il più efficace sistema di registrazione e preservazione delle coreografie.
Le riflessionì labaniane sulla danza e sul teatro, al pari di quella di altri grandi maestri del novecento, si basa su una visione psicofisica del lavoro del performer, ma i principi e i meccanismi che Laban individua sono stati applicati, come già evidenziato, anche in ambiti extra-teatrali, come la terapia di recupero di disabili e malati mentali e il mondo dell'industria per il miglioramento dell'efficienza dei lavoratori. 




Ed è proprio da questo libro (“L’arte del movimento” di Rudolf von Laban - Editore: Ephemeria - 1999) che traggo queste ultime frasi che ben caratterizzano ed esemplificano l'opera del grande innovatore.
Questa fu infatti la grande rivoluzione labaniana che, alla statica della danza accademica (in cui la successione di passi, salti, giri, pose e combinazioni varie avviene sempre in senso planimetrico, quindi soltanto in otto direzioni), contrappone una concezione stereometrica (oltre che ritmico-dinamica) del movimento. 
La codificazione del movimento in base alle sue dinamiche generatrici (le dodici direzioni offerte dalla tridimensionalità dell'icosaedro) in impulso monodimensionale (Impuls), in tensione/distensione bidimensionale (Spannung-Entspannung) e in slancio tridimensionale (Schwung), amplia così all'infinito il raggio di possibilità espressive del movimento.
Questo sistema labaniano (la Coreutica), oltre a costituire un sistema pratico di iscrizione dei movimenti nello spazio, è rivelatore di una concezione del rapporto con lo spazio radicalmente opposta a quella del balletto classico accademico.
In questa visione rivoluzionaria se si concepisce lo spazio a partire dal corpo, è il danzatore stesso che crea i propri limiti, il proprio spazio personale di movimento. 
I termini ne risultano capovolti: il moto non può venire imposto da direzioni prefissate secondo un unico codice, perché è dal moto stesso che scaturisce la direzione. 
Non c'è un'estetica a priori che definisce lo spazio e ne impone i limiti al corpo, ma è il corpo che crea il proprio spazio e lo definisce.
Non solo ed è proprio nelle basilari coordinate del sistema labaniano (partendo dalla fondamentale distinzione tra la danza accademica, considerata disciplina di posizioni, e la danza libera, che è invece disciplina di movimento), sono già pienamente riconoscibili 
alcuni dei principi essenziali delle varie tecniche di danza moderna. 
Basterebbe soltanto la classificazione labaniana dei movimenti "principali", ossia i movimenti centripeti (di concentrazione e accumulazione di energia) e i movimenti centrifughi (quelli che partono dal centro del corpo verso l'esterno in un'esplosione impulsiva o in un'estensione controllata), per determinare quelli che saranno i principi di partenza delle massime tecniche di modern americano (vedi, ad esempio, la tecnica creata da Martha Graham).


Modern americano, la tecnica creata da Martha Graham (1884-1991)

Sperimentatore radicale, Laban passò attraverso l'espressionismo, il dadaismo, il surrealismo, restando sempre e soltanto se stesso, libero e geniale pensatore, artista poliedrico, creatore di un' autentica Weltanschauung rispondente a una visione universalistica della danza come espressione connessa al vivere dell'essere umano e 
al suo rappresentarsi.
Laban ha saputo anticipare i grandi temi del nuovo teatro di danza del ventesimo secolo ed è proprio sulla strada indicata da Laban che si muoverà tutta la danza libera contemporanea centroeuropea e americana.



Nel video documentario su Rudolf Laban alcune immagini
sono tratte dal suo soggiorno Monte Verità dove Laban
dal 1913 al 1918  aveva aperto una Scuola d’Arte



Fonti

From the book
L’arte del movimento di Rudolf von Laban - Editore: Ephemeria - 1999
La danza contemporanea di Leonetta Bentivoglio - Editore: Longanesi - Milano 1985 
Rudolf Laban - An Extraordinary Life di Valerie Preston - Editore: Dance Books - London 1998
From website 
Esperienza della danza: spazio personale statico, e dinamica postural-corporea (file .pdf)
Erica Venturi
Le azioni nella danza: La madre di tutte le arti (file .pdf)
Elisabetta Aiello
La danza secondo Rudolf Laban (sito)
http://user.uni-frankfurt.de/~griesbec/LABANE.HTML
From the pictures
https://en.wikipedia.org/wiki/Rudolf_von_Laban
https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Labanotation?uselang=it
https://alchetron.com/Rudolf-von-Laban-1249051-W
Alcune immagini sono state rielaborate con PhatoShop
From the video
rai 3: https://www.youtube.com/watch?v=iQUq94KJDYM
documentario foto d'epoca: https://www.youtube.com/watch?v=FSShj74qcwo




Hailstone....dagli abissi marini ai numeri

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Hailstone in inglese significa grandine e questa parola mi ha condotto a due eventi, uno legato agli abissi e uno alla matematica.
Stavo cercando immagini da correlare alla curiosità matematica della congettura di Collatz o "hailstone sequence", quando mi sono imbattuta in immagini stupende dei fondali marini, legati all'"operation hailstone". 
Si tratta della Laguna di Truck (Truck Lagoon) e della sua flotta di relitti sommersi, conosciuta da tutti i subacquei come un posto paradisiaco. 


Laguna di Truck - Relitto in superficie 

La laguna si trova a circa 1000 km a sud est di Guam (U.S.A.), punto principale di approdo per le rotte intercontinentali.
Data la magnifica posizione strategica, durante la seconda guerra mondiale Truck diventò presto il baluardo dei Giapponesi nel Pacifico che, sentendosi al sicuro, concentrarono qui le loro maggiori flotte.
Tuttavia nelle notti tra il 16 e il 18 febbraio 1944, gli Stati Uniti sferzarono un attacco a sorpresa denominato appunto “Operazione Hailstone”, che distrusse e affondò oltre 45 mezzi tra navi militari, aerei, portaerei, un sommergibile, navi cisterna......insomma una Pearl Harbor al contrario avvenuta dopo quasi tre anni da quell'attacco giapponese del 7 dicembre 1941.
Nacque così la famosa “flotta fantasma di Truck” con relitti di navi che si trovano tra una profondità di +1 mt (di alcuni relitti fuoriesce il pennone dall’acqua) e i -200 mt. 
Dopo 25 anni di bonifica e migliaia di immersioni per sminare completamente e rendere innocuo il pericoloso carico di queste navi da guerra, la laguna è divenuta parco, dove i relitti si sono ora completamente trasformati da tetri ricordi di una sanguinosa battaglia a una ricchissima colonia di coloratissimi pesci e coralli di ogni specie.
Un’esplosione di colori e coralli è assicurata visitando la Fujikawa Maru, una portaerei di 132 mt e 6938 tonnellate di stazza, mentre suggestiva è la visione della Sankisan Maru, una nave da carico di 112 mt di lunghezza e 4776 tonnellate di stazza, che giace su un fondale di circa 33 mt parzialmente in assetto di navigazione.
Troppo belle queste immagini per non condividerle in apertura di questo mio articolo, che dedicherò a una sorprendente sequenza matematica, anche lei correlata da altre altrettanto fascinose immagini.


Laguna di Truck - La Fujikawa Maru 

Laguna di Truck - La Aikoku Maru

Laguna di Truck - Mitsubishi G4M Betty Bomber

Laguna di Truck - Un carro armato giapponese

Laguna di Truck - Bombardiere Mitsubishi Zero

Dopo queste sbalorditive immagini degli abissi legate alla "operation hailstone" , dedico questo articolo alla sequenza o congettura di Collatz nota appunto come "hailstone sequence" e a cui nessuno ha ancora dato una risposta e che può essere considerata un vero rompicapo della teoria dei numeri.
Nota anche come congettura di Ulam (da Stanisław Ulam) o di Thwaites (da Sir Bryan Thwaites), capita di incontrarla come algoritmo di Hasse (da Helmut Hasse) oppure come problema di Kakutani (da Shizuo Kakutani) o di Syracuse (il nome fu proposto da Hasse nel 1950, durante una visita alla Syracuse University), fu riproposta da Paul Erdős e prese anche il nome di "hailstone sequence" o "sequenza della grandine".
Tanti nomi diversi stanno a dimostrare il grande interesse per la questione, nata negli anni ’30 del secolo scorso ma diffusasi in campo matematico solo a partire dagli anni ’60.
Conosciuta anche come congettura 3n+1, è una congettura matematica che fu enunciata per la prima volta nel 1937 da Lothar Collatz, da cui prende il nome e riproposta, con un premio in denaro, da Paul Erdős.
Sebbene il matematico tedesco Lothar Collatz (6 luglio 1910 Arnsberg, Vestfalia, Germania - 26 settembre 1990 Varna, Bulgaria) abbia ricevuto molti onori per i suoi contributi, è ricordato forse solo per questa sua sequenza.  
Al contrario il matematico ungherese Paul Erdős (26 marzo 1913 Budapest, Ungheria - 20 settembre 1996 Varsavia Polonia), che la ripropose, è ricordato come uno dei matematici più prolifici ed eccentrici della storia. 


Lothar Collatz (a sinistra) e Paul Erdős

Erdős ha lavorato e risolto problemi legati alla teoria dei grafi, combinatoria, teoria dei numeri, analisi, teoria dell'approssimazione, teoria degli insiemi e probabilità......
Era una persona ossessionata dalla matematica, non desiderava soldi o fama e la maggior parte del denaro che riceveva per le conferenze lo donava per cause benefiche, tenendo per sé solo quanto era sufficiente a soddisfare il suo frugale stile di vita. 
Dava soldi a tutti i mendicanti e si potrebbe dire che semplicemente non si curava affatto di ciò che non era matematica. 
"Alcuni socialisti francesi hanno detto che la proprietà è un furto - diceva - Io penso che più che altro sia una seccatura." 
Non aveva una casa e tutte le sue proprietà materiali erano stipate in due logore valigie che lo accompagnavano ovunque andasse.
"Another roof, another proof" era il suo motto" ("Un nuovo tetto, una nuova dimostrazione").
Ideò anche un vocabolario personale; spesso parlava del "Libro" riferendosi a un ipotetico libro, posseduto da Dio, nel quale erano racchiuse tutte le dimostrazioni sviluppate nella forma più elegante,  "capo" indicava una donna, "schiavo" un uomo, "epsilon" un bambino (noto che epsilon, in matematica, indica una quantità piccola), "veleno" gli alcolici, "rumore" la musica, "predicare" il tenere una conferenza di matematica, e così via. Erdős utilizzava questo suo proprio gergo anche per indicare gli Stati; Samlandia erano gli Stati Uniti d'America (dalla figura dello Zio Sam), mentre Joseplandia era l'URSS (da Josif Stalin). 
Per il suo epitaffio suggerì: "Végre nem butulok tovább" ("Adesso ho finito di diventare più stupido").
Tra le curiosità va ricordata la sua originale quanto inquietante idea di Dio, che negli anni '40 cominciò a chiamare SF, vale a dire "Sommo Fascista", immaginandolo infatti come una sorta di despota cosmico. 
Con tante brutte cose nel mondo - spiegava - non sono sicuro che Dio, ammesso che esista, sia buono”.
Insomma un genio davvero originale ed eccentrico, uno dei più prolifici matematici della storia (durante la sua vita ha scritto 1.485 articoli di matematica) e che, con i suoi studi, contribuì allo sviluppo della teoria di Ramsey e all'applicazione dei metodi probabilistici alla teoria stessa, da cui è nata una nuova branca dell'analisi combinatoria derivata in parte dalla teoria analitica dei numeri.
Durante la sua carriera, Erdős ha offerto premi in denaro per la soluzione di alcuni problemi irrisolti (Congetture di Erdőse tra questi appunto la congettura di Collatz, per la quale Erdős offrì 500 dollari.


Congettura di Collatz

La congettura di Collatz è semplice da enunciare 
e consiste nel definire una funzione f sugli interi positivi (numeri naturali):

f: N→N

f(n) = 3n + 1    se n è dispari 
f(n) = n/2    se n è pari

Un intero n definisce una sequenza:

a(1) = n e,  per i ≥ 1, a(i+1) = f(a(i))

Il problema consiste nel dimostrare che :
per ogni valore iniziale n, la sequenza a(i) raggiunge sempre 1.

Il problema rimane irrisolto, anche se la congettura è stata verificata per tutti i numeri n fino a n = 87x2^60 (nel 2017)
Più formalmente, le congetture in realtà sono due:


congettura debole di Collatz: nessun intero è divergente
congettura forte di Collatz: tutti gli interi positivi sono convergenti

Nelle successive sequenze vedremo che si passa da 1 per entrare in un ciclo (1, 4, 2, 1...) ma potrebbero esistere altri cicli che non contengono l’1. 
In questo caso, risulterebbe vera la congettura debole ma non la forte, per ora appunto indimostrata. 
Esiste solo una dimostrazione debole (molto importante peraltro) dovuta a Terras (vedi nota¹), che afferma (introducendo il concetto di stopping time) che la maggioranza degli interi positivi ha il comportamento che si conclude con il ciclo (1, 4, 2, 1.....).
Se proviamo infatti a costruire più sequenze a partire da un numero intero positivo, dividendolo per 2 se è pari, oppure moltiplicandolo per 3 e sommando 1 se è dispari, osserviamo che dopo un po’ di su e giù, la sequenza precipita incontrando numeri pari divisibili più volte per 2 e alla fine atterra su 1. 

Proviamo alcuni numeri per vedere cosa succede: 

n = 3; 10, 5, 16, 8, 4, 2, 1, 4, 2, 1, ... 
n = 4; 2, 1, 4, 2, 1, ... 
n = 5; 16, 8, 4, 2, 1, 4, 2, 1, ... 
n = 6; 3, 10, 5, 16, 8, 4, 2, 1, 4, 2, 1, ... 
n = 7; 22, 11, 34, 17, 52, 26, 13, 40, 20, 10, 5, 16, 8, 4, 2, 1, 4, 2, 1 ...
n = 11; 34, 17, 52, 26, 13, 40, 20, 10, 5, 16, 8, 4, 2, 1, 4, 2, 1 ...
n = 156; 156, 78, 39, 118, 59, 178, 89, 268, 134, 67, 202, 101, 304, 152, 76, 38, 19, 58, 29, 88, 44, 22, 11, 34, 17, 52, 26, 13, 40, 20, 10, 5, 16, 8, 4, 2, 1... (vedi grafico 1.1)
Come si vede la sequenza si ripete in un ciclo infinito:  4, 2, 1, 4, 2, 1 ...


Grafico 1.1

Analizzando queste sequenze scopriamo anche perché sia stata chiamata "hailstone sequence".
Il comportamento delle sequenze infatti ricorda la formazione della grandine causata da nuclei di ghiaccio portati su dalle correnti ascensionali e giù dal proprio peso, che si aggregano tra loro fino a diventare troppo pesanti e precipitare al suolo. 
Da qui il nome di sequenza della grandine, in inglese "hailstone sequence".


Schema di formazione della grandine

Come si è detto, fino ad oggi la questione è ancora aperta ed in attesa di essere dimostrata vera o confutata.
Spinti dall’apparente semplicità della domanda, nel tempo molti matematici hanno provato a fornire una risposta rigorosa, ma il problema si è rivelato molto più ostico del previsto. 
E una risposta alla domanda "Quanto ostico?" ce la fornisce proprio la valutazione del matematico ungherese Paul Erdős, che era solito offrire a colleghi e studenti una ricompensa economica per la soluzione dei problemi che proponeva.
Il premio partiva da pochi dollari per problemi che pur impegnavano duramente anche i più esperti e arrivò a 50$ per un problema ancora oggi irrisolto (frazioni egizie della congettura di Erdős-Strauss, ma a chi avesse fornito un risposta alla congettura di Collatz , Erdős offrì ben 500 $. 
Il suo intuito gli suggerì che forse servisse una matematica ancora da scoprire per risolvere la congettura.
Jeffrey Lagarias nel 2010 ha affermato a sua volta che "si tratta di un problema estremamente difficile, completamente fuori dalla portata della matematica attuale".
Quando negli anni ’60 il problema ritornò a interessare e cominciò a girare tra le università statunitensi, i calcolatori non erano ancora diffusi come oggi e il modo più comune per affrontare un problema come questo era ancora carta e penna.
L’apparente semplicità indusse molti a provarci, spendendo ore di calcoli senza però arrivare a una dimostrazione rigorosa.
Tanto che, ironicamente, qualcuno ipotizzò che la congettura facesse parte di una cospirazione sovietica, intesa a paralizzare la ricerca matematica statunitense.


Disposizione ad albero con radice in 1 

Cerchiamo ora di individuare quali siano i punti da prendere in considerazione per riuscire a dimostrare o confutare la congettura di Collatz.
Dato che la congettura di Collatz suppone che per ogni valore iniziale n, la sequenza a(i) debba raggiungere sempre 1, a(i) potrebbe: 
1) verificare tale ipotesi e precipitare a 1, dopo aver altalenato su e giù, terminando con il ciclo da 4 → 2 → 1 → 4 (…)
2) confutare tale ipotesi e terminare su un ciclo diverso da 4 → 2 → 1 → 4 (…) 
3) confutare tale ipotesi e divergere, toccando numeri sempre maggiori e non terminando mai né a 1, né in un ciclo
Quindi la congettura può essere dimostrata vera o falsa, in base ad un rigoroso ragionamento logico-matematico (caso 1), oppure confutata trovando un controesempio (casi 2 o 3).
Si potrebbe confutare tale congettura solo trovando un numero di partenza che generi una sequenza che non contenga 1, che quindi converga a un ciclo di ripetizione che escluda 1 o che diverga.
Queste strade sono state attivamente esplorate da più di 50 anni, ma nessuna sequenza di questo tipo è stata trovata. 
Non è stata trovata né una dimostrazione, né un controesempio. 
Anche se la congettura non è stata dimostrata, la maggior parte dei matematici che hanno esaminato il problema pensano che la congettura sia vera perché le prove sperimentali e gli argomenti euristici lo sostengono.
Con l'ausilio del computer, è stato verificato ad oggi (2017) che tutti gli interi positivi fino a 87x2^60 (vedi nota²) terminano infatti, prima o poi, a 1.
Con l'aumento della velocità dei computer, verranno controllati valori sempre più alti, anche se è bene ricordare che questi test non potranno mai dimostrare la correttezza della congettura, ma solo l'eventuale falsità.

Ma quali strade sono state battute dai matematici, alla ricerca di regolarità, che diano la chiave di risoluzione? 
Il primo passo è farsi un’idea di come varia la lunghezza della sequenza (numero dei passi), in base al numero di partenza.
Tenendo conto del numero da cui si parte, in alcuni casi il percorso è breve, mentre per altri è particolarmente lungo.
Ad esempio, partendo da n = 27 si arriva a 1 dopo un percorso di ben 111 passi, di cui 41 passi per i numeri dispari. 
Nel suo viaggio la sequenza sale fino a 1.780, ridiscende a 167, si impenna fino a 9.232, per poi scendere più o meno a capofitto verso 1 (vedi grafico 1.2).

27, 82, 41, 124, 62, 31, 94, 47, 142, 71, 214, 107, 322, 161, 484, 242, 121, 364, 182, 91, 274, 137, 412, 206, 103, 310, 155, 466, 233, 700, 350, 175, 526, 263, 790, 395, 1186, 593, 1780, 890, 445, 1336, 668, 334, 167, 502, 251, 754, 377, 1132, 566, 283, 850, 425, 1276, 638, 319, 958, 479, 1438, 719, 2158, 1079, 3238, 1619, 4858, 2429, 7288, 3644, 1822, 911, 2734, 1367, 4102, 2051, 6154, 3077, 9232, 4616, 2308, 1154, 577, 1732, 866, 433, 1300, 650, 325, 976, 488, 244, 122, 61, 184, 92, 46, 23, 70, 35, 106, 53, 160, 80, 40, 20, 10, 5, 16, 8, 4, 2, 1 (...)


Grafico 1.2

Analizzando il numero dei passi è quindi evidente che anche un numero relativamente piccolo (come es n = 27) può avere tanti passi prima di arrivare a 1, come si vede dal grafico 1.2 ottenuto appunto utilizzando la funzione matematica della sequenza di Collatz.
Interessante anche notare la somiglianza notevole tra due grafici che si riferiscono alle sequenze che iniziano rispettivamente con n = 63.728.127 e n = 670.617.279 (vedi grafico 1.3 e 1.4)  
E' stato verificato che n = 63.728.127 è il numero minore di 100 milioni con il tempo di arresto totale più lungo, con 949 passi, e n = 670.617.279 è il numero minore di 1 miliardo con il tempo di arresto totale più lungo, con 986 passi (vedi grafici 1.3 e 1.4). 


Grafico 1.3

Grafico 1.4

Tenendo conto dei numeri di passi (per i numeri pari e dispari) si ottengono i grafici della congettura di Collatz e, se effettivamente tutte le sequenze portano a 1, allora gli interi positivi dovrebbero disporsi secondo un albero, con radice in 1. 
Le diramazioni dovrebbero passare, prima o poi, per tutti i numeri interi positivi. 
Anche se questo tipo di costruzione mostra delle regolarità, non ha fornito ad oggi lo spunto desiderato.
Per approfondire i più significativi tentativi di dimostrazione che si sono susseguiti lascio il link alla "Collatz conjecture"

Qui di seguito alcuni grafici della sequenza di Collatz che prendono in considerazione il numero di passi:


Grafico 1.5

Grafico 1.5 - lunghezza per i numeri dispari minori di 10.000 rispetto ai passi pari e dispari
Analizzando la lunghezza delle sequenze di Collatz per i numeri dispari minori di 10.000, si osservano frequenti gruppetti di numeri vicini che hanno la stessa lunghezza. Poiché due numeri dispari consecutivi non hanno fattori primi in comune, si tenderebbe a escludere un legame tra lunghezza della sequenza e fattori primi.


Grafico 1.6

Grafico 1.6 - lunghezza per i numeri pari minori di 10.000 rispetto ai  passi pari
Analizzando la lunghezza delle sequenze di Collatz per i numeri pari minori di 10.000, che come visto è la lunghezza della sequenza che aggrega il passo 3n + 1 con il successivo dimezzamento, si nota che l’andamento è simile a quello del grafico 1.5.


Grafico 1.7

Grafico 1.7 - distribuzione delle lunghezze
Analizzando la distribuzione delle lunghezze per i numeri dispari  minori di 10.000, si nota che la gobba che si forma intorno alla lunghezza di 120 è (purtroppo) fuorviante, e si livella analizzando più numeri.


Grafico 1.8

Grafico 1.8 - rapporto tra numero di passi pari e numero di passi dispari
Il grafico mostra l’andamento del rapporto p/d.
Si nota come il numero di passi pari e quello dei passi dispari siano correlati: se la sequenza arriva ad 1, i primi devono compensare in diminuzione l’effetto dei secondi in aumento. 

Grafico 1.9

Grafico 1.9 -  distribuzione del numero di passi pari e del numero di passi dispari
Evidenzia la distribuzione di passi pari e dispari

Grafico 1.10


Grafico 1.10 - stessa lunghezza per 943, 945, 947 e 949

Mette in evidenza un gruppo di numeri dispari consecutivi con la stessa lunghezza di sequenza: 943, 945, 947, 949. Si noti l’ampiezza del viaggio di 943 e come invece 949 proceda piatto.



Ottimizzando la f(n) = 3n + 1 con la relazione "shortcut" f(n) = (3n + 1)/2 e riformulando la congettura di Collatz in campo complesso, vale a dire passando dalla funzione "shortcut" di Collatz a una funzione olomorfa sull'intero piano di Gauss, si ottiene: 

 f(z)=1/4(4z+1−(2z+1)cos(πz)) 

e si ricava il suggestivo frattale di Collatz.

Frattale di Collatz

La procedura di Collatz può essere vista come l’iterazione della funzione, limitata ad argomenti interi. 
Iterando la funzione, si trova che diverge per alcuni valori iniziali di z e converge per altri; colorando i punti del piano complesso in nero, se l’iterazione diverge utilizzando quel punto come valore iniziale e con colori differenti se converge, si ottiene il disegno, riportato nella figura (da Pokipsy76 – English wikipedia, Public Domain),  che ricorda in vari particolari quello dell’insieme di Mandelbrot

Concludendo l'"hailstone sequence" dimostra che parte della bellezza della matematica è data dal fatto che modelli apparentemente semplici portano a domande e teorie molto più complicate ed è l'esempio perfetto di un semplice problema che anche le più grandi menti matematiche del mondo non sono riuscite a risolvere.
Certo non sembra che in termini pratici o applicativi possa portare a nuove scoperte, ma certamente la sua risoluzione potrà essere forse solo determinata, come ipotizzava Erdős, applicando metodi e procedimenti matematici innovativi che oggi sono ancora sconosciuti.
Sorprendentemente il 3 ottobre 2017 Duccio Fanelli, docente del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Firenze e Timoteo Carletti, docente del Dipartimento di Matematica dell’Università di Namur in Belgio, hanno pubblicato, sul Bollettino dell'Unione Matematica Italiana, "Quantifying the degree of average contraction of Collatz orbits", un'analisi della congettura che si propone come tappa di avvicinamento verso la dimostrazione di quanto ipotizzato dal matematico tedesco.....riusciranno nell'impresa? 


Note

¹Per chi volesse approfondire l'argomento suggerirei i seguenti siti 
² Per visualizzare questo numero si tenga presente che 2^60 = 1.152.921.504.606.846.976 da moltiplicare ancora per 87

Fonti

From the book
Iteration of the Number − Theoretic Function f(2n) = n, f(2n + 1) = 3n + 2 di C.J.Everet - Adv.Math (1977)
From website 
https://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Hailstone
https://en.wikipedia.org/wiki/Collatz_conjecture
http://www.unifimagazine.it/dimostrare-la-congettura-collatz/
From the pictures
http://scubatravel.se
http://www.perthscuba.com/galleries/truk-lagoon-micronesia/
http://www.watermanpolyhedron.com/Collatzconjecture.html
http://swimmingthestyx.com/?p=447
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7188269
http://wikipedia.org (alcune immagini sono state rielaborate con PhatoShop)
From the video
Operation Hailstone
https://www.youtube.com/watch?v=kMgIrtq5M4o
Professor David Eisenbud Berkeley University - California
http://www.popularmechanics.com/technology/news/a22246/simple-problem-that-still-stumps-mathematicians/ 


L'albero di Natale perfetto......matematico?

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Questo articolo non vuole certo essere un trattato di matematica sull'albero di Natale, ma solo ricordare curiose e simpatiche formule ideate, da un matematico e da un team di due Università britanniche, per renderlo "perfetto"!
Dato il tema, "matematica festiva" proposto da Mau per questo Carnevale della Matematica #114, mi sono ricordata di aver letto tempo fa di un "albero decisionale" proposto dal Dott. Gordon Hunter, della Kingston University of London, per la scelta dell'albero, e di alcune formule di un team della Britain's University of Sheffield per determinare gli addobbi perfetti.
La matematica avrebbe fornito così una risposta a coloro che si battono per creare l'albero di Natale perfetto.


L’albero di Natale 2017 di 30 m. che Sky ha allestito in piazza Duomo a Milano 
(foto Annalisa Santi)


Il Dott. Gordon Hunter, che lavora nella Facoltà di scienze, ingegneria e informatica dell'Università londinese, ha creato un "albero decisionale per il Natale", basato su un metodo scientifico più comunemente usato per aiutare a risolvere problemi aziendali e personali.
Il dott. Hunter spera che il suo sparkler statistico aiuti le persone a risolvere l'enigma di scegliere il loro albero di Natale ideale, prestando particolare attenzione a fattori chiave come odore, colore, stile e dimensioni (come si vede dall'immagine sono però esclusi o meglio poco considerati gli alberi "finti").
Infatti ha accettato la sfida nel 2013, dopo che gli era stato chiesto se fosse possibile creare un "albero decisionale di Natale" per la catena di centri di giardinaggio Dobbies, leader del settore. 
L'azienda, che ha filiali in tutto il Regno Unito, era desiderosa di aiutare i suoi clienti a trovare una soluzione per i loro "alberi", scegliendo la varietà di pino o abete (abete di Fraser, abete nordico, abete norvegese o abete rosso blu) più adatta ai loro gusti.


Dr. Gordon Hunter (Credit Kingston University London)


Queste le parole di Gordon che hanno sottolineato la sua collaborazione:

"It was an interesting change to be given the opportunity to take a method I use in my research and give it a quirky, seasonal application, accessible to everyone. My Christmas decision tree will hopefully help people decide what type of tree is best for them and their home."

"È stato un cambiamento interessante avere l'opportunità di prendere un metodo che uso nella mia ricerca e dargli una insolita applicazione stagionale, accessibile a tutti. Spero che il mio albero decisionale di Natale aiuterà le persone a decidere quale tipo di albero sia meglio per loro e per la loro casa".


"L'albero delle decisioni di Natale" del Dr. Gordon Hunter (Credit Kingston University London)
Come si legge nell'immagine:
Albero artificiale
Disponibile con un sacco di dimensioni, colori e forme, può adattarsi alle preferenze di tutti, puoi averne uno d'argento alto e scintillante, uno verde tradizionale o uno piccolo. Quello che vuoi! 
Abete di Fraser
Di forma più snella, i suoi rami con aghi morbidi sono adatti per essere meno decorati, dando massima eleganza alla casa e ha un buon profumo di agrumi
Abete Nordico
Con il suo ricco fogliame verde scuro, ha un profumo leggero e foglie morbide, è un albero  ideale per la famiglia!
Abete rosso di Norvegia 
Viene considerato il classico albero di Natale tradizionale con la sua forma piramidale, buon profumo di festa e fogliame verde scuro. 
Per i tradizionalisti o i perfezionisti tra di noi!
Abete Blu
Un albero più largo con un fogliame naturalmente blu. Questo albero si adatta a una miriade di decorazioni favolose!
Vai selvaggio e meraviglioso! Dopo tutto è Natale!

"L'albero delle decisioni di Natale", usato da Hunter, aiuta quindi una persona a trovare una risposta adatta a domande dalle molte sfaccettature.
Contiene infatti domande come "ti piace un albero grande", "ti piace un albero folto?" e "vuoi un albero per sentire anche l'odore del Natale?"...... 
Le risposte si o no portano a domande di follow-up fino a quando non conducono al miglior albero possibile per ognuno.

"Ora, con l'aiuto dell'"albero delle decisioni natalizie", i nostri clienti passeranno meno tempo a rivedere le molte meravigliose varietà disponibili e avranno più tempo per pensare a come farle brillare", ha detto Steve Guy, un 'esperto dell'albero di Natale della catena Dobbies.


Ma anche un'altra sfida, oltre alla scelta dell'albero, è stata accettata dalla Maths Society della Britain's University of Sheffield.
L'Università ha accettato infatti la sfida di trovare una formula che permettesse di decorare un albero in modo tale che albero e addobbi sfarzosi fossero in proporzione armoniosa, risolvendo così il problema di non creare un albero troppo misero o troppo vistoso.
I membri della Sheffield University Maths Society (SUMS) hanno creato una formula "festiva" per garantire il giusto rapporto tra luci, filamenti e palline, per dare all'albero di Natale il look perfetto.

I loro calcoli hanno questo aspetto:



Ecco le formule per stabilire il numero di palline, la lunghezza dei tinsel (lunghi pezzi di materiale sottile e lucido usati come decorazione) e delle luci, nonché l'altezza della stella, angelo o guglia da mettere in cima all'albero:

- Numero di palline = prendi la radice quadrata di 17, dividila per 20 e moltiplicala per l'altezza dell'albero (in centimetri)
- Lunghezza dei tinsel (in centimetri) = considera il numero 13, moltiplicalo per π (3,145....), dividilo per 8 e quindi moltiplicalo per l'altezza dell'albero
- Lunghezza del filo delle luci dell'albero (in centimetri)¹ = prendi π (3,145....) e moltiplicato per l' altezza dell'albero
- Altezza (in centimetri) di stella o angelo sopra l'albero = prendi l'altezza dell'albero e dividila per 10

nota¹ Non è stata chiarita la densità delle luci sul filo, ma si potrebbe ipotizzare una densità dalle 4 alle 10 luci per metro in base anche alla loro luminosità (se a led o no)

Per essere più chiari consideriamo, ad esempio, un albero di Natale di 180 cm. e, aiutandoci con una semplice calcolatrice o con la soluzione immediata che si trova sul sito , potremmo calcolarne gli addobbi.  
Per questo albero ci vorranno quindi 37 palline, circa 919 cm di tinsel (30 piedi), 565 cm (19 piedi) di luci e una stella o angelo di 18 cm (sette pollici) e così, come sostiene l'Università, l'aspetto sarà perfetto!

Numero di palline
 √17 = 4,123 
4,123 : 20 = 0,206
0,206 x 180 = 37,10 -> 37 

Lunghezza dei tinsel
13 x π (3,145...) = 40,84
40,84 : 8 = 5,10
5,10 x 180 = 918,91 -> 919 cm.

Lunghezza delle luci
π (3,145...) x 180 = 565,48 -> 565 cm.

Altezza stella o angelo o guglia
180 : 10 = 18 cm.

Albero 180 cm. e addobbo perfetto calcolato al sito sheffield


Ha suscitato particolarmente il mio interesse, o forse meglio dire la mia curiosità, nella formula per calcolare la lunghezza dei tinsel, il fattore 13/8. 
Non ho trovato file che spiegassero in dettaglio come siano state trovate queste formule, quindi non so se sia stato intenzionale o no, ma è interessante osservare che 8 e 13 sono numeri consecutivi di Fibonacci
Perché questo è interessante? 
Perché la sequenza di Fibonacci è strettamente correlata alle spirali e, solitamente, i tilsen si dispongono appunto a spirale. 
In particolare questa cosa la si vede anche in natura e se, per esempio, si guardano le spirali su un ananas, le spirali che vanno in una direzione potrebbero essere 13 e il numero nella direzione opposta potrebbe essere 8. O i numeri potrebbero essere 21 a sinistra e 13 a destra.... Il fatto è che i numeri delle spirali dell'ananas sono sempre numeri consecutivi di Fibonacci (o talvolta numeri di Lucas). 
E si nota lo stesso effetto su altre cose, come le spirali di semi nella testa di un girasole, o i semi su una fragola, o le spirali su una pigna, o un cavolfiore, o ogni sorta di cose. 
Bisogna quindi proprio dedurre che i tinsel per un albero di Natale debbano formare spirali di Fibonacci? 

Albero a spirale

Ma saranno poi davvero attendibili queste formule?

Per inciso vorrei ricordare che la Britain's University of Sheffield, con circa 26.000 studenti provenienti da 125 paesi, è una delle principali e più grandi università del Regno Unito. Membro del gruppo Russell, ha una reputazione per l'insegnamento di livello mondiale e l'eccellenza della ricerca in una vasta gamma di discipline. 
L'Università di Sheffield è stata nominata University of the Year ai Times Higher Education Awards 2011 per le sue eccezionali prestazioni in termini di ricerca, insegnamento, accesso e prestazioni aziendali. Inoltre, l'Università ha vinto quattro Queen's Anniversary Prizes (1998, 2000, 2002 e 2007).
Questi premi prestigiosi riconoscono il contributo eccezionale delle università e dei college alla vita intellettuale, economica, culturale e sociale del Regno Unito. 
Sheffield vanta anche cinque vincitori del premio Nobel tra ex dipendenti e studenti e molti dei suoi alunni hanno ricoperto posizioni di grande responsabilità e influenza in tutto il mondo. 
I partner e i clienti di ricerca dell'università includono Boeing, Rolls-Royce, Unilever, Boots, AstraZeneca, GSK, ICI, Slazenger e molti altri nomi di famiglia, oltre a agenzie governative e di enti governativi oltreoceano e d'oltremare e fondazioni di beneficenza.
L'Università ha partnership consolidate con un certo numero di università e grandi aziende, sia nel Regno Unito che all'estero. La sua partnership con le università di Leeds e York nel consorzio White Rose ha un potere di ricerca combinato superiore a quello di Oxford o Cambridge.
Queste equazioni sono state create da due ex studenti e membri di SUMS alcuni anni fa, commissionate dal grande magazzino Debenhams, e sono equazioni facili, facili fatte anche per coinvolgere simpaticamente le persone alla matematica.


Accensione del 6 dicembre dell’albero di Natale 2017 allestito in piazza Duomo a Milano 
(foto Annalisa Santi)

Restando in tema e parlando di Università, desidero ricordare l'iniziativa milanese, legata al grande albero di Natale di piazza Duomo a Milano, che vede una collaborazione tra Sky Academy e il Politecnico di Milano - Scuola e Dipartimento di Design. 
Non si tratta di formule matematiche in questo caso, ma di un’attività che ha come obiettivo comune quello di sviluppare la cultura dell’innovazione e della sostenibilità, a cui parteciperanno circa 50 giovani designer supportati dai docenti.
Per le prossime festività natalizie infatti Sky Italia – grazie al supporto operativo di Live di IGPDecaux e con l’agenzia di promo&activation Integer - rende omaggio alla città di Milano con un dono molto speciale. 
Dal 6 dicembre al 7 gennaio è infatti possibile ammirare, in piazza Duomo, un maestoso albero di Natale, scelto nel pieno rispetto dell’ambiente. 
L’abete rosso, selezionato in collaborazione con il Corpo Forestale del Trentino Alto-Adige (non credo con "l'albero decisionale" del Dott. Gordon Hunter) , era infatti già destinato all’abbattimento, poiché superiore all’altezza massima consentita per garantire la sicurezza delle strade poste nelle vicinanze. 
L’albero di Natale che Sky ha allestito in piazza Duomo a Milano ha un’altezza imponente di oltre 30 metri ed è l’albero più alto di sempre per il Natale della piazza milanese più famosa.


Accensione del 6 dicembre dell’albero di Natale 2017 , allestito in 
piazza Duomo a Milano (foto Annalisa Santi)


Ma vediamo se è perfetto?

Secondo le formule, avendo un'altezza di 30 metri (3000 cm.), dovrebbe infatti essere adornato con:
618 palle
15315 cm. di tinsel (fili lucenti)
9425 cm. di fili di luci
e sulla sommità con una stella (o angelo) di 3 metri (300 cm)
L’accensione è avvenuta mercoledì 6 dicembre, alla vigilia della festa patronale milanese di Sant’Ambrogio, e ha dato il via ufficiale al periodo natalizio della città di Milano. 
Per tutto il periodo delle feste, l’albero illuminerà l’intera piazza, grazie a 100.000 luci led (il massimo previsto dal bando pubblico che non credo proprio corrispondano ai circa 94 metri previsti dalla formula) di colore bianco caldo, rispettando la tradizione dell’albero di Natale e la sua eleganza, con un effetto di intermittenza per rendere ancora più scenico l’impianto sia di giorno che di notte. 
Di colore bianco sono anche le oltre 700 palline natalizie (e qui ci avviciniamo alle previste 618), in parte lucide e in parte opache, che riflettono la luce dei led, amplificandola ulteriormente senza creare al contempo un elemento di disturbo.
Gli addobbi e le decorazioni dell’albero di Natale sono stati previsti nel pieno rispetto delle normative vigenti e in piena sintonia con l’attenzione alle tematiche ambientali. 
Quindi un responsabile utilizzo della plastica con cui sono realizzate le palle natalizie (in linea con la campagna del gruppo “Sky Ocean Rescue – Un mare da salvare”) e con il riutilizzo delle stringhe a led che verranno riconsegnate ai fornitori dopo l’utilizzo nel periodo natalizio.
Quando, al termine delle festività natalizie, l’albero sarà spento e dismesso, Sky si impegna a coordinare le attività per il riutilizzo dell’albero stesso, con un progetto per la realizzazione di arredi urbani di pubblica utilità, grazie alla preziosa collaborazione, di cui dicevo, tra Sky Academy e il Politecnico di Milano - Scuola e Dipartimento di Design. 
Un’apposita giuria, composta da referenti Sky Academy e del Politecnico di Milano, selezionerà l’idea migliore, che verrà realizzata nella fase successiva del progetto, che prevede, infatti, un workshop pratico per la trasformazione fisica del legno dell’albero di Natale in arredi urbani da collocare sul territorio milanese.

L'"imperfetto" ma "sessantennale" Albero di Natale allestito,
come da tradizione, a Sant'Ambrogio il 7 dicembre 2017

(foto Annalisa Santi)

In conclusione esiste la possibilità di creare un albero "ideale" e  davvero perfetto?
Sicuramente l'albero perfetto è una questione di preferenze personali, e in questo senso non può essere definito da un insieme di regole matematiche. 
Il mio, che viene fatto dal 1956 (lo comprò mio padre tra i primi "finti"), sarà certamente imperfetto, anzi forse decisamente misero come fogliame, ma troppo ridondante di addobbi, molti ancora dell'epoca, quindi sicuramente molto kitsch. 
Ma è adornato con tutte le palline, le decorazioni e le luci accumulate in 60 anni, almeno con quelle che non sono state perse o rotte, e sicuramente per me è sempre un ricordo meraviglioso che non avrebbe eguali di perfezione.....nemmeno con la "matematica"!!!! 




Einstein, genio assoluto o relativo?

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Mi è capitato di assistere a teatro a un monologo, interpretato dall'attrice Gabriella Greison, laureata in fisica, scrittrice e giornalista,  dal titolo "1927 Monologo Quantistico", che voleva essere un'introduzione ai "misteri" della Fisica Quantistica partendo dalla famosa foto, datata 29 ottobre 1927, in cui sono ritratti in posa 29 scienziati, quasi tutti fisici e uomini tranne Maria Curie, di cui 17 erano o sarebbero diventati Premi Nobel.
Avevano partecipato a Bruxelles alla quinta edizione della Conferenza Solvay,  che Einstein chiamò "Witches’Sabbath" (il convegno delle streghe), uno dei convegni voluti dall’industriale belga Ernest Solvay per fare il punto sui progressi della fisica.


Institut International de Physique Solvay, Leopold Park - Bruxelles 
Quinta conferenza Solvay 29 ottobre 1927. 
In piedi, in terza fila:
Nella fila centrale: 
Seduti davanti: 
Partendo da questa foto storica e dalla cena che ne seguì, Gabriella Greison, conduce lo spettatore a quella tavola, tra porcellane finissime e luci sfavillanti, camerieri compassati e ottimo cibo, facendogli ascoltare le chiacchiere che si intrecciano da una sedia all’altra, tra cui l’acerrima discussione sulla fisica quantistica tra Albert Einstein e Niels Bohrpunto cruciale nella storia della disciplina di quell'anno. 
E così, tra una portata e l’altra, cerca di trasmettere e far capire concetti complessi, facendoli ascoltare anche direttamente dalla "voce" di chi li ha ideati.
All'interno del monologo, molto spazio è stato dato alla figura di Albert Einstein, anche se, come detto, lo scienziato non amasse la fisica quantistica, anzi, secondo lui, prendere seriamente la teoria quantistica significava negare l’esistenza di un mondo fisico reale indipendente dall’osservazione. 
Questo spazio biografico, dedicato al grande scienziato,  purtroppo è stato caratterizzato solo da banali aneddoti o episodi dei sui soggiorni europei e americani, senza far minimamente cenno al soggiorno italiano (ricco di interessanti aneddoti o curiosità) o a quegli studiosi italiani (ma non solo) che sicuramente hanno avuto grande peso e importanza nella stesura della sua più importante Teoria, quella della Relatività.





Uno di questi fu senz'altro Tullio Levi-Civita (1873-1941), uno dei più grandi matematici mondiali del Novecento, personalmente ringraziato da Einstein per avergli fornito nel corso di lunghi carteggi lo strumento matematico indispensabile a dimostrare la Teoria della Relatività e che diventerà la struttura matematica dell’intera teoria.
Un giorno fu chiesto ad Albert Einstein, ormai un mito della scienza, cosa amasse dell’Italia ed egli con la sua proverbiale ironia rispose :
"Spaghetti and Levi-Civita"
In un intenso scambio epistolare, avvenuto nella primavera del 1915, Levi-Civita condivise con Einstein il calcolo differenziale assoluto, che aveva sviluppato all’inizio del Novecento con il suo maestro, e grandissimo matematico a sua volta, Gregorio Ricci Curbastro (1853-1925). 
Le capacità matematiche dell’italiano erano assai invidiate da Einstein che in una lettera del 1917 gli scrisse: 
"Ammiro il Suo metodo di calcolo. Deve essere bello cavalcare sul cavallo della vera matematica attraverso questi campi, mentre uno come me deve accontentarsi di procedere a piedi".
Il rapporto scientifico tra Einstein e Levi-Civita era destinato a durare nel tempo e nel 1936 si incontrarono un’ultima volta, frequentandosi per sei mesi, a Princeton. 
Testimone di quel loro incontro fu il fisico Leopold Infeld (1898-1968) che in quegli anni collaborava con Einstein e che nella sua biografia darà un divertente resoconto che tratteggia le personalità di questi due grandi scienziati (Leopold Infeld - "Albert Einstein" - Giulio Einaudi - Torino 1952).
Levi-Civita si occupò a lungo di relatività e fu uno dei propugnatori della teoria relativistica in Italia, anche se si era per così dire convertito alle nuove idee relativistiche, dopo un inizio non certo favorevole ad esse, che aveva addirittura definite un "baraccamento provvisorio".



Albert Einstein tiene a Bologna una serie di conferenze sulla relatività. 
E' invitato dal professore e grande matematico Federigo Enriques, insieme ad altri scienziati, 
a nome di un comitato cittadino che opera per la divulgazione scientifica. 
Le conferenze si tengono il 22, 24 e 26 ottobre 1921 nell'aula dello Stabat Mater dell'Archiginnasio

Fu comunque anche l’autore della Prefazione alla prima opera di Einstein tradotta in italiano, "Sulla teoria speciale e generale della relatività" .
Il volume fu pubblicato nel 1921 da Zanichelli in occasione delle tre conferenze divulgative che Einstein tenne a Bologna, in perfetto italiano, invitato dal grande matematico professor Federico Enriques
In quell’occasione i quotidiani italiani diedero ampio spazio all’avvenimento pubblicando articoli pro e contro la nuova teoria, anche se soprattutto l'influenza del grande studioso Levi-Civita trascinò con sé gran parte dell'ambiente fisico-matematico italiano.
Va ricordato anche il fatto, proprio di quell'anno, della discussa assegnazione del Nobel per la Fisica.
Sebbene il nome di Einstein fosse già comparso regolarmente, sin dal 1910, tra le "nomination” che il Comitato riceveva (e riceve) da un selezionato pool di studiosi di tutto il mondo, tuttavia, in quell’epoca di forti passioni e contrasti, sistematicamente alcuni membri del Comitato si opposero ad ogni tentativo di concedere il riconoscimento ad Einstein, soprattutto per la loro forte predilezione verso gli aspetti sperimentali che li portava a considerare la Teoria della Relatività troppo speculativa anzi perfino “filosofica”.
Riuscì a sbloccare la situazione il fisico svedese Carl Wilhelm Oseen, che propose di premiare Einstein nel 1922, con il premio non assegnato nel 1921, ma non per la Teoria della Relatività, bensì per la scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico.
Per inciso non si dovrebbe sottovalutare l'apporto alla stesura della teoria dell'effetto fotoelettrico, dato anche dal grande Hendrik Antoon Lorentz, fisico famoso per le sue ricerche sull'elettromagnetismo (in particolare con la Forza di Lorentz) e l'elettrodinamica.
Alcuni suoi contributi importanti come le trasformazioni di Lorentz (e alcune ipotesi sulla contrazione dei corpi in movimento) furono utilizzate dallo stesso Einstein per la descrizione dello spazio e del tempo nella formulazione della relatività ristretta (TRR).
"La gente non si rende conto di quale grande influenza abbia avuto Lorentz sullo sviluppo della fisica. Non possiamo immaginare come sarebbe andata se egli non avesse dato tanti contributi impareggiabili"
Così infatti disse Einstein che, senza le sue equazioni, non avrebbe forse mai formulato con completezza e coerenza matematica la TRR. 
Comunque Einstein ricevette la notizia dell'assegnazione del Nobel nel novembre del 1922, ormai in viaggio verso il Giappone e non riuscì a partecipare alla tradizionale cerimonia che si svolse (come avviene ancora oggi) a Stoccolma il 10 dicembre, anniversario della morte del fondatore Alfred Nobel.

Foto pubblicata per la prima volta nel 2011 - Einstein ed Elsa visitano il Giappone, nel 1922.
Il matrimonio con Elsa, che era sua cugina di primo grado, fu più un’unione di convenienza che un incontro di anime
(dopo il divorzio dalla prima moglie Mileva Marić.
Lontana dal mondo intellettuale del consorte, Elsa lo accudiva quasi come fosse un bambino, risparmiandogli le noie quotidiane, tollerando le sue non poche infedeltà e, con un ottimo inglese assai migliore di quello del marito, contribuì, nei rapporti con i media, a consolidarne l'immagine e la fama.
    
Altro contributo notevole fu sicuramente quello di Michele Angelo Besso (1873–1955), un ingegnere svizzero di origine ebraico-italiana (sefardita) che lavorò, nello stesso ufficio brevetti di Berna, con Albert Einstein e ne divenne amico intimo, confidente, e sostenitore, tanto che il grande fisico lo ebbe a definire come "la migliore cassa di risonanza in Europa"
E quando Einstein si trasferì a Zurigo e poi a Berlino i due studiosi continuarono ad incontrarsi spesso e mantennero una vivace corrispondenza.
Lo storico articolo di Einstein "Zur Elektrodynamik bewegter Körper"- "Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento", nel quale espose la teoria ora conosciuta come "relatività ristretta" (TRR), fu per allora un lavoro scientifico decisamente insolito, in quanto non riportava i normali riferimenti alla letteratura della fisica teorica, ma a cui contribuì notevolmente anche l'amico Michele Besso.
L'unica persona infatti a cui diede credito di aver contribuito al lavoro del 1905 fu proprio Michele Besso, che Einstein ringraziò scrivendo: 
"... concludendo, tengo a dire che l'amico e collega Michele Besso mi ha costantemente prestato la sua preziosa collaborazione mentre lavoravo a questo argomento, e che gli sono debitore di parecchi interessanti suggerimenti".
Quanto siano stati solo suggerimenti o capitoli importanti forse non ne avremo mai conferma ma sta di fatto che nel 1913 Einstein e Besso collaborano a quello che è considerato il primo tentativo di stesura della "relatività generale" (manoscritto attualmente conservato al Musée des Lettres et Manuscrits di Parigi), priva tuttavia del necessario formalismo tensoriale di cui Einstein si sarebbe servito due anni più tardi, con la collaborazione dell'amico e matematico, nonché loro compagno di studi universitari, Marcel Grossmann, per la definitiva e corretta stesura della teoria (TRG). 
Il manoscritto, che si sofferma in particolare sulla possibile soluzione al problema della precessione del perielio dell'orbita di Mercurio, uno dei punti di inconsistenza storicamente più rilevanti nella classica teoria newtoniana della gravitazione, mostra come, in questo caso, Besso ebbe un ruolo molto maggiore di "una cassa di risonanza".
Verso la fine della sua vita, Einstein ricevette una lettera dalla moglie del suo amico Michele Besso, che stava in Svizzera. Lei scrisse: 
"Sai, tu e Michele eravate amici a Berna, e Michele ha così tanto talento, come mai non ha mai realizzato niente?"
E Einstein rispose: 
"Ma naturalmente perché lui è un uomo buono!" 
Buono in che senso? A cosa si sarà mai riferito?


Mileva Maric e Albert Einstein
Si sposarono nel 1903 e divorziarono nel 1919

Un altro punto interrogativo legato alla Teoria della Relatività Ristretta è l'apporto della prima moglie.
Sempre in quel periodo e sempre in Svizzera, al Politecnico di Zurigo, Albert incontrò Mileva Maric, unica donna ammessa al corso tutto maschile di fisica e matematica, che poi sposò nel 1903. 
Mileva, di origine serba, era dotata di una intelligenza superiore, cosa che non veniva perdonata alle donne dell’epoca e Einstein la chiamava "monello" per la sua irrefrenabile vivacità, tanto da avere con lei infinite discussioni. 
Si confrontavano e punzecchiavano sulla velocità della luce in rapporto al moto della sorgente che la genera e sulla dinamica dei gas, dalla quale lei era stregata. 
Si pensa che Mileva abbia contribuito largamente, insieme a Michele Besso, alla stesura della TRR, che Einstein pubblicò due anni dopo il matrimonio. Nel testo, Einstein non fa alcun accenno alla moglie, forse perché il contributo di una donna avrebbe sminuito, nella bigotta società del primo ’900, il valore della scoperta. 
La comunità scientifica respinge l’idea che Mileva abbia avuto un ruolo significativo nella TRR, ma c’è un episodio che sembrerebbe confermarlo. Quando divorziarono nel 1919, Einstein accettò di inserire nella clausole della separazione l’impegno che, se avesse vinto il Nobel, avrebbe versato l’importo del premio sul conto svizzero della ex moglie. Lo vinse nel 1921, ma pare che investì ogni dollaro in bond di New York perdendo tutto nella crisi del ’29. 


A confronto la formula rispettivamente attribuita ad Einstein e a De Pretto.
La formula potrebbe essere attribuita anche S. Tolver Preston (1875) o a Jules Henri Poincaré (1900).....
Einstein era ben lungi dall'essere l'unica persona che contribuì allo sviluppo della teoria della relatività
Quanto Einstein abbia effettivamente tratto dal lavoro di Hendrik Lorentz, Henri Poincare, David Hilbert.....
nel formulare la teoria della relatività rimane controverso.

Altro contributo, molto più discusso, e che, al momento attuale, non può essere presentato che a livello di congettura, è quello del suo contemporaneo agronomo veneto Olinto De Pretto (nato a Schio VC nel 1857 vedi qui pag 87), uomo di cultura e appassionato di fisica e geologia. 
Dato che non è ancora dimostrabile, e mai forse lo sarà, se Albert Einstein abbia letto il lavoro di Olinto De Pretto e se, soprattutto, ne abbia tratto ispirazione, forse l'unica strada praticabile è quella di concentrare le attenzioni ancora sulla figura di Michele Besso che, come detto, era amico di Einstein, ma anche collegabile a De Pretto. 
D'altra parte Einstein conosceva e parlava molto bene l'italiano, come si constata dalle molte lettere, sia conservate all'Università di Pavia che negli archivi, o dai documenti delle conferenze che tenne nella nostra lingua.
Nel giugno 1894 infatti il papà di Einstein, Hermann, si trasferì per lavoro in Italia con la famiglia, prima a Milano dove avviò una fabbrica elettromeccanica lungo il Naviglio, poi a Pavia. 
Albert raggiunse la famiglia nel 1895 e passò giorni felici a Pavia e Casteggio con l'amica "del cuore" Ernestina Marangoni e dove imparò molto bene l'italiano.
Durante questo periodo, Albert venne anche incoraggiato a frequentare la fabbrica paterna, le "Officine Einstein-Garrone", per la produzione di dinamo e macchinari elettrici, di via Lecchi, nella zona del Naviglio Pavese e a interessarsi delle macchine elettriche, stesso campo d'interesse di De Pretto che collaborava con l'industria di famiglia, la Fonderia De Pretto, che era tra le poche aziende italiane a produrre a sua volta energia elettrica.
Nella Fonderia, Silvio De Pretto era coadiuvato dai fratelli Alessandro, perito chimico e Francesco, ingegnere, e nel 1886, dopo circa sette anni di assistentato alla Scuola Superiore di Agricoltura di Milano, presso il Prof. Cantoni (che morirà nel 1887), entrò nella Fonderia anche Olinto De Pretto, in qualità di Direttore Amministrativo, carica che terrà fino alla fusione della De Pretto con la Escher Wyss. 
Sempre a questo periodo risale la conoscenza di Einstein con Michele Besso a sua volta in contatto con le industrie elettriche.
L'amicizia di Michele Besso con Einstein, che andò del resto ben oltre il periodo giovanile di Zurigo, data dal 1896, anno nel quale Albert Einstein si iscrisse al Politecnico di Zurigo, città nella quale si era recato anche il Besso a completare i suoi studi sin dal 1891, dopo avere iniziato a studiare Scienze fisico-matematiche presso l'Università di Roma.
Divenuto ingegnere, il Besso restò alcuni anni in Svizzera, per poi andare a lavorare (1899) proprio a Milano presso la "Società per lo sviluppo delle Industrie elettriche in Italia".
Né bisognerebbe trascurare, ancora a proposito del legame De Pretto-Besso-Svizzera-Einstein, il fatto che Einstein era, prima di diventare il fisico più famoso del mondo, soltanto un "oscuro impiegato dell'Ufficio dei brevetti di Berna" e che la famiglia De Pretto era stata depositaria di brevetti internazionali relativi alle proprie attività. 
Molte altre circostanze, segnalate nel libro "Albert Einstein e Olinto De Pretto-La vera storia della formula più famosa del mondo", che qui non riporto per esteso ma lascio alla curiosità del lettore, dimostrano la possibilità oggettiva che uno spunto, forse non marginale, al lavoro di Albert Einstein sia venuto, anche per il tramite di Michele Besso, proprio dal dimenticato agronomo italiano, anche se paradossalmente tale suggerimento sia stato fornito ad Einstein da una serie di considerazioni teoretiche tutte assolutamente inaccettabili nella sua ottica.

Olinto De Pretto precursore di Einstein

Erano infatti teorie fondate su ipotesi relative alla struttura dell'etere, proprio quella elusiva "sostanza" che il lavoro di Einstein cercava al contrario di dichiarare "superflua", e di eliminare, cosa che poi di fatto avvenne, dal panorama della fisica. 
Riguardo alla teoria di De Pretto si tratta infatti di elementi formali, non decisivi, dato che il concetto di etere non è applicato alla teoria della relatività, ma di sicuro la frase che compare nel lavoro di De Pretto del 1904 (un anno prima della pubblicazione di Einstein negli Annalen der Physik dei suoi due celebri lavori) è esplicativa al riguardo: 
"La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle" ... "La formula mv2 ci dà la forza viva e la formula mv 2/8338 ci dà, espressa in calorie,  tale energia. Dato adunque m=l e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni".
(vedi "Albert Einstein e Olinto de Pretto - La vera storia della formula più famosa del mondodi Umberto Bartocci, con il testo integrale dell'opera di Olinto de Pretto "Ipotesi 
dell'etere nella vita dell'universo" che il 27 febbraio 1904, venne ufficialmente pubblicato insieme a una lettera di consenso del 16 giugno 1903 dell'Illustre Astronomo Giovanni Schiaparelli)


Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 
Anno Accademico 1903-1904

Va anche ricordato che nel 1906 De Pretto fu accolto quale membro della Accademia dei Lincei. 
Il suo direttore, Ernesto Mancini, che era anche membro della Royal Society di Londra, presentò al comitato scientifico di questa organizzazione i documenti di De Pretto chiedendone il riconoscimento internazionale. 
Il testo, "Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo", venne accolto con favore dalla Royal Society ed inserito nel suo "Catalogo internazionale della letteratura scientifica".



Annalen der Physik  pubblicati da Albert Einstein nel 1905

La scienza comunque sembra non voler accettare che De Pretto, un oscuro agronomo vicentino, forse abbia ispirato il grande scienziato.
Con questo interrogativo, ma con la certezza che grandi apporti alle teorie di Einstein abbiano dato altrettante grandi menti, tra cui sicuramente Levi-Civita e Besso, ma non solo, concludo queste mie considerazioni, nate dall'ascolto di quel monologo a teatro che per nulla ha messo in risalto luoghi e personaggi che sicuramente hanno profondamente contribuito alla crescita e, di conseguenza, alla fama di Albert Einstein. 




Fonti

From the book
"L’opera di Einstein" di Gabriele Corbo - 1989
"Il genio e il gentiluomo. Einstein e il matematico italiano che salvò la teoria della relatività generale" di Fabio Toscano - Sironi, Collana Galápagos, 2004
"Le due Relatività - Gli articoli del 1905 E 1916" di Albert Einstein - traduzione di Aldo M. Pratelli ed Ermanno Sagittario
"Einstein parla italiano - Itinerari e polemiche" a cura di S. Linguerri e R. Simili - Pendragon, 2008
"Albert Einstein" di Leopold Infeld - Giulio Einaudi - Torino 1952
"Albert Einstein e Olinto de Pretto - La vera storia della formula più famosa del mondo" di Umberto Bartocci - Bologna, Andromeda, 1999
From website
Digital Einstein - Archivio lettere Einstein
http://www.alberteinstein.info/database.html
http://www.fembio.org/english/biography.php/woman/biography/mileva-maric-einstein/
http://zibalsc.blogspot.it/2014/08/160-unostinata-illusione.html
https://www.nobelprize.org/educational/physics/relativity/history-1.html
http://www.wikipedia.com
From the pictures
https://www.focus.it/scienza/scienze/teoria-della-relativita-100-anni-einstein?gimg=58544#einstein-inedito&img58544 
http://www.wikipedia.com

Le Corbusier e la matematica

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Whatsapp è davvero una grande invenzione e proprio con questo velocissimo sistema di connessione mi sono arrivate, in tempo reale, delle foto fatte da un amico a Marsiglia e, tra queste, quelle della "Cité Radieuse" del grande genio dell'Architettura Le Corbusier.
Perché parlarne in un blog dedicato essenzialmente alla matematica e non all'architettura?
Perché la matematica in fondo ha condizionato tutto il suo lavoro e nonostante il suo rapporto con la matematica non fosse dei migliori, almeno sotto l'aspetto formale, furono proprio i rapporti proporzionali e la geometria a dare alle sue creazioni l'armonia, la sobrietà e l'eleganza che le contraddistinguono. 


Marsiglia - © Annalisa Santi 2018

Non sono certo io la prima a fare queste considerazioni e il tema della visione matematica e geometrica nell'opera di Le Corbusier ha dato spunto a tesi di laurea, libri di divulgazione o scientifici fin dai primi anni della sua produzione.
Ma andiamo per gradi e, ricordando che tra il 2016 e il 2017 diciassette delle sue opere sono state aggiunte alla lista dei siti patrimonio dell’umanità dell'UNESCO con la motivazione "una testimonianza dell'invenzione di un nuovo linguaggio architettonico che segna una rottura con il passato", introduco alcune note biografiche del grande innovatore.
Parafrasando Don Abbondio "Le Corbusier chi era costui?"


Le Corbusier su una Fiat 508 S del 1934, più conosciuta come Balilla Coppa d’oro, carrozzeria disegnata
 da Mario Revelli, in cima al Lingotto Fiat di Torino (foto 1934) - © FLC-ADAGP

In effetti sotto questo pseudonimo (talvolta noto anche semplicemente come Corbu, tanto che con tale storpiatura, complice un gioco di parole con la parola corvo, in francese corbeau, usava firmare le sue lettere informali) si cela Charles Edouard Jeanneret Gris, nato in svizzera a La Chaux de Fonds (una delle capitali mondiali dell’orologeria) il 6 ottobre 1887 e morto a Roquebrune - Cap Martin il 27 agosto 1965 (dove si era rifugiato nel suo essenziale “cabanon” meno di dieci metri quadrati), "architetto", urbanista, pittore e designer, nonché scrittore svizzero naturalizzato francese.
Di sue biografie ne sono state scritte e se ne trovano a migliaia, qui ricordo molto sinteticamente solo alcuni momenti che ritengo essenziali e significativi per darne una efficace seppur sommaria visione.


Le Corbusier in cima al Lingotto Fiat di Torino (foto 1934) - © FLC-ADAGP

Perché "architetto" virgolettato?
Perché questo personaggio che ha rivoluzionato l’Architettura dal ‘900 in poi, non ha mai conseguito la laurea....e se ne vantava!
"Si je suis aujourd’hui un architecte possible, c’est que ma formation n’a pas été celle d’un architecte"
Anche se mi sembra giusto ricordare che una Laurea Honoris Causa in Architettura gli fu conferita in tarda età dall'Università di Firenze, il 7 giugno 1963.
Indirizzato all’arte e alla creatività dal padre orologiaio e dalla madre insegnante di musica, nel 1899 si iscrive alla Ecole Industrielle, ma segue anche dei corsi serali in preparazione all'esame d'accesso alla Ecole d'Art. Superato questo esame nel 1902, viene ammesso alla sezione di incisione ornamentale, dove impara la decorazione delle casse d'orologio, che frequenta dall'aprile del 1902 al giugno del 1905.
Questa sua abilità nella decorazione delle casse d'orologio è documentata anche dal diploma d’onore che ottenne per un suo orologio cesellato presentato all’Esposizione Universale di Torino nel 1902. 


Orologio 1902  e Vintage 1945 Le Corbusier 
In omaggio alla carriera di Le Corbusier come scultore e incisore, Girard-Perregaux ha dedicato questo orologio con il quadrante in madreperla, lavorata artigianalmente e montato su di una struttura di oro rosa a 18 carati - Prezzo 53.200 $ - © Annalisa Santi

Un orologio che rappresenta un grande esempio di stile e decorazione, con tratti riconducibili allo stile dell’Art Nouveau francese e tedesco, in cui si fondono, cesellati al "feroce" (come lui lo definiva) bulino, elementi geometrici con quelli naturalistici, derivati anche dal fatto che la sua formazione fu seguita da Charles L'Eplattenier, che gli trasmise certamente il suo forte legame con il decorativismo dell'Art Nouveau.
Curioso il modo in cui, alla scuola d’arte, il pittore e architetto Charles L’Eplattenier, soleva tenere le sue lezioni. Faceva passeggiare gli studenti per i boschi del Massiccio del Giura e li esortava a disegnare tutto ciò che osservavano. 
Le Corbusier riempì così migliaia di pagine di schizzi e disegni, che poi saranno le basi delle idee per i suoi progetti futuri.
Il suo primo progetto nacque dalla collaborazione con l’architetto René Chapallaz per la realizzazione di Villa Fallet e, grazie al denaro guadagnato, dal 1906 incominciò a viaggiare per l'Europa.
Viaggi che sicuramente contribuirono alla sua formazione e in cui Le Corbusier rimase affascinato dal rinascimento e dal barocco italiano, da città come Praga, Vienna, Budapest ed Atene e dove incontrò anche progettisti di rilievo come Walter Gropius, Mies van der Rohe, Tony Garnier da cui, con le sue proposte di una Cité Industrielle, deriveranno le sue idee urbanistiche e "sociali", e  Adolf Loos, l’autore di “Ornamento e Delitto” il propugnatore del Raumplan (casa con la spazialità interna sfalsata su vari livelli) che ispirerà la sua Unité d'Habitation.


Le Corbusier, Chiesa del Redentore alla Giudecca, Venezia. Dall’Album La Roche, 1924 - © FLC-ADAGP

Come ricordato non era laureato e per la realizzazione dei suoi progetti si avvalse sempre di  studi di architettura con validi architetti e ingegneri.
Nel 1917 si stabilisce a Parigi e, lavorando per l’architetto Auguste Perret, celebre per la ricostruzione del centro di Le Havre, oggi anch'esso patrimonio dell’UNESCO, che gli trasmette la passione per il cemento armato, avviene la svolta che, con un cammino faticoso ma inarrestabile, lo farà divenire il personaggio simbolo del Movimento Moderno
Durante questa fase di apprendistato da Perret, Le Corbusier mostra anche una straordinaria ed inedita attenzione per gli aspetti strutturali dell'architettura e, lavorando sia a Berlino che a Parigi, ebbe modo di approfondire fra l'altro il suo interesse per la pittura moderna e tenne una mostra con Amédée Ozenfant presso la galleria Druet.
Oltre alla pittura, si dedicherà in seguito alla scultura e al design, con la realizzazione di alcuni tra i modelli di sedia più famosi, come la Chaise Longue  o il Grand Confort.


Opere di design di Le Corbusier
© L’Italia di Le Corbusier - MAXXI-Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo 
Roma, 18 ottobre 2012 – 17 febbraio 2013 

Interrotta nel 1920 la collaborazione con Auguste Perret, apre quindi uno studio sempre a Parigi, al 35 di Rue de Sèvres, con il cugino Pierre Jeanneret, dopo un progetto imprenditoriale fallito, e fonda la rivista d'arte "Avant-garde e L'Esprit Nouveau" assieme con Amédée Ozenfant e Paul Dermée, che usa per promuovere le sue teorie in fatto d'arte e le sue iniziative, ed è proprio in questa occasione che nasce lo pseudonimo Le Corbusier¹. 
Nel 1923 pubblica “Vers une Architetture”  il libro d'architettura più importante della prima metà del secolo scorso.
Non solo un testo di architettura ma quasi un proclama politico, un esplosivo manifesto in cui sostiene che l'impegno nel rinnovamento dell'architettura può sostituire la rivoluzione politica, realizzando di fatto la giustizia sociale.
Nel libro tratta di tre dei suoi famosi "cinque punti di una nuova architettura", i pilotis, i tetti-giardino e la finestra a nastro, a cui si aggiungeranno, qualche anno dopo, la facciata libera e la pianta libera. 
Sono i famosi "cinque punti di una nuova architettura" applicati con intenti teorematici in una delle opere più importanti del razionalismo architettonico, Villa Savoye  a Poissy, non lontano da Parigi, costruita tra il 1928 e il 1931, e probabilmente l’edificio più famoso del Movimento Moderno e in particolare del cubismo architettonico:
- i "pilotis", cioè i pilastri che sorreggono un edificio e lo isolano dal terreno
- il "toit terrasse", cioè il tetto a terrazza, con giardino e piscina
- la "fenêtre en longueur" (o finestra a nastro), che taglia la facciata della casa in lunghezza, rendendo l’interno luminosissimo
- la "façade libre", cioè la facciata libera, senza schemi prestabiliti
- la "plan libre", cioè la pianta dell’edificio libera

Villa Savoye tutte le immagini

Sempre in quegli anni scrisse un importante libro sui problemi connessi alla progettazione della città, "La Ville Radiouse", che venne pubblicato nel 1935.
Progetti che realizzerà più tardi dopo essersi trasferito, nel 1946, a New York dove il suo genio innovatore fu definitivamente riconosciuto e dove Le Corbusier avrà modo di sviluppare l'idea dell'Unité d'Habitation, sulla quale stava lavorando appunto da circa 15 anni.  
Tornato a Parigi rivoluzionerà il suo tradizionale atelier e nell'aprile 1947 fonderà l'ATBAT (acronimo per Atelier des Batisseurs), dal quale è escluso il cugino Pierre. 
Altra grande rivoluzione avverrà quando Le Corbusier, nel febbraio del 1951, parte per il suo primo viaggio in India come consulente del Governo del Punjab per la realizzazione della nuova capitale Chandigarh, e sempre in quell'anno è invitato a un convegno a Milano, evento collaterale della Triennale, dove a conclusione della conferenza fu creato un Comitato Internazionale di Studio sulle Proporzioni nelle Arti, che elesse Le Corbusier come presidente. 


Le Corbusier spiega le proporzioni del Modulor durante la IX Triennale di Milan nel 1951 - © FLC-ADAGP

Riceve quindi, nel 1952, la Legione d'Onore nell'occasione dell'inaugurazione della prima Unité d'Habitation, quella di Marsiglia, a cui seguiranno l'inaugurazione della Cappella di Notre-Dame du Haut e del primo edificio del celebre Campidoglio di Chandigarh
Considerata a lungo strana e brutta, oggi la Cité Radieuse è stata rivalutata e ospita una ricchissima attività culturale.
Due anni prima della morte, avvenuta il 27 agosto 1965 a Roquebrune, in Costa Azzurra, colpito da crisi cardiaca mentre stava nuotando in mare, gli verrà conferita la Laurea Honoris Causa in Architettura da parte dell'Università di Firenze.


Le Corbusier sul tetto del cantiere dell'Unité d'Habitation de Marseille, 1947 © FLC/ADAGP 
Tetto dell'Unité d'Habitation de Marseille, 2018 © Annalisa Santi 2018

Insomma condensare una bibliografia di un così poliedrico genio in poche righe è davvero ardua impresa e di tantissimi altri progetti e realizzazioni si dovrebbe parlare, che lascio invece alla curiosità del lettore (Fondation Le Corbusier). 
Qui, come detto, mi soffermerò sull'aspetto "matematico" legato fortemente alla sua opera e soprattutto al Modulor e all'Unité d'Habitation.

Il Modulor
Le due scale, rossa e blu, del Modulor di Le Corbusier dove i numeri sono espressi in millimetri

Il Modulor è per Le Corbusier 

"Una gamma di misure armoniose per soddisfare la dimensione umana, applicabile universalmente all'architettura e alle cose meccaniche"

Idea molto simile a quella di Protagora (filosofo greco del V secolo a.C.) secondo il quale "l’uomo è la misura di tutte le cose", con queste parole Le Corbusier definisce il Modulor, un’unità di 226 centimetri alla quale dedica “Le Modulor” pubblicato nel 1948 e “Modulor 2” nel 1955.
Le Corbusier menziona in "Le Modulor" le antiche misurazioni relative al corpo umano, quando evocava gli "strumenti" usati dai costruttori egiziani, caldeani o greci:

"....erano eterni e duraturi, preziosi perché erano collegati alla persona umana. I nomi di questi strumenti erano: gomito (cubito), dito (cifra), pollice (pollice), piede, passo e così via. 
Diciamolo subito: formavano parte integrante del corpo umano, e per questo motivo erano adatti a servire come misure per le capanne, le case e i templi che dovevano essere costruiti" 

Il termine Modulor deriva dalle parole francesi module (modulo) e or (section d'or). 
Si tratta di una "griglia proporzionale" basata su due scelte fondamentali, una di tipo matematico, una di tipo antropomorfo. 
Quest'ultima porta Le Corbusier ad associare alcune delle misure della griglia a misure del corpo umano, e ad assumere come valore di riferimento 183 cm., altezza di un uomo ideale.
L’idea è che lo spazio e gli oggetti devono accordarsi armoniosamente alla figura umana. 
La scelta di tipo matematico consiste nel considerare lunghezze tali che il rapporto tra due consecutive sia φ il numero d'oro (Il prezioso gioiello irrazionale)  
Indicando con a, b, c, d,.. grandezze successive si ha:  
b/a=c/b=d/c=.....= φ (phi, φ,  dal nome del matematico Leonardo Pisano detto Fibonacci che ne fece oggetto di studio)
e
c=a+b, d=b+c,..... 
Anche se queste seconde uguaglianze non sempre sono esatte, operativamente, cioè nella pratica della costruzione architettonica, possono essere accettate come vere. 


Parallelo tra la Serie di Fibonacci e le scale del Modulor

Tale rapporto è matematicamente definibile dalla proporzione 
a:b=b:(a-b)
dove, dato un segmento a, si definisce sezione aurea b, il medio proporzionale tra l'intero segmento a e la parte rimanente (a-b), che vale appunto φ. 
Tra le numerosissime proprietà ha quella di dar luogo ad una successione di quantità in cui ciascuna è somma delle due precedenti e tende, al procedere nella successione, ad assumere φ come rapporto tra due contigue 
La successione dei numeri considerata da Le Corbusier è una successione dunque che segue la legge dei numeri della serie di Fibonacci.
Così come Fibonacci costruisce la sua serie con i numeri:
F1 = 1 F2 = 1 F3 = 2 F4 = 3 F5 = 5 F6 = 8 F7 = 13 F8 = 21 F9 = 34 F10 = 55, ....
con φ = (√5 + 1)/2  = 1,618033989..... (numero irrazionale non periodico)

con φ = lim Fn+1/Fn              
                n→∞
Le Corbusier considera due scale di questo tipo, una ottenuta partendo da un quadrato di lato 113.
Da 113 deriva la sezione aurea pari a 70 (69,8) e inizia così una prima serie, che chiama rossa, con i numeri:
F1 = 4 F2 = 6 F3 = 10 F4 = 16 F5 = 27 F6 = 43 F7 = 70 F8 = 113 F9 = 183 F10 = 296.... 
L'altra serie, che chiama blu, la ottiene partendo da un rettangolo 113x226.
Da 226 deriva la sezione aurea 140 (139,7) e inizia così questa seconda serie con i numeri:
F1 = 13 F2 = 20 F3 = 33 F4 = 53 F5 = 86 F6 = 140 F7 = 226 F8 = 366 F9 = 592 .....




Le Corbusier considera due scale, una ottenuta partendo da un quadrato di lato 113, scala rossa
e una partendo da un rettangolo 226x113, scala blu 

Il numero 226 (113x2), è preso come misura dell'uomo in piedi con il braccio alzato. 
In questo modo viene associata alla determinazione aritmetica dei successivi termini, la costruzione geometrica effettuata partendo rispettivamente dal quadrato e dal rettangolo, così come risulta anche dai disegni con cui Le Corbusier spiegava agli allievi il suo modulor.
In pratica, il Modulor rappresenta un uomo alto circa 183 cm e con un braccio alzato (altezza totale = 226 cm) inserito in un quadrato.
- il rapporto tra la statura dell'uomo (183 cm) e la distanza dall'ombelico al suolo (113 cm) è pari a φ
- l'altezza totale (226 cm), compreso il braccio alzato, è divisa dal livello del polso dell'altro braccio secondo il rapporto aureo φ (140 cm / 86 cm)
- i due rapporti 113 cm /70 cm (serie rossa)  e 140 cm / 86 cm (serie blu) sono ulteriormente suddivisi in dimensioni minori secondo appunto le regole della serie di Fibonacci (essendo ciascun numero uguale alla somma dei precedenti)
Ma ciò che conta, in definitiva, è che la ricorrenza dei valori permette un'infinità di combinazioni e quindi di applicazioni sia in architettura che in design.


Le Corbusier cancellò con un deciso segno rosso le espressioni del passato
 Schizzo del 1930 -  © FLC-ADAGP

Il Modulor comunque si inserisce all'interno della lunga tradizione che parte da Vitruvio, arriva all'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, ai lavori di Leon Battista Alberti e di tutti 
quei trattatisti che studiavano le proporzioni geometriche e matematiche del corpo umano per applicarle all’architettura con lo scopo di migliorare la bellezza e la funzionalità degli
edifici.
Anche se, facendo una comparazione attraverso le proporzioni tra l'architettura e il corpo umano, Le Corbusier evidenzia la sua discendenza dalla Grecia classica  e dagli artisti del 
Rinascimento, per quanto riguarda l'immagine architettonica cancellò con un deciso segno rosso, tracciato nel 1930, le espressioni del passato ricordando, oggettivamente, che queste erano "vivants et magnifiques à leur origine, ici ne sont plus che des cadavres".


Incontro tra Le Corbusier e Albert Einstein a Princeton nel 1946 - © FLC-ADAGP

"Il Modulor è una scala di proporzioni che rende difficile l’errore, facile il suo contrario"(Abert Einstein)
Un'ulteriore curiosità legata al Modulor è sicuramente l'importanza che Le Corbusier diede a un suo incontro con Albert Einstein.
Nel 1946 Le Corbusier incontrò infatti Albert Einstein a Princeton in occasione del viaggio a New York per presentare alle Nazioni Unite il suo progetto per la sede dell’ONU, che poi, per incomprensioni e dissapori, non venne approvato e fu invece realizzato da Oscar Niemeyer
Le Corbusier era fiducioso, "pieno di speranza, era giunta l’ora, finalmente di fare grandi cose in questo grande paese" e contava molto sull'approvazione del grande fisico.
Purtroppo l'incontro non ebbe l'esito sperato e, a proposito di quell’incontro con il grande scienziato, anni dopo Le Corbusier ebbe a dire:

"Ho avuto il piacere di discutere del Modulor per una certa durata con il professor Albert Einstein a Princeton. Stavo attraversando un periodo di grande incertezza e di stress; mi sono espresso male, ho spiegato il Modulor male, mi sono impantanato nella palude di causa ed effetto … A un certo punto, Einstein prese una matita e cominciò a calcolare. 
Stupidamente, lo interruppi, la conversazione si spostò su altre cose, il calcolo rimase incompiuto. L’amico che mi aveva portato era sprofondato nella disperazione. In una lettera scritta per me la sera stessa, Einstein ebbe la gentilezza di dire questo del Modulor: 
«È una scala di proporzioni che rende difficile l’errore, facile il suo contrario». 
Ci sono alcuni che pensano che questo giudizio sia ascientifico. Da parte mia, penso che sia straordinariamente perspicace. Si tratta di un gesto di amicizia da parte di un grande scienziato verso di noi che non siamo scienziati, ma soldati sul campo di battaglia. 
Lo scienziato ci dice questa arma spara dritto: in materia di dimensionamento, cioè di proporzioni, rende l’esecuzione del compito più certo."
( Le Corbusier, The Modulor, Harvard University Press, Cambridge 1954)

Non è sicuramente possibile rapportare la visione di Le Corbusier a quella di Einstein circa la natura dello spazio/tempo relativistico, ma la chiarezza compositiva e l’attenersi a proporzioni armoniche pone il metodo di Le Corbusier in accordo con quello che era la ricerca di semplicità da parte di Einstein e la convinzione che la teoria più semplice sia la più bella e la più vera. 
Collegabili entrambi al grande matematico, ultimo universalista, Jules Henri Poincaré che sosteneva che l’armonia e l’eleganza di una dimostrazione o di una soluzione sta nell’armonia delle diverse parti, nel loro equilibrio, ed è "tutto ciò che introduce un senso di ordine che dà unità, che ci mette in grado di vedere chiaramente e d’un solo colpo l’insieme e i dettagli, una soddisfazione estetica legata all’economia di pensiero".

L’Unité d’Habitation


La Cité Radieuse in costruzione 1948 - © FLC-ADAGP

Il Modulor implica anche un’architettura standardizzata, replicabile in serie, estremamente funzionale che darà origine all'Unité d'Habitation.
Il sistema "Modulor" del 1946 seguito dal "Modulor 2" del 1955, Le Corbusier lo applicò così in molti suoi progetti, come nella Unité d'Habitation a Marsiglia e nella città di Chandigarh in India. 
Per molti anni Le Corbusier aveva teorizzato su un suo progetto di edificazione di complessi abitativi che, sviluppandosi verticalmente, offrissero servizio di veri e propri villaggi. 
Concepiti per rispettare la vita individuale e familiare dovevano  nello stesso tempo fornire le strutture per una vita collettiva aperta alla socializzazione.
Qui ovviamente entrano in gioco anche concetti geometrico/volumetrici che, da lui ricreati, daranno ulteriore fascino ai suoi progetti.
Per lui la realtà ha una matrice geometrica e i nostri sensi e la nostra mente ne sono impregnati e già nel 1923, nel saggio "Verso una architettura" aveva scritto queste parole:

"L’Architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico, dei volumi assemblati nella luce. 
I nostri occhi sono fatti per vedere le forme sotto la luce; ombre e luci rivelano le forme; i cubi, i coni, le sfere, i cilindri o le piramidi sono le grandi forme originarie che la luce rivela; la loro immagine ci appare netta, tangibile, senza ambiguità. 
È per questo che sono belle forme, le più belle forme. Tutti concordano su questo, il bambino, il selvaggio, il metafisico.”

La "Cité Radieuse" situata al 280 di Boulvard Michelet, nell’VIII arrondissement 
di Marsiglia - © Annalisa Santi 2018



I "pilotis", uno dei suoi "cinque punti di una nuova architettura", cioè i pilastri che sorreggono 
la Cité Radieuse, isolandola dal terreno - © Annalisa Santi 2018

 Bossorilievi del Modulor nella Cité Radieuse di Marsiglia (1947-51) in cui viene usato per la prima volta


Bossorilievo del Modulor nella Cité Radieuse di Marsiglia (1947-51) in cui viene usato per la prima volta

L’Unité d’Habitation di Marsiglia (1947-51) è la prima realizzazione di questo progetto a cui seguiranno altre analoghe (se ne costruiranno altre quattro a Rezé-Nantes, Firminy, Briey e Berlino) ed è in questa Unità che viene usato per la prima volta il Modulor.
Tanto che nei vani scala di questi edifici sono spesso presenti bassorilievi che richiamano l’uomo del Modulor.
L'Unité d'Habitation de Marseille, conosciuta anche come Cité Radieuse, è un edificio civile di Marsiglia, progettato da Le Corbusier, in collaborazione con gli architetti André Wogenscky, Georges Candilis, Jacques Masson e l'ingegnere Vladimir Bodiansky.
Situato al 280 di Boulvard Michelet, nell’VIII arrondissement, tra mare e montagne, e localmente noto come "maison du fada" ("casa del matto"), il complesso residenziale si estende su un'area di circa 3.500 metri quadrati e misura 137 metri di lunghezza per 24 metri di larghezza e può contenere più di 1.500 abitanti.


Appartamento tipo della "Cité Radieuse" - © FLC-ADAGP

Corridoi interni  della "Cité Radieuse" - © FLC-ADAGP


L'edificio si sviluppa su 18 piani, per un'altezza complessiva di 56 metri e osservando il basamento si può notare l'adozione di grandi pilastri di forma tronco-conica che sorreggono tutto il corpo di fabbrica, sostituendo i setti portanti. Inoltre, la loro funzione strutturale separa volutamente l'edificio dal suolo e, soprattutto, elimina definitivamente la presenza di abitazioni penalizzate dall'oscurità e dall'umidità derivanti dalla collocazione a terra. 
Quando fu inaugurata nel 1952, il New Yorker titolò “Marseille’s Folly”. 
Un parallelepipedo rettangolare in cemento armato grezzo appoggiato su dei pilastri, con all’interno tutto quello che serve per vivere: dalla scuola al cineclub, dalla panetteria al medico, dalla palestra alla biblioteca, e ovviamente gli appartamenti (337 appartamenti di 23 tipologie differenti: dal monolocale all’appartamento per dieci persone) però costruiti su due piani, come piccoli villini incastrati uno nell’altro, con una configurazione e volumi mai visti prima.
Una città verticale, così la immaginò il “pazzo” Le Corbusier, che la chiamò "Cité Radieuse" (Città Radiosa), perché affacciata a est e ovest in modo da avere il sole tutto il giorno. 

Siccome all’inizio nessuno voleva andarci ad abitare, il progetto era infatti troppo avveniristico e incomprensibile per allora, con soluzioni tecnologiche che saranno messe a punto soltanto nei decenni a venire, Le Corbusier andò a parlare ai pionieri della Cité Radieuse e disse immodestamente: 
"Ho riunito qui le condizioni della felicità" 
E sicuramente sarebbe felice anche lui se potesse sapere che ora qui soffia ancora e si diffonde il suo spirito creativo, dopo l'apertura di un centro d'Arte "en plein ciel".
Infatti proprio sulla terrazza della sua "città verticale" l’8 giugno 2013, dopo tre anni di lavori di restauro costati 7 milioni di euro, finanziati da Ora-Ïto (Ito Morabito figlio del designer di gioielli Pascal Morabito), dai co-proprietari dell’edificio e dallo stato francese, è stato inaugurato il MaMo (da Marseille Modulor), un centro d’arte contemporanea di 600 metri quadrati. 



Il "toit terrasse", cioè il tetto a terrazza con piscina, uno dei suoi "cinque punti di una nuova architettura", 
della Cité Radieuse - © MaMo 

Centro d'Arte Contemporanea MaMo sulla terrazza della Cité Radieus - © MaMo 


Nella vicina Svizzera, la sua patria, Le Corbusier è amato e venerato come una gloria nazionale, tanto che sulle banconote da 10 Franchi, tra le più diffuse, è stampato il suo volto, il suo Modulor e la sua Unité d'Habitation.
Infatti nell'ottava serie (prima serie a immagine verticale) di banconote  da 10 Franchi, emessa l'8 aprile 1997, il ritratto sul fronte della banconota è quello di Charles Edouard Jeanneret Gris, detto Le Corbusier, mentre sul retro si vedono:
- il Modulor
- l'Unité d'Habitation
- la pianta del distretto governativo della città indiana di Chandigarh,  con il palazzo della segreteria di Chandigarh, il più importante edificio progettato da Le Corbusier e con l'atrio d'ingresso del palazzo di giustizia di Chandigarh in cui si evidenziano i tre principi strutturali: la configurazione plastica, la predilezione per le rampe come elemento di congiunzione tra i piani di un edificio, nonché il rapporto dinamico tra l'interno e l'esterno

Banconota da 10 Franchi, 8a emissione del 1997, della Banca Nazionale Svizzera 

Purtroppo in Italia abbiamo perso tre occasioni per avere grandi opere di Le Corbusier e una, proprio legata alla matematica o, per meglio dire, alla futura informatica, è l'Usine Verte” (la "Fabbrica verde") che Le Corbusier progettò per Olivetti a Rho (Milano), nei primi anni Sessanta, e che avrebbe potuto essere la Apple italiana.
L’iter progettuale venne però subito fortemente condizionato dalla improvvisa e misteriosa morte di Adriano Olivettiavvenuta su un treno nel 1960 in viaggio per Losanna in cerca di finanziamenti, e sarà il figlio a portare avanti il rapporto con il maestro svizzero e i suoi collaboratori, ma il progetto fu destinato a rimanere sulla carta in seguito anche al sopraggiungere di una grave crisi aziendale (Le Corbusier e Olivetti di Silvia Bodei)
Le Corbu amava l'Italia, che fu per lui fonte d'interesse, suggestione e ispirazione nei 16 viaggi che vi fece e tra le ultime tappe, tre lo portano a sviluppare concretamente dei progetti per l'Italia: quello appunto per il Centro di calcolo elettronico Olivetti a Rho (Milano, 1961-63), per una nuova chiesa a Bologna (1963-65) e per il nuovo ospedale di Venezia (1964-65), che si conclusero purtroppo tutti col fallimento dell'iniziativa, per differenti problemi sia legati alla committenza che per la morte dell'architetto nel 1965.


Le Corbusier, progetto per il Centro Calcolo Elettronico Olivetti a Rho, marzo 1963 - © Silvia Bodei

Le Corbusier, progetto per il Centro Calcolo Elettronico Olivetti a Rho. 
Pianta e sezioni della “boite standard”, volume alveolare abitabile, 25 marzo 1963 - © Silvia Bodei





Note

¹ Lo pseudonimo di Le Corbusier venne coniato sotto indicazione di Amédée Ozenfant nell'autunno del 1920. Inizialmente venne adottato solo per firmare articoli d'architettura sull'Esprit Nouveau, i cui unici curatori erano Ozenfant e Jeanneret, che usavano molti pseudonimi per dissimulare il fatto che gli autori fossero solo loro. L'origine di questo è largamente documentata: dato che Ozenfant per realizzare il proprio pseudonimo aveva preso spunto dal cognome materno, consigliò a Jeanneret di fare altrettanto: questi non poté ascoltare il suo consiglio poiché aveva compiuto i propri studi nello studio di Auguste Perret, che aveva lo stesso cognome della madre. Egli quindi trasse spunto da "Lecorbesier", il cui ritratto era posto nella casa dove aveva passato l'infanzia. La e venne mutata in u sotto consiglio di Ozenfant; il soprannome risultò gradito a Jeanneret poiché gli ricordava quello del maestro (L'Eplattenier). 
È talvolta noto anche semplicemente come Le Corbu per abbreviazione del suo soprannome: tale storpiatura, complice un gioco di parole con la parola corvo (in francese corbeau) comportò la sua abitudine di firmare con questa sigla le sue lettere informali, oppure abbozzando la sagoma di un corvo; dall'abbreviazione della storpiatura del suo soprannome deriva la forma Le Corb, diffusa soprattutto in inglese.


Fonti

From the book
L'Urbanistica di Le Corbusier di Amedeo Petrilli - Ed Marsilio 2006
Le Corbusier e Olivetti di Silvia Bodei - Ed Quodlibet 2014
From website
http://www.fondationlecorbusier.fr/
http://arti.sba.uniroma3.it/esprit/
https://www.archdaily.com/167240/le-corbusier-meets-albert-einstein
https://it.wikipedia.org
From the pictures
© FLC-ADAGP
© L’Italia di Le Corbusier - MAXXI.it
© MaMo.fr
© SNB.ch
© Silvia Bodei
© Annalisa Santi


Yiddish tango per ricordare

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"non esiste il tango, esistono i tanghi e ognuno corrisponde a una data epoca"
(Osvaldo Rossler)

In occasione del 27 gennaio 2018, Giornata della Memoria, e anche con l'aiuto 'virtuale' di Moni Ovadia, Hain Burstin e Tiziana Piacentini (in arte Vittoria Maggio), vorrei parlare di uno di questi tanghi, il tango yiddish.
Il repertorio della canzone in lingua yiddish contiene un grande numero di tanghi e, come ricordava Moni Ovadia, nella prefazione al libro di Furio Biagini, 'Il ballo proibito - Storie di ebrei e di tango',  "una cultura diasporica e perseguitata non poteva essere insensibile al fascino del  'pensiero triste in forma di danza e canto', all’energia sottoproletaria e meticcia che aveva generato il mistero del tango."



Sempre da questa prefazione si legge che "questo libro di Furio Biagini, importante, bello ed avvincente, ci racconta la storia pressoché sconosciuta di una fatale attrazione fra gli esuli della yiddishkeit est-europea  e dell’ebraismo sefardita ed una danza-musica-canto che ancora oggi sa turbarci ed emozionarci"
Senza trascurare il fatto che lo stesso Moni Ovadia definì 'Yiddish tango', "una delle più belle canzoni yiddish che mi sia capitato di ascoltare"......"dopo averla ascoltata l’ho scelta come uno dei motivi da inserire nello spettacolo scritto a quattro mani con Roberto Andò. La cantava accompagnata dalla TeaterOrchestra la meravigliosa Lee Colbert che ha tutti i quarti di nobiltà per interpretare questo genere di canzoni, essendo un’ebrea Argentina di Buenos Aires con origini russo/polacche.
Il testo di questo tango non parla di amori perduti, è speciale ed è, come ha da essere, forte ed appassionato."


"Suonatemi un tango
Che sia razionalista o mistico,
Ma che possa capirlo anche la nonna
Suonatelo con ardore.
Rit. Suonate musicisti  suonate
Come lo può solo un cuore ebraico
Suonate la danza suonatela
Con anima e sentimento
Suonatemi un tango
Un tango della mia gente dispersa
Che possano capirlo anche i bambini
Suonate questa danza con ardore
Rit. Suonate musicisti…
Suonatemi un tango ebraico
Che non sia né ariano né barbarico
Che il nemico veda che posso ancora danzare
Che posso danzare con ardore. 



Yiddish Tango - Versione cantata da Olga Avigail con Tango Attack band: 
Hadrian Tabęcki - piano, Piotr Malicki - chitarra, Grzegorz Bożewicz - bandoneon

Nel maggio 2017 mi capitò di seguire un'interessantissima conferenza tenuta allo spazio Oberdan dallo storico Hain Burstin, professore ordinario di Storia moderna presso l’Università di Milano-Bicocca, che frequenta da molti anni il mondo rioplatense ed è attento osservatore e conoscitore del tango nelle sue diverse espressioni culturali.
Proprio da questa conferenza, arricchita dall'ascolto di molti brani musicali di tango yiddish, apprezzai queste composizioni e venni a conoscenza di cantanti, direttori, strumentisti, attori, impresari, insomma di quegli ebrei che hanno lasciato un segno nel mondo del tango: i fratelli Rubinstein, Rosita Montemar, la princesa del tango, Besprovan, violinista dell’orchestra Tipica Victor, Sucher, autore del bellissimo Prohibido, Bernstein, Schifrin, solo per citarne alcuni che avevo poi annotato. 
Scoprii così come fossero musicisti apprezzati, come magari si nascondessero dietro pseudonimi o come spesso fossero osteggiati dalle famiglie che vedevano questa promisquità con il tango come una perdita di identità ebraica e uno spreco dell’arte della musica, a cui avevano sempre tenuto, per tradizione. 
Insomma una dimensione del tango decisamente poco nota e a volte dai risvolti tragici come quelli del 'tango della morte',  'Plegaria' e tutti quei tanghi che venivano suonati nei campi di concentramento per accompagnare le visite degli ufficiali, i loro discorsi, o il viaggio verso i forni dei compagni.



Plegarja di Eduardo Bianco) - Orkiestra tangowa "Odeon",  
1930 Odeon (Polish pressing)


Una banda musicale di internati di Auschwitz
Spartito del compositore Rudolf Karel, rinvenuto ad Auschwitz

Questo perché i nazisti vedevano il tango, allora in voga insieme al Jazz, come una musica con meno probabilità di ispirare la ribellione. E dovevano suonare tanghi, in particolare il 'Tango della morte', come accompagnamento alle esecuzioni di massa.
Nella loro drammaticità questi sentimenti portarono alla luce numerosi capolavori musicali, che vennero composti proprio da quei musicisti.


 Spartito - Tango della morte

Durante le torture e le sparatorie nel campo di concentramento "Yanovskiy" (Leopoli), la musica suonava sempre. L'orchestra era composta da prigionieri, suonavano la stessa melodia "Tango of Death" e tra i membri dell'orchestra vi erano il professor del Conservatorio di Stato di Lviv, Shtriks, direttore dell'opera Mund e altri famosi musicisti ucraini. L'autore di questo lavoro è rimasto sconosciuto. 

Un breve brano del libro di Furio Biagini ci ricorda, come sostiene a ragione Osvaldo Rossler, che "non esiste il tango, esistono i tanghi e ognuno corrisponde a una data epoca"

“Quando il tango di Buenos Aires si diffuse nel Vecchio Continente entrò inevitabilmente a contatto anche con la cultura ebraica esteuropea e gli abitanti degli Shtetl lo adottarono, traducendolo in yiddish, come veicolo per esprimere il dramma della loro difficile vita. Persino durante gli anni della tragedia nazista, autori e compositori ebrei, rinchiusi nei ghetti o nei campi di sterminio, scrissero tanghi in giudeo-tedesco. … Naturalmente non si tratta di tanghi rioplatensi, però conservano ugualmente la nostalgia e il principio discepoliano di 'un pensiero triste che si balla'....."

Concludo questo breve viaggio nel tango yiddish aggiungendo le belle e interessanti considerazioni dell'articolo che Vittoria Maggio ha scritto per la sua rubrica 'Finché c’è tango c’è vita', a cui ho associato brani musicali.



Vittoria Maggio - Yiddish tango per ricordare
Un tango per il Giorno della Memoria
Il tango, il vero tango è sempre molto di più di chi ancora lo vede solo in uno spacco di gonna!
Buona lettura su un tema cruciale per l’umanità


'Finché c’è tango c’è vita' compie proprio in  questi giorni due anni di vita, quella vita che con umiltà e rispetto cerca di onorare attraverso il racconto del tango, questo strano ballo, unico a riuscirsi a confondere con la vita stessa, tanto da prenderne a volte il posto.

Tango e musica, arte, creatività e fantasia più in generale, a volte sono l’unico modo per esprimere e conservare identità, interiorità, spiritualità, radici anche quando sono ad alto rischio di sopravvivenza.
Questa settimana ricorre il Giorno della Memoria, quel ricordare ciò che per certi aspetti si vorrebbe dimenticare.
In quel terribile periodo, il tango ha ballato la sua tanda più difficile, quella ai confini tra vita, non vita, e morte.
Pochi conoscono il Tango Yiddish, e pochi  Musicalizador osano metterne qualche brano nelle serate di milonga. Suonarli di tanto in tanto aiuterebbe la memoria del 27 gennaio e contribuirebbe a ricordare uno dei valori più importante da difendere: la tolleranza nei confronti del diverso e la sua integrazione.

Il Tango Yiddish é un tango composto da musicisti ebrei negli anni trenta e quaranta, cantato in yiddish, la lingua giudeo-tedesca, quindi una lingua germanica che veniva parlata dagli ebrei originari dell’Europa orientale.
Tra gli immigrati in Argentina nelle prime decadi del ‘900  c’erano naturalmente anche ebrei e fu proprio in quel periodo che i loro tipici violini si mischiarono ai suoni nascenti del tango che anni più tardi videro la creazione dei tanghi yiddish più famosi.


Yiddish Tango - Timna Brauer & Elias Meiri Ensemble - ORF Live

Papirosen, che significa sigarette, è uno dei più celebri: scritto e composto da Herman Yablokoff nel 1935 a ricordo dell’occupazione tedesca di Grodno nella prima Guerra Mondiale  racconta  la storia di un venditore ambulante di sigarette, orfano di guerra che vende sigarette  in una notte fredda e nebbiosa. È molto bello se pur triste nelle note e nelle parole.



Papirosen - Scritto da Herman Yablokoff.
L'autore è stato ispirato a scrivere questa canzone dopo aver visto i bambini ambulanti durante l'occupazione tedesca di Grodno nella prima guerra mondiale. La versione attuale è in yiddish e russo e incorpora nuovi testi che sono stati aggiunti durante la seconda guerra mondiale. Descrive la vita quotidiana di un orfano ebreo cieco, che deve vendere sigarette e fiammiferi per sopravvivere ...

Il famoso My Yiddishe Mamme, dedicato a una delle tante madri di guerra, composto nel 1925, fu cantato in inglese, in russo, in yiddish e ripreso anche nel 2003 in francese dal grande Charles Aznavour


My Yiddishe Mamme versione in francese di Charles Aznavour

Durante l’Olocausto, il tango è diventato parte della vita dei ghetti e dei campi di concentramento:  i prigionieri avevano bisogno di avere una valvola di sfogo durante la loro tremenda giornata, e la musica poteva anche compiere questo miracolo.
Quindi il tango in yiddish fu il mezzo per esprimere le esperienze dei detenuti, le loro speranze, le sofferenze, le privazioni e il desiderio di libertà.
I nazisti permettevano questa musica non solo perché come il jazz era uno dei ritmi di moda in quegli anni: nei campi di concentramento costringevano le orchestre del campo , le Lager Cappellen, a suonare il Tango di Morte, per accompagnare i detenuti verso le camere a gas.


Tango della morte - l'orchestra del campo 
di concentramento "Yanovsky"

Un compositore ebraico ha scritto uno dei tanghi più conosciuti di questo periodo: si intitola “Friling” che significa Primavera, e fu  scritto da Shmerke Kaczerginski nell’aprile 1943, dopo la morte di sua moglie Barbara nel ghetto di Vilna; il brano, basato su una melodia di tango  esprime la tristezza e il senso di disperazione e solitudine dell’Autore.


Friling
I testi della canzone furono scritti da Shmerka Kocherginsky (1908-1954) nel ghetto di Vilnius nel 1943
 in memoria della moglie defunta nel ghetto.  La musica è stata scritta da Abraham Brudno. 
La canzone è eseguita dalla famosa cantante israeliana Hava Alberstein.


Il tango yiddish è in continua evoluzione, arriva sino ai giorni nostri…. se cominciate a navigare alla ricerca del tango yiddish, troverete questa parola che ricorre spesso: “tangele”. E’ il punto di incontro tra due potenti culture, cioè tra la canzone yiddish e il tango argentino.
“Tangele” è anche il titolo di un album del 2008 che un trio di musicisti (un vocalist, un violinista ed un pianista) ha dedicato alle canzoni, ai tanghi più importanti e conosciuti di quell’epoca.


Tangele ‎– The Pulse Of Yiddish Tango
Mastered by Scott Hull - Piano, Arranged by Gustavo Beytelman - 
Voice Lloica Czackis - Viola Juan Lucas Aisemberg

Esiste anche una pagina Facebook che si chiama Yiddish Tango Club, una band il cui leader è Gustav Bulgach, ebreo argentino, che ha dedicato ed ancor oggi dedica la sua arte e la sua musica alla miscela di danza ebraica conosciuta come Klezmer con il tango argentino.

L’anno scorso un altro gruppo di musicisti, un duo di fisarmonica e clarinetto, I Milongaires, sempre più interessati a divulgare il Tango yiddish, ha realizzato e prodotto un CD intitolato "Un tango per Auschwitz" dedicato a tutte le vittime della Shoah.


Album de I Milongaires - Tracce qui 

C’è un altro emblematico tango yiddish con cui mi piace concludere il nostro viaggio di oggi che si intitola  “Ich hob dich lieb”…. “Io ho amore per te”: chissà, finché  qualcuno avrà amore ancora per qualcun altro…… forse ancora vincerà la speranza!


The Barry Sisters - Ich hob dich zifeel lieb


E  come sempre buon Tango a tutti, a chi lo balla, a chi inizierà a ballarlo, a chi lo ascolterà oppure lo guarderà, a chi lo ama e a chi lo rifiuterà e male ne parlerà … A chi ha la voglia di  vivere!

Un abbraccio!




Albrecht Dürer, dalla magia alla matematica

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"Qual è 'l geometra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond'elli indige,..."
(Dante Alighieri citazione dal XXXIII canto del Paradiso - Divina Commedia)

Questa citazione di Dante ben rende il problema della rettificazione o quadratura del cerchio, cioè la costruzione di un segmento con la stessa lunghezza di una data circonferenza o di un quadrato con la stessa area di un dato cerchio, che è stato uno dei problemi centrali della matematica per millenni e che ha dato origine ad una vera e propria malattia, il "morbus cyclometricus", che in certe epoche ha assunto dimensioni di epidemia. 
π = circonferenza/diametro = area del cerchio/quadrato del raggio
Questa spasmodica ricerca di π "peripheria circuli", cioè il rapporto tra la lunghezza della circonferenza ed il diametro di un cerchio, o che è lo stesso, il rapporto tra l'area del cerchio e il quadrato del raggio, nel XV secolo coinvolse anche grandi artisti tra cui uno dei maggiori rappresentanti del Rinascimento tedesco, Albrecht Dürer (1471-1528).


A. Dürer, Autoritratto con pelliccia, 1500 - Alte Pinakothek, Monaco di Baviera

Dürer subì certamente il potere e il fascino del π (pi greco), che troneggiava nella sua mente, nelle sue mani, nelle sue opere. 
L’autoritratto, in cui Albrecht si raffigura in posa come un Cristo, certamente scena voluta e scelta pensata, anche se usuale al tempo, è molto significativa a dimostrazione del fascino suscitato in lui dal π 
Mentre a destra troneggia l'iscrizione latina 
“Così io, Albrecht Dürer da Norimberga, sono riuscito a ritrarmi con colori caratteristici nei miei 28 anni”
in alto a sinistra troviamo la sua firma, cosa strana in quanto generalmente un artista si firma in basso e di solito a destra, ma qui no! 
Prendendo una lente e ingrandendo l'immagine si nota che l’iniziale del suo nome, la lettera A, la rappresenta a forma di π (Pi Greco) con la D, iniziale del suo cognome, al suo interno.
Anche se il suo vero cognome, in origine, era Ajtos che in ungherese significa "porta" (in tedesco porta di dice "Tür", da Tür a Türer e poi a Dürer il passo è breve), che poi era anche lo stemma della sua famiglia.
La porta verso dove? Verso la “Conoscenza” si potrebbe dire, ma di quale conoscenza? 
Una conoscenza del mondo, delle sue leggi matematiche ma anche dell'esoterismo che nasconde.
Nella concezione esoterica il π simboleggiava il passaggio dall'armonia del cerchio, i cui punti sono tutti equidistanti dal centro, al quaternario simbolo delle 4 dimensioni spazio-temporali. 
Splendida è in tal senso la firma di Dürer così riconoscibile e sintetica da diventare un “brand” ante litteram, un logo che non sfigurerebbe tra quelli di oggi.



Esempi del "logo" ideato da Albrecht Dürer

I matematici probabilmente conoscono il Dürer soprattutto per il suo lavoro Melencolia I  che contiene, strani oggetti, simboli appartenenti al mondo dell'alchimia e della matematica. 
Una figura alata, assorta nei suoi pensieri, si trova circondata da oggetti propri del mondo alchemico, una bilancia, un cane scheletrico, attrezzi da falegname, una clessidra, un putto, una campana, un coltello, una scala a 7 pioli (7 sono le operazioni per giungere alla pietra filosofale), il famoso quadrato magico.... e dove un compasso (preso stranamente per una punta), il tetraedro troncato e la sfera rappresentano la base matematica dell’arte del costruire. 
Un'opera che è anche di una simmetria tale da non lasciare dubbi su dove si possano trovare i 3 elementi più importanti per arrivare alla conoscenza: le chiavi, la via da percorrere e la porta. 

Melencolia I o Melancholia I è un'incisione a bulino (23,9x28,9 cm) di Albrecht Dürer, 
siglata e datata al 1514 e conservata, tra le migliori copie esistenti, 
nella Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe. 

Un'opera, densa di riferimenti esoterici, tra cui appunto il quadrato magico, che è una delle incisioni più famose in assoluto, oggetto anche di omaggi come quello di Thomas Mann nella sua opera letteraria "Dottor Faustus" o di Dan Brown nel romanzo "Il simbolo perduto".
Questo quadrato magico è molto complesso e matematicamente interessante. 
Infatti non è solo la somma dei numeri delle linee orizzontali, verticali e oblique a dare 34 ma anche la somma dei numeri dei quattro settori quadrati in cui si può dividere il quadrato e anche i quattro numeri al centro, se sommati danno 34, così come i quattro numeri agli angoli.
Inoltre se si prende un numero agli angoli e lo si somma con il numero a lui opposto si ottiene 17 e se si prendono i numeri centrali dell'ultima riga si trova il numero 1514, anno in cui è stata creata l'opera. 


Quadrato magico di Melencolia I - datato 1514

Melencolia I è certamente una delle opere di Dürer che più è in relazione con i suoi studi matematici ma anche ermetici ed occultistici e che dimostra quanto l’artista abbia  fatto dell’occultismo un’opera d’arte, in cui l’allegoria fa parte di quel trittico dedicato alle tre vie che portano alla conoscenza.
Infatti, insieme a il “Cavaliere, la Morte e il Diavolo” e a “San Girolamo nella cella”, Melencolia I fa parte di un trittico, detto Meisterstiche (Incisioni Maestre), che potrebbe rappresentare, nell’ordine, la fede, la meditazione e l’immaginazione: il Cavaliere si farebbe interprete delle virtù morali, il San Girolamo di quelle teologiche e la Melencolia delle virtù intellettuali.


Foto dalla mostra a Milano del 26 febbraio 2018  - testi divulgativi del Dürer 

Ora lascio il Dürer fanatico di pi greco e incisore esoterico per svelare il suo apporto didattico/matematico, soprattutto riguardo alle sue originali costruzioni geometriche.

In seguito all'invenzione della stampa a caratteri mobili, nella metà del XV secolo, si sviluppò anche l'editoria scientifica, ma pur essendo tedesco l'ideatore, Johannes Gutenberg, è interessante notare che il primo libro di matematica vera e propria, se si escludono libri di conto o libri di testo per l'aritmetica commerciale, stampato e pubblicato in tedesco, "Underweysung der Messung mit dem Zirkel und Richtscheyt" (Istruzione nella misurazione con riga e compasso), è stato scritto proprio da Albrecht Dürer.
Albrecht, nato a Norimberga 547 anni fa, il 21 maggio 1471, figlio di un orafo ungherese (terzogenito di diciotto figli), iniziò originariamente a imparare questo mestiere con il padre, da cui apprese le tecniche di incisione sui metalli, che più avanti metterà a frutto nei suoi celebri lavori a bulino e acquaforte, e poi divenne apprendista presso l'artista più importante di Norimberga, Michael Wolgemut
Come pittore, fece il suo primo viaggio in Italia dal 1494 al 1495, dove imparò molto sul nuovo stile rinascimentale dell'arte italiana e in particolare sull'allora metodo relativamente nuovo di prospettiva lineare.


"Ritratto di giovane veneziana" dipinto dal Dürer  in Italia e simbolo della mostra 
“Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia” a Milano dal 21 febbraio al 24 giugno 2018  


Dürer si convinse che questo stile di composizione basato sulla matematica era il vero nucleo dell'arte e tornò in Italia dal 1505 al 1507 specificamente per saperne di più su questa tecnica, ma dove frequentò, soprattutto a Venezia, anche ambienti Neoplatonici che lo portarono ad esplorare vie esoteriche, e dove conobbe Raffaello Sanzio
Molto più giovane di lui, Raffaello avrà una sincera e profonda ammirazione per la sua arte dell'incisione, tanto da tener esposte nella sua bottega alcune sue opere.
Una conoscenza e un'amicizia reciproca che terminerà nel 1520 anno in cui Raffaello muore a Roma, a soli 37 anni.
I due artisti si erano scambiati delle opere solo pochi mesi prima. Dürer aveva inviato un autoritratto, Raffaello il bozzetto della Trasfigurazione e sul retro del foglio, un disegno e delle annotazioni apparentemente insignificanti (misure e codici enigmatici che Durer cercherà poi di decifrare), ma che erano invece i primi pensieri annotati su carta di quello che sarebbe diventato uno dei più celebri affreschi del grande urbinate, la "Scuola di Atene".
L'affresco, che rappresenta i più celebri filosofi e matematici dell'antichità intenti nel dialogare tra loro, all'interno di un immaginario edificio classico, è uno dei più alti esempi di perfetta prospettiva centrale nella cultura prospettica del Rinascimento italiano.


“Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia” mostra a Milano foto del 26 febbraio 2018
Sullo sfondo la gigantesca xilografia, vera antesignana dei poster, composta da 192 blocchi 
stampati separatamente e riuniti insieme a formare un grande "Arco di Trionfo",  su cui erano illustrate 
storie della vita di Massimiliano I d'Asburgo e dei suoi antenati oltre a complesse figurazioni allegoriche .
1515-1517, sotto la regia di Albrecht Dürer, conservata, tra le migliori copie esistenti, 
nel Germanisches Nationalmuseum di Norimberga.

Sempre nel suo viaggio in Italia e a Venezia, aveva incontrato Jacopo de’ Barbari, e questi era riuscito a mostrargli cosa fosse in grado di fare la matematica applicata all’arte.

Seppur autodidatta Dürer dedicò la sua vita artistica proprio allo studio della prospettiva e della proporzione lineare, e allo sviluppo delle conoscenze matematiche necessarie per realizzare questo tipo di disegno. 

Fu senz'altro una delle personalità più competenti per introdurre questa tecnica nel Nord Europa e diventerà il più grande esponente della pittura tedesca rinascimentale. 

Convinto che il segreto della vera bellezza risiedesse nella teoria delle proporzioni matematiche, dedicò vent'anni a scrivere la sua tesi più importante sull'argomento il suo "Hierinn sind begriffen vier bücher von menschlicher Proportion" (Quattro libri sulla teoria della proporzione)  stampato e pubblicato postumo a Norimberga nel 1528. 

Quando questo libro fu quasi completato, Dürer si rese però conto che era troppo matematicamente avanzato per gli apprendisti, i suoi più probabili lettori, e così compilò un libro di testo di geometria elementare, il suo "Underweysung der Messung mit dem Zirkel und Richtscheyt" (Istruzione nella misurazione con riga e compasso), che fu stampato e pubblicato a Norimberga, nel 1525, prima della sua opera magna per la quale avrebbe dovuto esserne un'introduzione.

Fu quindi ristampato postumo nel 1538 con materiale aggiuntivo e nella biblioteca del Dipartimento di Matematica e Informatica Dickinson College (Carlisle PA 17013 USA), c'è una bella traduzione in inglese, della prima edizione, di Walter L. Strauss (1977) in cui è riportato a sinistra il testo originale in tedesco e la traduzione in inglese a destra, nonché una scansione del testo originale. (Qui le scansioni del libro originale stampato nel 1538 - vedi pp. 110-119 per questo argomento)




Foto dalla mostra a Milano del 26 febbraio 2018  - testo del Dürer 


Come accennavo, questo è stato il primo libro di matematica a essere stampato e pubblicato in tedesco, in quanto tutte le precedenti opere matematiche erano state stampate in latino. 
Sebbene mirasse agli apprendisti dell'arte, il libro trovò un pubblico molto più ampio e divenne un bestseller scientifico non solo in Germania. 
Fu tradotto in latino e in molte delle principali lingue europee e diventò un libro di testo standard in tutta Europa per la maggior parte del secolo successivo. 
Ancora attuale all'inizio del XVII secolo, quando Keplero, che  stava scrivendo le sue opere geometriche, criticò la costruzione dell'ettagono di Dürer come solo un'approssimazione e non matematicamente precisa. 
Pare comunque che una delle illustrazioni di Dürer del libro su come costruire una prospettiva lineare abbia ispirato Keplero alla sua soluzione sperimentale del problema del foro stenopeico nell'ottica.

Illustrazione "Lo sportello" metodo “meccanico” per rappresentare oggetti in prospettiva 
(dall’Underweysung der Messung del 1525)

Leggendo questo testo "Underweysung der Messung mit dem Zirckel und Richtscheyt ( Un manuale di misurazione di linee, aree e solidi per mezzo di riga e compasso) si vede chiaramente come Dürer abbia scritto il libro come un manuale tecnico per artisti, artigiani, ecc., dando istruzioni elementari su come disegnare poligoni regolari con riga e compasso. 
All'epoca di Dürer le vecchie opere dei greci si stavano nuovamente diffondendo e senz'altro Dürer ne venne a conoscenza tanto che il libro inizia: 

"Il più sagace degli uomini, Euclide, ha messo insieme le fondamenta della geometria. Coloro che lo comprendono bene possono fare a meno di ciò che segue qui"

Questa sembrerebbe anche un po' strana come introduzione perché, sebbene egli dia alcune costruzioni euclidee, molte sono nuove e, inoltre, doveva certo sapere che la stragrande maggioranza dei suoi lettori non conosceva Euclide.

Pagine che mostrano il carattere del testo e le costruzioni all'interno di un cerchio. 
Dal libro "Underweysung der Messung mit dem Zirckel und Richtscheyt "

Poiché si tratta di un manuale tecnico, l'accento di Dürer è sulle costruzioni facili da disegnare che sembrano buone e, in particolare alcune come sosteneva Keplero, sono solo approssimazioni di bell'aspetto. 
Molte di queste erano note agli artigiani del tempo, perché tecniche tramandate di generazione in generazione o perché apparse in stampe precedenti, ma alcune potrebbero essere state davvero scoperte dallo stesso Dürer.

Un'interessante costruzione è quella del pentagono regolare, di cui in effetti ne dà due: una costruzione greca classica e una sua originalissima che vorrei qui descrivere.

Illustrazione 1 Pentagono

Questa costruzione ha due caratteristiche notevoli. 
Una è che viene disegnata, forse usando un compasso arrugginito, la cui apertura resta fissata per l'intera costruzione e questo, probabilmente rappresentava un grande vantaggio per l'artigiano.
Il fatto che non dovesse regolare continuamente il compasso avrebbe infatti reso la costruzione più semplice, veloce e precisa. 
Il secondo fatto interessante è che è solo approssimativamente un pentagono regolare, ma è un'approssimazione molto buona, anche se Dürer non dice mai che questa è un'approssimazione.
Secondo i calcoli fatti da David Richeson,  professore di matematica al Dickinson College, l'errore nell'altezza del pentagono è inferiore all'1%. 
La costruzione, come si vede nell'illustrazione¹ inizia con il segmento di linea etichettato {ab} e con questo raggio viene impostato il compasso e con successive manovre, che lascio come divertente esercizio di decodifica al lettore, si arriva alla costruzione del pentagono.
(qui un'immagine animata della costruzione del pentagono di Durer)

Andando avanti nella lettura di trova anche molto di più! 
Dürer continua a dare originalissime costruzioni con riga e compasso di poligoni regolari con 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11 e 13 lati. 
Come forse saprete, alcune di queste sono costruzioni impossibili (7, 9, 11 e 13), quindi le costruzioni di Dürer possono essere solo approssimazioni, anche se molto geniali.
L'ettagono (7-gon) e l'ennagono (9-gon) sono infatti approssimazioni eccellenti e quindi credo siano proprio da condividere e spiegare.

Illustrazione 2 Ettagono

L'ettagono di Dürer, come si vede nell'illustrazione², è straordinariamente facile da costruire. 
Inizia con un triangolo equilatero inscritto in un cerchio e considera la metà del lato del triangolo quasi con la stessa lunghezza del lato dell'ettagono inscritto. 
Quindi tutto ciò che si deve fare è semplicemente dividere in due un lato del triangolo e riportarne la misura, con il compasso, sulla circonferenza per ottenere così il primo lato 
dell'ettagono e usare poi questo lato per disegnare il resto e chiudere quasi perfettamente l'ettagono.
(qui un'immagine animata della costruzione dell'ettagono di Durer)


Illustrazione 3 Ennagono

La costruzione dell'ennagono è un po' più contorta, come nell'illustrazione³, ma altrettanto semplice. 
Si disegna un cerchio, un triangolo equilatero inscritto e, con la stessa apertura del compasso, si disegnano tre "Fischblasen" ("vesciche di pesce" come le chiama) facendo centro sui vertici del triangolo. 
Disegnato quindi un segmento radiale all'interno di una "vescica di pesce" lo si divide in tre parti e con l'apertura del compasso pari a questo 1/3 si traccia un cerchio concentrico che intersecherà in due punti {e} ed {f} la "vescica". 
Quindi {ef} sarà il lato di un ennagono (ovviamente approssimativo) inscritto nel cerchio più piccolo.
(qui un'immagine animata della costruzione del nonagono di Durer)
Come per il pentagono, Dürer non esplicita che l'ettagono e l'ennagono sono approssimazioni, tuttavia, ammette che le costruzioni dell'11-gono e del 13-gono, che tralascio in questo post, sono "meccaniche (approssimative quindi) e non dimostrative".

Come se non bastasse Dürer affronta anche due problemi indimostrati: quello di trisezione dell'angolo e della quadratura del cerchio.
Ricordando che la trisezione dell'angolo, come ha dimostrato algebricamente Pierre-Laurent Wantzel nel 1837, non si può risolvere con riga e compasso, nel libro Dürer lascia questa costruzione, curiosa ma sempre approssimativa, che vado a spiegare con una figura più esplicativa.

Trisezione dell'angolo secondo Dürer 

Sia AOB l’angolo da trisecare. Si tracci l’arco di circonferenza di centro O di estremi A e B, e si tracci anche il segmento AB.  Sia C  il punto  di AB tale che BC = 1/3 AB. Da C si conduca la perpendicolare ad AB, e sia D  il suo punto d’intersezione con l’arco di circonferenza. Si tracci quindi la circonferenza di centro B e raggio BD, che interseca il segmento AB  nel punto E.  Sia inoltre F  il punto di EC tale che si abbia EF = 1/3 EC. Si tracci poi la circonferenza di centro B e raggio BF, sia G  il  suo punto d’intersezione con l’arco di circonferenza. Allora l’angolo GOB è circa un terzo dell’angolo AOB.

Come già detto nel XV secolo molti artisti, tra cui Leonardo da Vinci (1452-1519), si dedicarono alla "quadratura del cerchio", e lo stesso Dürer cercò un' approssimazione di pi greco e ne diede una definizione molto rozza ma curiosa.
E così scrive:
"La quadratura circui, che significa quadrare il cerchio in modo che sia il quadrato che il cerchio abbiano la stessa superficie, non è stato dimostrato dagli studiosi. Ma può essere fatto approssimativamente per applicazioni minori o piccole aree nel modo seguente"
E' da notare che nella prima edizione del libro usa un'approssimazione di  π ~ 3{1/7} = 3,142857142.... (numero periodico), e nella seconda usa  π ~ 3{1/8} = 3,125 (numero decimale finito).
Le due approssimazioni, molto antiche, risalgono rispettivamente al 250 a.C. determinata da Archimede 3 + 10/71 <  π  < 3 + 1/7 = 3,142857142.... e addirittura al 2000 a.C. dai Babilonesi 3 + 1/8 = 3,125.
Scrive poi molto semplicemente: 
"Disegna un quadrato e dividi la sua diagonale in dieci parti e poi disegna un cerchio con un diametro di otto di queste parti"

Semplice quadratura del cerchio secondo Dürer 

Il libro di testo di Dürer gioca anche un ruolo importante nella storia della tipografia. 
È stampato infatti in un carattere tipografico creato appositamente per il libro dal maestro di scrittura Nürnberger Johannes Neudörfer (1497-1563) cognato dell'editore di stampanti Johannes Petreius .
Il carattere tipografico è uno script fraktur ("Fraktur" o "Gothic"è un particolare tipo di caratteri, appartenente alla famiglia dei caratteri gotici) e sebbene questo non sia stato il primo carattere fraktur, tutti i tipi di carattere fraktur sviluppati e utilizzati da allora derivano dalla creazione di Neudörfer.

Lettere del carattere "Fractur" dei testi del Dürer 
Il termine fractur deriva da frāctus ("rotto"), participio perfetto del verbo latino frangere ("rompere")

Questo libro del Dürer rappresenta certo una curiosa scoperta sotto vari profili ed è sicuramente una lettura piacevole che stimola a provare ad eseguire queste costruzioni. 
Io l'ho fatto a mano, ma si potrebbe anche facilmente fare usando Geogebra e si rimarrebbe sorpresi dalle figure geometriche risultanti.


Fonti
Illustrazioni tratte da Albrecht Dürer,  Underweysung der Messung mit dem Zirkel und Richtscheyt:  Faksimile-Neudruck der Ausgabe Nürnberg 1525 mit einer Einführung von Matthias Mende, 3. Aufl., Verlag Dr. Alfons Uhl, Nördlingen, 2000



La matematica romantica dell'800

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"La matematica forse non è altro che l'energia spirituale dell'intelletto essoterizzata, ridotta a organo e oggetto esteriore, un intelletto realizzato e oggettivato [. . . ] L'energia della matematica è l'energia che mette ordine.
D'altro canto, ogni scienza matematica tende a ridiventare filosofica, ad essere animata o razionalizzata, poi poetica, infine morale, per ultimo religiosa"
(Novalis da "Frammenti" trad. italiana di E. Pocar. Rizzoli, 1976)

Novalis, pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg (Schloss Oberwiederstedt, 2 maggio 1772 – Weißenfels, 25 marzo 1801), è stato un poeta, teologo, filosofo e scrittore tedesco, uno dei più importanti rappresentanti del romanticismo tedesco prima della fine del Settecento. 
Oltre che per le sue opere letterarie e filosofiche, che spaziano un po' in tutti i campi, è ricordato come il creatore del fiore azzurro (Blaue Blume), ovvero il nontiscordardimé, uno dei simboli più durevoli del movimento romantico, che diventa metafora del raggiungimento della perfezione e che, in senso più ampio, simboleggia l’amore e lo sforzo metafisico di accostarsi all’infinito e all’irraggiungibile; un proposito impossibile da realizzare, se non attraverso la matematica o la poesia.


Il Fiore Azzurro di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg (Novalis)

Ho scelto questa frase, forse non molto nota, come parallelo tra filosofia e matematica, perché scritta da uno degli iniziatori del Romanticismo tedesco e quindi molto significativa per introdurre quella che si potrebbe definire la Matematica romantica dell'800. 
Da sempre vi é stato un rapporto stretto tra matematica e filosofia e fin dall'antichità si evidenziano notevoli tentativi di avvalersi della matematica in ambito filosofico e anzi spesso la matematica finiva lei stessa per essere una forma di filosofia.

Basterebbe ricordare il filosofo Talete (625 a.C. – 547 a.C. circa), che oltre a calcolare l' altezza delle piramidi sfruttando l' ombra da esse proiettata, diede vita al famoso teorema sulle rette parallele che porta il suo nome, e non si può certo non menzionare Pitagora e i pitagorici che nel periodo tra il 580 a.C. e il 495 a.C affermavano che "il numero é il principio" e che si erano accorti che tutti gli enti hanno come caratteristica la misurabilità, o il cosmo platonico (PlatoneAtene 428/427 a.C. - Atene 348/347 a.C), formato dai 5 solidi regolari, e gli atomi democritei (Democrito 460 a.C. – 370 a.C) dotati di caratteristiche esclusivamente quantitative, o Eratostene, vissuto tra il 280 e il 200 a.C., che arrivò, anche se in modo piuttosto rudimentale, a calcolare il valore della circonferenza della Terra con grande precisione....... 
Tuttavia il forte legame tra filosofia e matematica, dopo Aristotele (383 a.C. – 322 a.C.), filosofo, scienziato e logico greco antico che, con Platone, suo maestro, e Socrateè considerato uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, passerà in secondo piano e dovrà aspettare fino al Rinascimento per tornare in auge.
Certo Aristotele può considerarsi il precursore delle geometrie non euclidee, che furono però poi per lunghissimo tempo completamente ignorate.
Aristotele nel "De Caelo" (Περὶ οὐρανοῦ), ammette come ipotesi che sia impossibile che un triangolo abbia i 3 angoli pari a 2 angoli retti, che è come dire che sono possibili triangoli non euclidei.
Ed ancora dice che "proveremmo lo stesso piacere se la somma degli angoli interni di un triangolo fosse uguale a due angoli retti, ma anche se non lo fosse". 
La scelta infatti non dipende da motivazioni logiche ma dall’ esercizio della libertà del soggetto.
Inoltre nell’"Etica Eudemia" (Ηθικά Ευδήμεια) Aristotele indica la decisione sulla scelta tra assiomi euclidei (il triangolo euclideo) e non euclidei (il triangolo non-euclideo) come esempio di un libero atto di scelta tra due poli, laddove il ragionamento logico non può dare indicazioni orientative: l’Ethos è sopra il Logos, la libertà del soggetto è il fondamento dell’essere matematico e così sarà anche per Cartesio che sosterrà che il teorema euclideo, il quale afferma che la somma degli angoli interni di un triangolo equivale a due angoli retti, è così "solo perchè la libertà di Dio l’ha voluto così, non perchè sia più vero dell’ipotesi contraria"(Mèditations mètaphysiques). 


La Scuola di Atene - affresco (770×500 cm circa) di Raffaello Sanzio - databile al 1509-1511 
Situato nella Stanza della Segnatura, una delle quattro "Stanze Vaticane", 
poste all'interno dei Palazzi Apostolici.
Platone e Aristotele, che insieme a Socrate sono considerati i  principali filosofi dell'antichità, 
si trovano al centro della composizione.

Non intendo qui fare una storia della matematica greca, che quasi sempre viaggiava in parallelo con la storia della filosofia, né soffermarmi sul rinato legame rinascimentale, perché dovrei scrivere un trattato, preferisco quindi riscoprire gli aspetti della matematica romantica.  
Si perché la matematica ottocentesca può essere definita romantica in quanto i matematici dell'800 smantellarono finalmente il dispotismo che Euclide esercitava da 2000 anni, rivendicando, in contrapposizione all'illuminismo, quell'idea di libertà (già aristotelica) come fondamentale esigenza dell'individuo.
Per  tutto questo lunghissimo tempo infatti Euclide (IV - III secolo a. C.) aveva continuato ad esercitare una dittatura così tirannica che, nella Critica della Ragion Pura, lo stesso Immanuel Kant ritenne che lo spazio euclideo fosse "la griglia insita nell'intelletto" con cui gli umani percepiscono il mondo esterno. 
L'800 segna quindi la fine dell'ancien régim euclideo e la nascita delle grandi geometrie non-euclidee, il secolo che si sarebbe rivelato il più grande, il più magnifico, e il più entusiasmante di tutta la storia della matematica. 

Ma vediamo di "far luce" sulle conseguenze di questa libertà di negare il V postulato di Euclide, che ha portato alle geometrie non Euclidee.


Fig. 1: Triangolo Ellittico Euclideo Iperbolico 

Il V postulato di Euclide, più noto come il Postulato (o l’assioma) delle parallele, ha rappresentato il punto cruciale per lo sviluppo della Geometria e della stessa Matematica.
Esso possiede varie formulazioni equivalenti, la più nota delle quali recita:

1)   Data una retta r ed un punto P che non le appartenga, esiste un’unica retta s  passante per P e ad essa parallela.
(in questo caso, poiché rs, si ha: r  s  r s =).

Questa formulazione è nota dal 1818 ad opera di Gergonne, ma molto probabilmente risale a tempi precedenti, ed apparirà nella sistemazione della geometria Euclidea dovuta a David Hilbert.

La formulazione originaria di Euclide fu la seguente:
2) Se due linee sono tagliate da una trasversale in modo tale che la somma degli angoli interni da una parte della trasversale è minore di 180°, allora le due linee s’intersecano dalla stessa parte della trasversale.
Un’altra interessante formulazione dello stesso postulato è:
3) La somma degli angoli interni di un triangolo è 180°.

Il problema fondamentale su questo postulato (o assioma) fu, quasi dall'inizio, il tentativo di capirne la necessità e la dipendenza o meno dagli altri assiomi. 
Sembra, infatti, abbastanza curioso e sintomatico che lo stesso Euclide lo abbia adoperato il meno possibile.
Per diverse ragioni quest’assioma non sembrò autoevidente, come gli altri, probabilmente perché i Greci avevano familiarità con linee, dette asintotiche, che pur non incontrandosi in alcuna regione limitata del piano, tendevano ad incontrarsi all’infinito. Non era dunque evidente che per un punto esterno ad una retta si potesse tracciare soltanto una parallela.
Occorsero molto tempo e l’ingegno di molti Matematici per dirimere la questione,  provando l’indipendenza con la costruzione di modelli di due nuove geometrie, dette Geometrie Non Euclidee, che, dal punto di vista della logica matematica, sono equivalenti alla Geometria Euclidea nel senso che ciascuna di esse è consistente se e solo se lo è la geometria Euclidea. (In realtà per geometria non Euclidea si deve intendere una qualsiasi geometria differente da quella di Euclide.)

Volendo schematizzare il problema, si può procedere secondo due direttive:

1) Cancellare il V postulato e studiare tutto quello che si può dedurre dai rimanenti postulati. Si ottiene una geometria nota come Geometria assoluta o neutrale.
2) Cercare di dimostrare la dipendenza del V postulato assumendo come ipotesi la sua negazione. Se si giunge ad una contraddizione questo significherà che il V postulato è in realtà deducibile dagli altri. Poichè il postulato in questione contiene due affermazioni, una di esistenza e l’altra di unicità, è possibile procedere in due modi negando solo l’unicità oppure negando l’esistenza.

Tutti i tentativi non portarono ad alcuna contraddizione; nacquero così due nuove geometrie,  dette appunto non Euclidee: 
1) la geometria iperbolica (Bolyai, Gauss, Lobachevsky) 
2) la geometria ellittica (Gauss, Riemann)
e l’indipendenza del V postulato fu definitivamente stabilita quando si costruirono modelli di tali geometrie (Eugenio Beltrami, 1868).

1) Il caso iperbolico: data una retta ed un punto P non appartenente ad essa esistono diverse rette per P ad essa parallele.
Equivalentemente: la somma degli angoli interni di un triangolo è minore di 180°.
È necessaria una precisazione. La negazione del V postulato deve essere formulata 
nel seguente modo: esiste una retta r ed esiste un punto P fuori di essa tale che 
almeno due diverse parallele a r passano per P.
Oppure: esiste un triangolo tale che la somma dei suoi angoli interni è minore di 180°.
Tuttavia, partendo da queste ipotesi è possibile dimostrare che la proprietà ipotizzata vale per tutte le scelte di una retta e di un punto fuori di essa, e per tutti i triangoli.  

2) Il caso ellittico: data una retta ed un punto P non appartenente ad essa, non esiste alcuna retta per P ad essa parallela. 
Equivalentemente: la somma degli angoli interni di un triangolo è maggiore di 180°.

Lo stesso Euclide, mentre riteneva evidenti i primi quattro postulati della sua 
geometria, non considerava altrettanto evidente il quinto detto “delle rette 
parallele”, infatti questo postulato non rimanda ad alcuna costruzione 
geometrica che possa limitarsi sempre ad una porzione finita di piano. Vani 
sono stati i tentativi, fatti sino ad oggi dai matematici, di dimostrare, riformulare o sostituire il quinto postulato. 
Alcuni studiosi come Gauss, Bolyai, Lobabacevskij, Riemann nei primi del XIX secolo, hanno costruito delle geometrie che, negando il quinto postulato, hanno dato vita alle geometrie dette appunto non euclidee.



Fig. 2: Due rette aventi una perpendicolare in comune nelle tre geometrie 
Nella geometria iperbolica le rette divergono, ed è quindi possibile trovare molte rette parallele 
(cioè che non si intersecano). 
Nella geometria ellittica le rette convergono e quindi non esistono rette parallele.

Cerchiamo di scoprire questa grande rivoluzione anche attraverso i suoi protagonisti.

Cominciò il matematico francese Jean-Victor Poncelet (1788 - 1867), formulando una geometria, definita proiettiva, in cui le rette parallele s'incontrano (all'infinito) e in cui definì anche i punti circolari all'infinito, concetti che portarono al principio della dualità e al principio di continuità, aiutando anche lo sviluppo dei numeri complessi.  
Ma sarà il russo Nikolaj Ivanovic Lobacevskij (1792 - 1856) che dalla sperduta università di Kazan costruì la prima geometria completamente non euclidea, indipendentemente dall'ungherese János Bolyai, chiamata appunto geometria di Lobacevskij.
In questo modo Lobacevskij abolisce il dogma della "verità" assoluta della geometria euclidea e, per questo, può essere definito il Niccolò Copernico della geometria, anche se il riconoscimento delle sue idee da parte della comunità matematica fu piuttosto lento in quanto i matematici di quel tempo erano troppo legati alla situazione presente per poterla giudicare in modo più ampio, e quindi dovette continuare a sviluppare le sue idee in solitario isolamento. 
Tali idee furono accettate pienamente solamente molti decenni dopo la sua morte.
Nel 1848 il matematico János Bolyai ( 1802 - 1860) scoprì che Lobachevsky aveva pubblicato un'opera simile alla sua nel 1829, e anche una generalizzazione di questa teoria.
Anche János, infatti, fu ossessionato dal postulato delle parallele di Euclide e, alla fine, giunse alla conclusione che il postulato è indipendente dagli altri assiomi della geometria e che diverse geometrie coerenti avrebbero potuto essere costruite sulla sua negazione.
Tra il 1820 e il 1823 preparò infatti un trattato su un sistema completo di geometria non euclidea e scrisse al padre, anche lui matematico, "Dal nulla ho creato un altro, nuovo universo"
Il lavoro di Bolyai fu pubblicato quindi nel 1832 come appendice ad un libro di testo di matematica del padre, con il nome di "Appendice che espone in maniera assoluta la vera scienza nello spazio".
Il testo rivestì una grande importanza nello sviluppo della matematica, perché fu, insieme alla geometria di Lobacevskij, la prima opera che gettò i fondamenti della geometria non euclidea.


Jean-Victor Poncelet, Nikolaj Ivanovic Lobacevskij, János Bolyai, Bernhard Riemann 

Ma sarà con la geometria di Riemann che la rivoluzione andrà ancora oltre tanto che la relatività di Einstein descriverà il nostro universo come una superfìcie riemaniana di quattro dimensioni, tre spaziali e una temporale.
Georg Friedrich Bernhard Riemann (1826 - 1866) fu non solo un grande matematico innovatore, ma va ricordato anche per gli altri studi che effettuò sin dalle prime fasi della sua carriera, affrontando problemi fisici, come i fluidi magnetici, la legge dell'induzione di Faraday, oltre a temi di filosofia naturale, metafisica, teoria della conoscenza e di psicologia.
La sua prima tesi risale al 1851 e riguarda una nuova teoria sulle funzioni di variabile complessa, ramo della matematica allora nascente che grazie al suo contributo ricevette un notevole impulso.
Nel 1854 per la sua abilitazione all'insegnamento scrisse la sua seconda tesi, intitolata "Über die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen" (Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria) e pubblicata postuma nel 1867, con la quale introdusse i concetti di varietà e di curvatura di una varietà, tra le quali spiccarono gli spazi non euclidei.
Una delle questioni poste in questo scritto consistette proprio nel prospettare una indagine sulla natura geometrica dello spazio e sulla sua curvatura.² 
A Gottinga prese la cattedra del grande Gauss che, sembra, si fosse tempo prima già dedicato a queste speculazioni, scoprendo le potenzialità della geometria non euclidea, ma che, per paura di pubblicare un lavoro così rivoluzionario temendo le "strida dei beoti", avesse tenuto celati e per sé i risultati.

Tra i matematici "romantici" del diciannovesimo secolo non posso non ricordare Eugenio Beltrami, che diede notevole impulso ai nuovi studi di geometria, venendo anche in contatto a Pisa con Bernhard Riemann, stabilitosi nella città toscana per motivi di salute, e traducendo alcuni lavori di Gauss. 
I rapporti con questi e altri matematici di fama internazionale, ebbero una notevole influenza sull'indirizzo dei suoi studi di geometria e infatti Beltrami deve la sua fama soprattutto all'aver individuato nella pseudosfera un primo modello "concreto" per la geometria non euclidea di Lobatschewsky.
L’interesse di Beltrami per le geometrie non euclidee nasce in modo del tutto naturale nell'estate del 1867, come proseguimento dei suoi studi di geodesia e in particolare delle questioni relative alla rappresentazione di una superficie in modo che le sue geodetiche siano linee rette. 


Cuffia di Beltrami - Modello cartaceo di una porzione di piano iperbolico - Università di Pavia

Come si legge in una lettera del 1872, l'origine di tutto è stata un'osservazione "buttata là da Lagrange in una delle sue Memorie sulle carte geografiche".
Le opere in cui Beltrami tratta l’argomento sono quattro. 
Le prime, e più importanti, sono "Saggio di interpretazione della geometria non-euclidea" e "Teoria fondamentale degli spazii di curvatura costante", risalenti entrambe al 1868. 
In queste si tratta rispettivamente la planimetria e la stereometria non euclidea, utilizzando in modo massiccio le tecniche introdotte da Gauss e Riemann, oggi tipiche della geometria differenziale. 
Beltrami non fu interessato a mettere ordine all'apparato assiomatico della dottrina di Lobatschewskij, che secondo lui sarebbe stata comunque da rivedere, ma ne ricercò un substrato reale, soprattutto per mettere a tacere chi definiva le geometrie non euclidee "geometrie del soprasensibile" o "da manicomio". 




È proprio questo l'aspetto innovativo nelle teorie di Beltrami, che fu il primo a scoprire un ambiente in cui la geometria non euclidea trovava una realizzazione, e questo ambiente era proprio la pseudosfera.
Un modo per toccare con mano e vedere con i propri occhi un'immagine più o meno approssimata della superficie pseudosferica nella realtà, per poter avere dei riscontri visivi di alcune proprietà e magari intravederne delle altre.

"Ho avuto un’idea bizzarra", scrive Beltrami a un suo amico matematico francese, Guillaume-Jules Hoüel (1823 - 1886), "ho voluto tentare di costruire materialmente la superficie pseudosferica sulla quale si realizzano i teoremi della geometria non euclidea"

Di questi modelli di pseudosfera (dalla corrispondenza privata si deduce che ne costruì almeno tre), ne è rimasto solo uno, costruito in cartone e chiamato confidenzialmente "cuffia di Beltrami", con diametro di 1,04 m che oggi è custodito presso il dipartimento di matematica dell’Università di Pavia.



Fig. 3: Trattrice e Pseudosfera da Geogebra

Il luogo rappresentato con il contributo di Geogebra (in fig.3 a sinistra) prende il nome di Trattrice. 
Si tratta di un luogo geometrico di punti costruito nel rispetto della seguente regola: 
1) individuato l’asse delle y come asse di simmetria (sarà anche asintoto verticale), si considerino i segmenti di egual misura che hanno un estremo sull’asse y e l’altro estremo sulla curva, in modo tale che il segmento risulti tangente ad essa. 
2) man mano che un estremo si muove lungo l’asse l’altro estremo descriverà la trattrice.
L’equazione indicata (in fig.3) con f(x) si ottiene risolvendo l’equazione differenziale della trattrice.


Fig. 4 : Trattrice ed equazione rispetto a x

La trattrice è una particolare curva geometrica, in cui i segmenti tangenti tra una curva e una data retta risultano di uguale misura; in pratica, un oggetto viene trascinato lungo un piano orizzontale (xy) da un segmento trascinatore di lunghezza costante. Tale segmento mantiene un suo estremo su un punto della retta y che si muove di moto rettilineo uniforme con velocità infinitesimale. 
L'altro estremo è sovrapposto all'oggetto trascinato, il quale rimarrà sempre equidistante da y rispetto alla direzione del proprio moto in quell'istante. 

La rotazione della trattrice (fig. 3 a sinistra) intorno all’asse y consente di costruire la pseudosfera (in fig.3 a destra) 
Il nome deriva dal fatto che la sua curvatura è costante in ogni punto e si oppone a quella di una sfera. 
In ambiente Geogebra si può valutare la variazione della trattrice al variare del parametro a e la diminuzione dell’angolo di rotazione porterà a un’apertura della pseudosfera. 

In geometria, la pseudosfera (superficie che, nelle sue proprietà generali, era già stata studiata da Johann Carl Friedrich Gauss (1777-1855) e da Ferdinand Minding (1806-1885), matematico tedesco di origine russa), è una superficie di rivoluzione generata dalla rotazione della trattrice³ intorno al suo asintoto. 
Tale superficie fu proposta da Eugenio Beltrami come modello di geometria iperbolica nel 1868. 
Essa localmente soddisfa gli assiomi della geometria iperbolica, allo stesso modo di come la superficie di un cilindro localmente è un modello equivalente ad un piano euclideo. che poteva essere interpretata come un modello euclideo di geometria non euclidea. 
Con questo modello dimostrava che la geometria di Lobacevskj aveva lo stesso diritto logico-matematico della classica geometria di Euclide. 
Alla superficie aveva dato il nome di pseudosfera perché ha curvatura costante come una sfera ma di segno negativo.
Per capire come avviene questa "traduzione" occorre introdurre la nozione di geodetica. 
Nel piano il percorso più breve che unisce due punti si trova sulla retta passante per i due punti. 
Estendendo questo concetto alle superfici, il percorso più breve che unisce due punti della superficie si trova su di una linea, generalmente curva, detta geodetica. 
Per esempio, dovendosi muovere sulla superficie di una sfera, il percorso più breve non è quello rettilineo, perché non esistono percorsi di questo tipo, ma è l’arco di cerchio massimo, che in questo caso è una geodetica.


Fig. 5: Tre geodetiche che formano un triangolo su una superficie con curvatura gaussiana positiva da Geogebra
animazione Geogebra

Fig. 6: Un iperboloide, un cilindro e una sfera: si tratta di superfici con curvatura gaussiana (rispettivamente) 
negativa, nulla e positiva.

Anche se nel 1901 Hilbert dimostrerà rigorosamente che il modello descritto da Beltrami ha un valore esclusivamente locale e non può essere accettato come prova matematica, il modello di Beltrami, pur non essendo un modello rigoroso, ha avuto un grande ruolo storico perché ha fornito la chiave per interpretare le nuove geometrie non euclidee.



Friedrich Gauss, Augustin Cauchy, Georg Cantor, David Hilbert 

Sempre di rivoluzione rispetto al vecchio mondo della matematica tradizionale si parla, con l'irruzione dell'analisi complessa, cioè dello studio delle funzioni complesse di numeri complessi.
I numeri complessi, quelli scritti nella forma: 
z = a+ib, 
dove a e b sono numeri reali (a e b coefficienti numerici - a parte reale - b parte immaginaria), mentre la lettera i indica la radice quadrata di -1 

sono però numeri che nella matematica "elementare" non hanno senso, tanto che i matematici cinquecenteschi, che per primi incapparono in questa strana entità (Gerolamo Cardano e Raffaele Bombelli), la definirono "unità immaginaria", e fu Cartesio a definirli "numeri immaginari", mentre fu Eulero a introdurre il simbolo i.
Anche se noti e studiati da tempo, uno dei primi matematici a metterli in luce fu infatti Girolamo Cardano (Ars Magna, 1545), poliedrica figura del Rinascimento italiano, che per primo trattò esplicitamente questi numeri (senza ancora usare il simbolo i), i numeri complessi furono posti al centro dell'attenzione, e sistematicamente indagati da  Johann Carl Friedrich Gauss (1777-1855), il "Principe dei matematici" (Princeps mathematicorum), "il più grande matematico della modernità" (in opposizione ad Archimede, considerato dallo stesso Gauss come il maggiore fra i matematici dell'"antichità").

Annoverato fra i più importanti matematici della storia avendo contribuito in modo decisivo all'evoluzione delle scienze matematiche, fisiche e naturali, Gauss, forzando forse un po' il paragone, potrebbe dirsi che, rispetto alla matematica romantica, occupò il posto che Johan Wolfgang Goethe (1749-1832) ebbe rispetto al romanticismo tedesco. 
Dopo Gauss, il grandissimo e molto bigotto barone Augustin Cauchy (1789 -1857) costruì la "basilica" dell'analisi complessa. 
Uno tra i maggiori matematici suoi contemporanei, Niels Henrik Abel (1802 - 1029), lo definì un "cattolico fanatico", aggiungendo che "era pazzo e non c'era nulla da fare per lui", ma allo stesso tempo lo riconobbe come"il solo che sappia come si fa la matematica".
È raro, con la notevole eccezione di Blaise Pascal, che i matematici abbiano posizioni religiose così estreme, ma sotto questo aspetto, e per le sue posizioni politiche, Cauchy può essere inserito nel filone reazionario, quello della Santa Alleanza e della Restaurazione e fu membro attivissimo delle conferenze di San Vincenzo de Paoli, dando vita a molte società filantropiche nella Parigi del XIX secolo. 
Scienza e fede, secondo lui, non potevano entrare in contrasto perché aventi la stessa origine, ovvero l'opera di Dio.



Un altro aspetto che maggiormente caratterizza la matematica ottocentesca è l'ossessiva, instancabile ricerca del rigore assoluto che, rispetto alla matematica settecentesca, introduce una dimensione nuova, quasi di ansia metafisica, che culminerà con Georg Cantor (1845 - 1918), cultore appassionato di filosofia medievale. 
Fino all'800 le dimostrazioni dei teoremi matematici erano assai approssimative, basate essenzialmente sul buon senso o su un sano realismo. 
Dominava l'idea che la matematica non fosse altro che il linguaggio dell'universo, linguaggio che gli uomini dovevano scoprire e decifrare, e che quindi le proprietà matematiche dovessero verificare un principio di realtà, non essere assurde, ma "ragionevoli". 
Un'idea di buon senso e di ragionevolezza che era alla base dell'illuminismo e che permeava tutti i grandi matematici del `700 dai Bernulli a Eulero

Ma una volta che,  con le geometrie non euclidee e con i numeri complessi, la matematica non era più reale, ma era stata creata dalla ragione umana, allora non poteva essere più basata su un principio di realtà, ma bensì fondata su una propria coerenza interna. 
E Abel fu uno dei primi a mettere in campo il rigore e si occupò di analisi nel tentativo di fornire ad essa una trattazione rigorosa, tanto che in una lettera ad un matematico norvegese si lamentava della “tremenda oscurità che senza alcun dubbio si trova nell'analisi. Essa manca a tal punto di ogni piano sistematico che è sorprendente che tanti uomini siano stati in grado di studiarla. E, quello che è peggio, essa non è mai stata trattata rigorosamente. Ci sono pochi teoremi dell'analisi avanzata che siano stati dimostrati in maniera logicamente sostenibile…”.
È proprio questa ricerca del rigore assoluto che porterà nell'800 prima alla teoria degli invarianti e dei gruppi (James Joseph Sylvester, Thomas Carlyle, Robert Lee Moore) e poi alla grande "cattedrale" della fondazione astratta e assiomatica della matematica, la teoria degli insiemi di Georg Cantor.
Una ricerca di libertà così come affermava Georg Cantor: "L'essenza della matematica risiede nella sua libertà" 
(frase che a sua vola trasformava una celebre frase di Hegel: “L'essenza dello spirito è la libertà”).
Questa ricerca di libertà ma anche di rigore troverà quindi il suo culmine nel programma hilbertiano. 

David Hilbert (1862-1943) proponeva di dotare la matematica di un sistema di assiomi che si auto-dimostrasse. 
Il suo libro Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria), pubblicato nel 1899, ottenne un successo tale da influenzare molti sviluppi della matematica del XX secolo.
Lo scopo dell'autore fu quello di fornire un rigore e un formalismo assiomatico (confrontabili con quelli dell'algebra e dell'analisi matematica) anche alla geometria, disciplina che, come abbiamo visto, durante tutto il XIX secolo aveva avuto un progresso senza precedenti, aveva raggiunto numerosi e importanti risultati ma che, pur ponendosi obiettivi ambiziosi, era ancora priva di basi logicamente solide.
Il risultato di tale opera di assiomatizzazione fu il raggiungimento di un grado di elevata astrazione, ben superiore per consapevolezza e robustezza logica a quello della geometria pre-hilbertiana.

Finché anche il programma hilbertiano venne sbaragliato da Kurt Göde(1906-1978) che con due celeberrimi teoremi (1931) rese vana la ricerca di una non-contraddittorietà dell'edificio matematico.
Arriviamo così al 1931, anno in cui l'epoca eroica della matematica romantica finisce per sempre. 
Ma nel frattempo aveva rivoluzionato il pensiero matematico e i suoi dogmi, aveva scardinato venerabili convinzioni.  
Dopo i trionfi di Cartesio, Leibniz ed Eulero,  di fine '700 la vecchia analisi matematica aveva esaurito la sua spinta propulsiva, tanto che forse il più grande matematico del '700, Joseph-Louis Lagrange (1736-1813), riteneva che il filone fosse ormai esaurito e che la matematica avesse fatto il suo tempo, o che per lo meno si avviasse a una fase di decadenza. 
Tanto che, a parer suo, le cattedre di matematica sarebbero scese al livello di quelle di lingua araba. 

E invece il secolo successivo, l'800, si sarebbe rivelato il più entusiasmante di tutta la storia della matematica mettendo in luce modi diversi di accostarsi alla matematica, teorie rivoluzionarie, ricerca del rigore assoluto e le premesse per quelle che si potrebbero definire due diverse matematiche, del "noto" e dell'"ignoto". 
Una che, per comodità e fissando un termine senza assumerne le connotazioni di giudizio negativo, potremmo definire "cinica" (o opportunistica), opposta ad un'altra che, adottando l'aggettivo dello scrittore Robert Musil (1880 - 1942), possiamo chiamare "passionale". 
La prima è la matematica del regolo calcolatore, delle formule, dell'ingegnere e delle banche, ma anche quella del docente universitario, ed è una matematica del "noto", essenzialmente reazionaria, mentre la seconda è la matematica dell'"ignoto", della promessa, della fantasia e dell'onestà, della mobilità e dell'esercizio esasperato, gratuito e impeccabile. 
E questa matematica,"oscillante tra lo sport estremo e la mistica, assume per sua natura un carattere spiritualmente coraggioso"(come scrive Canetti) se non, come dice Musil, addirittura "audace".
"La matematica è un'ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili" 
(Robert Musil da L'uomo matematico) 

L'uomo matematico, Der mathematische Mensch in tedesco, è un breve saggio di Robert Musil del 1913.
In questo saggio Musil fa alcune considerazioni sul ruolo e la natura della matematica in generale, ma soprattutto nel mondo moderno, evidenziandone il carattere "antieconomico e passionale" [unökonomisch und leidenschaftlich].

Il primo pensiero che viene in mente leggendo questo saggio è che, per come stanno le cose oggi, e per l'idea mercantile che si ha della funzione della cultura, con le sue parole d'ordine, utilità, professionalità, ricaduta, produttività, etc., non passerà molto tempo che ci sarà reso noto (nelle nostre nazioni dell'Occidente) che la matematica, quella "non utilitaristica" di cui sta parlando Musil, sia di fatto diventata un lusso che non possiamo più permetterci.
Il volto non utilitaristico della matematica è per Musil caratteristico del matematico stesso, che "serve la verità". 
Riferendosi alla crisi dei fondamenti della matematica che proprio in quegli anni si presentava, Musil elogia l'atteggiamento del matematico:
"Il matematico imputa questo scandalo intellettuale, in modo esemplare, cioè con fiducia e orgoglio, alla natura diabolicamente pericolosa del suo intelletto".
[Diesen intellektuellen Skandal trägt der Mathematiker in vorbildlicher Weise, das heißt mit Zuversicht und Stolz auf die verteufelte Gefährlichkeit seines Verstandes



Piero della Francesca - Prospettiva anatomico numerica di una testa umana (da De prospectiva pingendi) 
 Reggio Emilia, Biblioteca Comunale

Perché introdurre Robert Musil? Più un letterato che un matematico o un filosofo?
Perché proprio tra Novalis e Musil c'e in mezzo l'esplosione e l'affermarsi della matematica come disciplina autonoma, e soprattutto come libertà di pensiero e perché Musil è stato forse uno degli scrittori che meglio hanno definito la matematica romantica evidenziando i legami stretti tra quella matematica, la conseguente crisi dei fondamenti  e il pensiero filosofico a lei legato.
Dopo essersi iscritto a ingegneria meccanica al politecnico di Brno,  decise quindi di studiare filosofia, psicologia, matematica e fisica all'Università di Berlino e si laureò nel 1908 in filosofia, con una tesi sulle teorie di Ernst Mach, fisico e filosofo austriaco nonché neuroscienziato ante litteram.
Nei suoi scritti si evidenzia il successo del mondo positivista, freddo e robotico, e la delusione del Romanticismo, evidentemente incapace, data l’irrefrenabile corsa della macchina, di far adottare dall’umanità valori superiori a quelli materiali.
Come si legge anche da numerosi passi della sua opera più famosa, L'uomo senza qualità¹, Musil auspica che l'audacia intellettuale e la precisione della matematica  vengano applicate anche al mondo dei sentimenti, che, 
"senza intelletto – fatte le debite eccezioni – è grasso come un ricciolo di burro". 
Per Musil 
"l'intelletto [...] appena tocca il sentimento diventa spirito" e la coniugazione di queste due facoltà umane spetterebbe ai poeti, che tuttavia "non sanno che pesci pigliare, e si consolano imprecando". 
Il matematico è visto, in termini che ricordano il concetto di Übermensch di Nietzsche (Oltreuomo o Superuomo), come "un'analogia dell'uomo spirituale dell'avvenire", poiché sa "fare nel proprio campo ciò che noi dovremmo fare nel nostro".
"La loro vita [dei matematici] ha molto da insegnarci e può essere per noi un modello: i matematici sono un'analogia dell'uomo spirituale dell'avvenire. 

"La matematica è una meravigliosa apparecchiatura spirituale fatta per pensare in anticipo tutti i casi possibili"
(Robert Musil da L'uomo senza qualità)

Disputa tra 'Platone e Aristotele' o 'la Filosofia' - Luca Della Robbia (1400 - 1482) 
Formella in marmo, proveniente dal lato nord del campanile di Firenze, basamento inferiore  
Museo dell'Opera del Duomo

E oggi, quasi 90 anni dopo i teoremi di Gödel, la matematica continua a pullulare di invenzioni, creazioni, scoperte. 
Ma è venuto meno l'afflato che nell'800 ne ha permesso lo splendido rigoglio ed è stato al culmine di quella sontuosa fioritura della matematica che entrò di forza nella filosofia e nella discussione generale, con Bertrand Russell, Ernst Cassirer, Ludwig Wittgenstein
Oggi la distanza della matematica e della scienza dalla filosofia si può cogliere anche da questa frase che nel settembre 2010 Stephen Hawking sparò come una bordata che risuonò in tutto il mondo accademico e non solo. 

"La filosofia è morta", perché "i filosofi non hanno tenuto il passo con gli sviluppi moderni della scienza, in particolare della matematica e della fisica. Gli scienziati sono diventati i portatori della torcia della scoperta nella nostra ricerca della conoscenza."

Ma forse non è proprio così e lo stesso Stephen Hawking rifletteva molto profondamente sulla fonte della conoscenza umana. 
Ciò che si può dire è che ne sapeva di scienza più (della maggior parte) dei filosofi di professione e che si basava sulle osservazioni e sugli esperimenti più che sul puro pensiero, ma non che non stava filosofando. 
Di sicuro, quindi, la filosofia non è morta e queste sue parole si attagliano più propriamente alle varianti del puro pensiero, come quelle che comprendono la fisica e la metafisica cosmologica, non certo ai vitali contributi, che ancora oggi vengono dati dalla filosofia al pensiero umano in campi come l'etica, l'estetica, la politica e, forse ancora più importante, all'epistemologia. 
Concludo con le parole di Carlo Rovelli in risposta⁴ ai fisici  Stephen Hawking e Steven Weinberg, ma anche a quelle correnti filosofiche che considerano il sapere scientifico "inautentico" o di serie b, oppure una forma di organizzazione dei pensieri arbitraria e non più efficace di altre. 

"Una scienza che considera morta la filosofia appassisce per superficialità, così come una filosofia che non presta attenzione al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile e tradisce la sua stessa radice profonda, quella della sua etimologia⁵: l’amore per il sapere"




Note

¹ La sua opera principale è il romanzo (incompiuto) Der Mann ohne Eigenschaften (L'uomo senza qualità), una delle pietre miliari della letteratura di tutti tempi, di cui il primo volume pubblicato nel 1930, prima parte del secondo volume edita nel 1933, e ultima parte, rimasta incompiuta, dopo la morte dell'autore.
² "La matematica relativistica della seconda metà dell'Ottocento", di Rossana Tazzioli, pubbl. su "Le Scienze", num.338, ott.1996, pag.68-73
³ La trattrice è una particolare curva geometrica che viene chiamata anche col nome di "curva di inseguimento" o "curva di caccia". 
Fu introdotta per la prima volta da Claude Perrault nel 1670, e studiata in seguito da Isaac Newton nel 1676 e da Christian Huygens nel 1692. 
⁴ Dall'intervento di Carlo Rovelli alla conferenza alla London School of Economics, in Gran Bretagna, sul tema: "Serve la filosofia alla scienza?". (video della conferenza qui)
L'intervento aveva chiuso il "Congresso europeo di filosofia della fisica" del luglio 2016, e aveva risposto a una serie di recenti commenti pubblici molto negativi sulla filosofia, da parte di due scienziati assai noti: Stephen Hawking che aveva ribadito che "la filosofia è morta", perché ora abbiamo la scienza, e il premio Nobel Steven Weinbergun che aveva intitolato un capitolo del suo libro, appunto, "Contro la filosofia".
Recentemente i due famosi fisici avevano infatti sostenuto l’inutilità della ricerca speculativa e quindi era tornata ad infiammarsi una disputa che divise Atene ai tempi di Platone. 
Conferenza in cui ancora una volta la fisica aveva affrontato le questioni fondamentali: qual è la natura del tempo? Qual è la natura dello spazio? Qual è il ruolo della mente nella descrizione della realtà? 
A domande di questo tipo, aveva risposto il fisico e autore di best-seller Carlo Rovelli, sostenendo che non possono essere affrontate senza consapevolezza filosofica.
⁵Filosofia (in greco antico: φιλοσοφία, philosophía, composto di φιλεῖν (phileîn), "amare", e σοφία (sophía), "sapienza", ossia "amore per la sapienza")

Fonti

Storia della matematica - Carl. B. Boyer - Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1990
Appunti di Storia delle Matematiche - M. Sfoglianti - Facoltà di Matematica 'Federigo Enriques'
Dalla geometria di Euclide alla geometria dell'Universo - Geometria su sfera, cilindro, cono, pseudosfera - Autori: F.Arzarello, C.Dané, L. Lovera, M. Mosca, N. Nolli, A. Ronco, 2012
Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria - Imre Toth - Vita e Pensiero, Milano 1997

L'uomo matematico di Robert Musil

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"La matematica è un'ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili"

Questo saggio "L'uomo Matematico" di Robert Musil, evidenzia come il suo approccio con la matematica consista principalmente in due diverse operazioni concettuali: da un lato, identifica gli aspetti irrazionali e passionali di questa scienza, d'altra parte, suggerisce anche l'uso della matematica e la sua duplice natura per risolvere il conflitto tra la sfera emotiva e quella intellettuale dell'uomo, che per lui rappresentava la causa fondamentale della crisi della modernità.



Tra le molte sciocchezze che fa dire, sulla matematica, l'ignoranza della sua vera natura, ce n'è una che consiste nel qualificare i grandi capitani  come "matematici del campo di battaglia". In effetti, se si vuole evitare la catastrofe, bisogna che i loro calcoli logici non superino l'innocente semplicità delle quattro operazioni. L'improvvisa necessità di una deduzione così moderatamente sottile e complessa, come risolvere una semplice equazione differenziale, costerebbe la vita a migliaia di uomini.

Non è per attaccare la strategia, ma è per difendere la singolarità della matematica. Si dice che rappresenti per il pensiero il massimo dell'economia, e senza dubbio ciò è esatto. Ma il fatto stesso di pensare è una questione oscura e problematica. È diventato da tempo (anche se inizialmente è stato un semplice risparmio biologico) una passione complessa da spendere, che non si preoccupa più dell'aggiornamento del risultato di quanto all'avaro della sua povertà, lentamente, voluttuosamente, convertito al suo contrario.

La matematica consente, in condizioni favorevoli, di eseguire in pochi istanti un'operazione, come l'addizione di una serie infinita, che non sarebbe mai possibile completare diversamente. Si possono eseguire a macchina calcoli logaritmici complessi fino alle integrazioni; il lavoro del calcolatore (di colui che calcola) moderno si limita alla disposizione dei dati del problema e alla rotazione di una manovella o alla pressione di un pulsante. Così, un semplice assistente è in grado di esplicare problemi che il suo insegnante, solo duecento anni fa, non avrebbe potuto risolvere senza consultare Newton a Londra o Leibniz ad Hannover. E anche per i problemi che la macchina non è ancora in grado di risolvere (naturalmente, molti di più), si può considerare la matematica come un ideale apparato intellettuale il cui scopo e successo è quello di prevedere, dai principi, tutti casi possibili. 

Questo è il trionfo dell'organizzazione razionale. Alle grandi strade della ragione, minacciate dal maltempo e dai briganti, sono state sostituite le linee di vagoni letto. Dal punto di vista dell'epistemologia, non c'è dubbio che sia un'economia. 

Ci si è chiesto quale proporzione di questi casi possibili serva realmente. Si è calcolato quanta vita umana, denaro, fatica e ambizione siano stati spesi nella storia di questo enorme sistema di risparmio, quanti ve ne sono ancora investiti e dovrebbero esserlo, se non altro per non perderne l'acquisizione; e si è fatto un tentativo per bilanciarli con profitto. Ancora una volta, questo dispositivo, certamente complicato, ingombrante, si è dimostrato economico e propriamente incomparabile. La nostra intera civiltà gli deve la sua esistenza, e non possiamo sapere con quali altri mezzi potrà essere sostituita; soddisfa pienamente ai bisogni a cui risponde, e la generosità del suo funzionamento a vuoto è uno di quei fatti unici che vanno oltre le critiche. 

Bisogna quindi distogliere lo sguardo dai profitti estrinsechi, applicarlo, anche all'interno della matematica, alla distribuzione degli elementi rimasti inutilizzati, per scoprire l'altro volto, il vero volto di questa scienza. Quindi, niente meno che efficace, si rivela di natura dispendiosa e appassionata. L'uomo medio usa poco più di quanto la scuola primaria gli abbia insegnato; l'ingegnere, quel tanto che basta per ritrovarsi nelle colonne delle formule dei manuali tecnici, cioè non molto; il fisico stesso di solito lavora con mezzi matematici relativamente poco differenti. Ne hanno bisogno in modo diverso, sono per lo più dipendenti da loro stessi, perché i matematici sono meno interessati a tali adattamenti. Ecco come, nei numerosi domini di questa scienza (aree d'importanza pratica incontestabile), gli specialisti si trovano a essere dei non-matematici. 

Ma ci sono regni incommensurabili che sono lì solo per il matematico: un'enorme rete neurale si è accumulata attorno ai punti di partenza di alcuni muscoli rari. È da qualche parte là dentro che il matematico lavora isolato: le sue finestre non danno all'esterno, ma nelle stanze vicine. È uno specialista: perché nessun genio è in grado di controllare tutto. Senza dubbio pensa che un giorno il suo lavoro porterà qualche vantaggio sfruttabile, ma non è ciò che lo stimola; è al servizio della verità, cioè del destino in sè, non del fine di questo destino. Il risultato pratico della sua attività sarebbe un miracolo di economia, ciò che vive in esso è prodigalità e passione.

La matematica è un'ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili. Anche i filologi si dedicano spesso ad attività nelle quali essi per primi non intravedono il minimo profitto, per non parlare dei filatelici e dei collezionisti di cravatte. Ma si tratta di manie innocenti che si sviluppano molto lontano dalle cose serie della vita, mentre la matematica proprio in esse abbraccia alcune delle avventure più appassionanti e incisive dell'esistenza umana. Un piccolo esempio: praticamente, si può dire che viviamo interamente dai risultati di questa scienza, di cui essa stessa si disinteressa completamente. Cuociamo il pane, costruiamo le case e facciamo andare avanti i mezzi di locomozione, grazie a lei. Ad eccezione di alcuni manufatti: mobili, vestiti, scarpe fatti a mano e bambini, tutto ci viene fornito dal coinvolgimento delle operazioni matematiche. Tutta questa vita intorno a noi che corre, circola o resta immobile, non solo dipende dalla matematica per la sua comprensione: elle ne è effettivamente il ​​prodotto, si basa, nell'infinita varietà delle sue determinazioni, su di lei. I pionieri della matematica crearono, da alcuni elementi di base, delle rappresentazioni utilizzabili: da questi derivarono  inferenze, sistemi di calcolo e risultati che i fisici adottarono per nuove scoperte; infine arrivarono ​​i tecnici, che spesso si sono accontentati di aggiungere a questi risultati alcuni calcoli supplementari e fecero apparire le macchine. Ora, quando tutto ciò aveva preso la forma più bella del mondo, i matematici - infaticabili ricercatori teorici -giunsero alla conclusione che qualcosa nelle fondamenta dell'intera faccenda era assolutamente fuori luogo: e trovarono, andando al fondo delle cose, che l'intero edificio poggiava sul nulla! Ma le macchine stavano funzionando ... Eccoci dunque ridotti ad accettare che la nostra esistenza sia pura fantasmagoria; la viviamo, certo, ma solo sulla base di un errore senza il quale non esisterebbe! Nessun uomo oggi è più vicino al fantastico del matematico. 

Questo scandalo intellettuale, il matematico lo imputa, in modo esemplare, cioè con fiducia e orgoglio, alla natura diabolicamente pericolosa della sua intelligenza. Potrei citare altri esempi, come l'inesorabilità con cui i fisici hanno a volte negato la realtà dello spazio e del tempo. E questo, non certo per aria, come accade ai filosofi (che sono immediatamente scusati per la loro professione), ma facendo affidamento su ragioni che all'improvviso, come la presenza di un'automobile di fronte a te, è terribilmente degno di fede. Ma questo è sufficiente per capire di chi ci stiamo occupando. 

Quanto a noi, sin dall'Illuminismo, abbiamo perso il coraggio. Un piccolo insuccesso è bastato a disgustarci dell'intelligenza, e lasciamo che il primo uomo esaltato venga a tacciare di razionalismo vuoto il tentativo di un Diderot o di un D'Alembert.  Ribolliamo per il sentimento contro l'intelletto, dimenticando che il sentimento senza intelletto - con rare eccezioni - è una vescica di grasso. Abbiamo già danneggiato così seriamente la nostra poesia, che dopo aver ingoiato due romanzi tedeschi uno dopo l'altro, tutto ciò che dobbiamo fare è risolvere rapidamente un integrale, per sgonfiarlo. 

Non veniteci a dire che i matematici, fuori dalla loro specialità, sono esseri banali o stupidi, a cui la loro stessa logica non serve a niente. È che la loro logica non ha più un posto e che essi fanno nel loro campo ciò che dovremmo noi fare nel nostro. Questa è la lezione considerevole ed esemplare della loro esistenza: sono un'analogia dell'uomo spirituale che verrà. 

Per poco che questa serietà abbia superato le battute permesse qui a proposito di loro, le seguenti conclusioni non sembreranno troppo inattese. Ci lamentiamo che non esiste una cultura del nostro tempo. Questo può essere inteso in modo diverso; ma fondamentalmente la cultura è sempre stata un'unità o attraverso la religione o attraverso una forma sociale o attraverso persino l'arte. Siamo diventati troppo numerosi per una società; troppo numerosi anche per una religione (cosa che qui possiamo solo affermare, non provare). E per quanto riguarda l'arte, il tempo in cui viviamo è il primo che non può amare i suoi artisti. Tuttavia, questa stessa epoca non solo vede attive energie intellettuali quali non ce ne sono state mai, ma è venuta a conoscenza anche di un'armonia e di un'unità della mente finora insospettabili. Pretendere che tutto ciò non riguardi che un sapere limitato sarebbe stupido: da molto tempo ormai, il vero obiettivo è il pensiero in generale. Senza dubbio questa forma di pensiero, con le sue esigenze di profondità, audacia e novità, è per il momento limitata al dominio esclusivamente razionale e scientifico. Ma questa mente si divora su se stessa e non appena afferra il sentimento, diventa spirito. Ai poeti è possibile fare questo passo. Per fare questo, non devono imparare alcun metodo (psicologico, per amor di Dio o cose del genere); solo per imporre le loro necessità. Invece, essi si accontentano di considerare la loro situazione con perplessità e si consolano bestemmiando. E se i contemporanei non possono più, da soli, trasferire il loro livello di pensiero nell'umano, percepiscono ciò che è sotto il loro livello.

[Traduzione di Annalisa Santi da Der mathematische Mensch saggio di Robert Musil, pubblicato, in modo anonimo, sulla rivista Der lose Vogel (n. 10/12, aprile-maggio 1913)]


Fondazione Prada.....arte e curiosità matematiche

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Una stupenda performance jazz di Enrico Intra in occasione di Piano City Milano 2018, alla Fondazione Prada, è stata l'occasione per scoprire questo luogo davvero affascinante, con la sua Torre che si erge sul complesso espositivo. nato per volontà di Miuccia Prada nell'area dell'ex distilleria SIS (Società Italiana Spiriti), fabbrica risalente agli anni 10 del ‘900 come SDI (Società Distillerie Italiane), in cui si produceva il brandy Cavallino Rosso.
Una Torre imponente di 60 metri d’altezza per una superficie complessiva di 2.000 metri quadrati, in cui l'arte contemporanea fa da padrona e da cui si aprono panorami urbani mozzafiato. 
Creata da Rem Koolhaas con Chris van Duijn e Federico Pompignoli dello studio OMA, ha una caratteristica geometrica particolare se non unica, cioè quella di avere zone sviluppate su base trapezoidale e altre su base rettangolare, offrendo così punti di vista sempre diversi dove i grandi spazi con vetrate luminose riescono a creare giochi di luce e di volumi suggestivi che esaltano le installazioni e le opere, all’interno dei sei livelli espositivi della Torre (di nove piani) dove è ospitato infatti il progetto “Atlas” nato da un dialogo tra Miuccia Prada e Germano Celant


Installazioni di Pino Pascali - Foto © Annalisa Santi, 2018

Vorrei però soffermarmi solo sul quinto piano della Torre dove lo sguardo si allarga nello spazio immenso di una sala dedicata a tre opere dell'artista pugliese Pino Pascali (Bari, 19 ottobre 1935 – Roma, 11 settembre 1968), accostate ai lavori dello statunitense Michael Heizer.
Ai due estremi della sala si trovano "Pelo", una specie di gigantesco “pouf” di pelo grigio e "Meridiana", un enorme gnomone di legno e stoffa per segnare il tempo e in mezzo "Le confluenze" di acqua e anilina.
Quindi quella che potrebbe anche sembrare un'enorme puntina capovolta, potrebbe rappresentare nella "Meridiana" di Pascali lo gnomone (in greco γνώμων, gnṓmōn, conoscitore) che normalmente è la parte della meridiana che proietta la sua ombra su una superficie orizzontale o verticale, detta quadrante.

L'orologio solare si fa risalire ai Babilonesi (semisfera cava detto Polos) e la parola gnomone anche allora denotava un bastone piantato verticalmente la cui ombra era usata per misurare il tempo, ma per i Pitagorici, lo gnomone era la squadra da falegname.
Ma non solo!
L'aritmogeometria, uno dei filoni di ricerca di Pitagora di Samo (572 circa a.C. – fine VI sec a.C.) e della sua scuola è l’uso, finalizzato ad ottenere conoscenze di tipo aritmetico, di un algoritmo consistente nel rappresentare i numeri naturali con configurazioni geometriche di punti. 
Tali configurazioni sono dette numeri figurati o poligonali e tra essi spiccano gli gnomoni appunto, i numeri quadrati e  i numeri triangolari.

I Pitagorici erano soliti rappresentare i numeri mediante punti sulla sabbia o mediante ciottoli e classificavano i numeri a seconda delle forme che si ottenevano disponendo nei vari modi i punti o i ciottoli che li rappresentavano.
Proprio i numeri figurati evidenziano gli intimi legami che connettono il pensiero pitagorico con il concetto di numero e, secondo Nicomaco di Gerasa (fine I secolo d.C.), proprio mediante l’aritmogeometria i Pitagorici scoprirono le semplici proprietà dei numeri figurati

I numeri 1, 4, 9 ,16, 25, … erano chiamati numeri quadrati perché, intesi come punti, potevano essere disposti in un quadrato. 
Per passare da un numero quadrato al successivo i Pitagorici usavano il seguente schema:




e i punti situati a destra e al di sotto delle linee rosse formavano quello che essi chiamavano uno gnomone,
Quindi col nome gnomone chiamavano quello che essi vedevano e che così si definisce:

sottraendo da un quadrato il quadrato immediatamente precedente si ottiene uno gnomone, che è sempre un numero dispari 

e che in simboli si rappresenta:

(n + 1)² - n² = 2n + 1

Per esempio il numero n=72, che nella Smorfia, la cabbalah napoletana, si associa "a maraviglia", forma lo gnomone 145 infatti:

n=72
(72 + 1)² - 72² = 2x72 + 1
73² - 72² = 144 + 1
5329 - 5184 = 145

Inoltre, partendo da 1 e aggiungendo lo gnomone 3, poi lo gnomone 5, e così via si ricava che:

un generico numero quadrato si ottiene sommando i numeri dispari, a partire dall’unità

e che in simboli si rappresenta:

n² = 1 + 3 + 5 + 7........ + (2n - 1)

Per esempio se n=4

4² = 1 + 3 + 5 + (2x4 - 1) = 1 + 3 + 5 + 7 = 16

Ma oltre ai numeri quadrati e agli gnomoni, interessanti sono anche i numeri triangolari.



I numeri 1, 3, 6,10,15.....erano detti numeri triangolari perché i corrispondenti punti potevano essere disposti a triangolo. 
Essi sapevano che un generico numero triangolare si ottiene sommando i primi n numeri naturali, in simboli

Tn = 1 + 2 + 3 + 4 +............+ (n - 2) + (n - 1) + n = n(n +1)/2

Da come osservò Pitagora, e da come si osserva, quindi un numero si dice traingolare Tn se è possibile visualizzarlo con un triangolo equilatero di lato n.
Ma Pitagora come arrivò a determinare per esempio un T100?

T100 = 1 + 2 + 3 +4 +5 +6 +............+100

E' ben difficie pensare che l'abbia fatto contando i punti o i sassolini, via via che si aggiungevano, o forse arrivò alla determinazione della formula:

Tn = n(n + 1)/2 
T100 = 100x101/2 = 5050

come fece Gauss?

Non è dato saperlo, come non è dato sapere come lo stesso Pitagora abbia dimostrato il suo famoso teorema sui triangoli rettangoli.
Tanto più che secondo Porfirio (nella sua "Vita di Pitagora"):

"I più dicono che egli apprese le cosiddette scienze matematiche dagli Egizi, dai Caldei e dai Fenici; ché già nei tempi più antichi gli Egizi si dedicarono allo studio della geometria, i Fenici allo studio dell'aritmetica e della logistica, i Caldei all'osservazione degli astri” 

Sta di fatto che noi conosciamo le varie dimostrazioni geometrica, intuitiva, per induzione.......attribuite a Gauss.



Immagine © Theoni Pappas, 1993

Si racconta che Carl Friedrich Gauss fosse un bambino prodigio ed esistono diversi aneddoti riguardo alla sua precocità....per esempio, Gauss, almeno secondo la leggenda, a 3 anni avrebbe corretto un errore del padre nel calcolo delle sue finanze.
Un altro aneddoto, più verosimile, racconta che a 7 anni, il suo insegnante, J.G. Büttner, per mettere a tacere i turbolenti allievi, ordinò loro di fare la somma dei numeri da 1 a 100. 
Quasi subito il bimbo Gauss diede la risposta esatta, sorprendendo l'insegnante ed il suo assistente Martin Bartels. 
Non si è certi di quale metodo abbia adottato Gauss....forse geometrico o forse mise in una riga i numeri da 1 a 100 e in una riga sotto i numeri da 100 a 1, e vide che ogni colonna dava come somma 101....Carl moltiplicò quindi 100 × 101 e divise per due, ottenendo il risultato 5050.
Però i dettagli della storiella sono incerti (vedere fonte originaria nella biografia di Wolfgang Sartorius von Waltershausen"Gauss zum Gedächtnis" edito nel 1862  e i cambiamenti in altre versioni), Joseph J. Rotman nel suo libro "A first course in Abstract Algebra", si chiede se ciò sia realmente accaduto e Joaquin Navarro sostiene che in realtà Büttner avesse assegnato un compito ancora più complesso.



Intuitivamente, come pare abbia potuto fare Gauss, ci accorgiamo che disponendo 2 volte Tn in modo simmetrico 
1  +     2     +     3  + 4 + 5 + .................... (n-2) + (n - 1) + n
n + (n - 1) + (n - 2) +.....................5 + 4  + 3     +     2     + 1
e sommando in colonna otteniamo n volte la somma (n + 1)
da cui appunto

2Tn = n(n + 1) -> Tn = n(n + 1)/2


Se preferiamo una giustificazione geometrica, possiamo pensare di disporre i numeri figurati come triangoli rettangoli isosceli, accostandogli vicino un triangolo uguale (congruente, come ci insegnavano alle medie), ottenenendo così un rettangolo che ha un numero di righe pari al numero n che era originariamente rappresentato dal triangolo, mentre un numero maggiorato di uno (n + 1) per le colonne. 
Si ottiene così un rettangolo di lati n e n+1, che è formato da n(n+1) punti, il doppio di quelli del triangolo.
Quindi per calcolarne la somma basta dividere per 2.

Decisamente ho divagato e da una scultura esposta alla Fondazione Prada sono addirittura finita a parlare del grande Gauss.
Lo gnomone della Meridiana di Pascali mi ha ricordato queste curiosità matematiche che spero abbiano stuzzicato anche l'interesse dei lettori.


L'arte della matematica....lettere tra Simone e André Weil

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André Weil fu un giorno presentato a una conferenza come il più grande matematico vivente ed egli, risentito, sembra abbia ribattuto: 
"Sono semplicemente il più grande matematico"

Simone e André Weil - L'arte della Matematica - Adelphi - 2° edizione marzo 2018

André Weil, a parte gli eccessi di presunzione che spesso lo hanno caratterizzato, grande matematico lo fu davvero, uno dei più grandi del '900.
Io lo conoscevo soprattutto per la sua opera fondamentale "Teoria dei numeri", pubblicata da Einaudi.
Dopo un'introduzione storica dedicata in gran parte a Diofanto, Weil analizza quattro grandi autori (Fermat nel '600, Eulero nel '700, Lagrange e Legendre tra '700 e '800) che danno alla teoria dei numeri la forma che in gran parte è ancora quella che conosciamo oggi e su cui tuttora i matematici indagano.
Il famoso "ultimo teorema di Fermat", al tempo dell'uscita del libro non era ancora stato dimostrato, e così commentava, nella sua prefazione al libro, un altro grande matematico contemporaneo e medaglia Fields nel 1974, Enrico Bombieri:
"La caratteristica dell'opera di Weil è il rigore quasi monastico delle idee, unito a un'ampiezza di respiro che troviamo soltanto nei grandissimi matematici. Le dimostrazioni di Weil raramente sono complicate, e sono invece caratterizzate da economia di mezzi, sintesi e lucidità straordinaria di esposizione".
Weil si occupò infatti, in particolare, di teoria dei numeri e di geometria algebrica e fu uno dei fondatori del gruppo bourbakista, il più importante movimento matematico del Novecento.
Noto per alcuni aneddoti legati al suo carattere stravagante e sicuramente poco socievole, sosteneva infatti l'inutilità della divulgazione matematica:
"E' inutile parlare di matematica a chi non è matematico"
tanto più che il suo concetto di "matematico" era tranchant:
"Si può definire matematico soltanto chi ha scoperto almeno un nuovo teorema".
Insomma un personaggio a cui non avrei certo potuto attribuire pensieri come quelli da me scoperti in un carteggio tra lui e la sorella Simone Weil, in un libro regalatomi da un'amica, "L'arte della matematica"
Si perché in queste poco più di 100 pagine, molto interessanti anche per i riferimenti storici e filosofici, si percepisce il pensiero di Weil, forse meno noto, che dal carcere di Le Havre e di Rouen, in cui era detenuto per espiare la condanna di renitenza alla leva (André riteneva suo dovere "fare il matematico e non la guerra"), scrive alla sorella Simone, grande filosofa a sua volta, su un tema interessante per entrambi, seppure per esigenze diverse, sul significato di proporzione e incommensurabilità tra i numeri. 


André e Simone Weil (1922)

In questo confronto tra Simone Weil e André Weil si può riconoscere anche un dibattito che caratterizza ancora oggi la matematica.
Un confronto che si accende sull’antica questione della commensurabilità/incommensurabilità fra grandezze, tema centrale della matematica greca.
Da una parte c'è André che cerca di spiegare da matematico professionale, ma anche intellettuale, come lui faccia matematica, e perché. Dall'altra c'è Simone, abbastanza digiuna di matematica, ma filosofa profonda ed esigente, che nelle sue parole sembra cercare verità assolute.
Il tutto in otto lettere di Simone Weil (tra le quali una minuta, due abbozzi e un testo mai spedito) e quattro del fratello André, tutte scritte tra febbraio e aprile 1940.
Un confronto che fa emergere le differenze sostanziali di pensiero tra i due fratelli:
"... la matematica non è altro che un'arte; una sorta di scultura in una materia estremamente dura e resistente (come certi porfidi che a volte usano, credo, gli scultori)" 
afferma André Weil, a cui ribatte Simone:
"Tu parli di arte e di materia dura; ma io non riesco a concepire in che cosa consista questa materia. Le arti propriamente dette hanno una materia che esiste nel senso fisico della parola. La stessa poesia ha per materia il linguaggio visto come un insieme di suoni. La materia dell'arte matematica è una metafora; e a che cosa corrisponde questa metafora?" 

Simone Weil con, da sinistra a destra, André Weil, Henri Cartan, e Jean Delsarte (1937)

".......Visto che di tempo ne hai anche troppo - scrive nella prima lettera che apre il libro, del 10 febbraio 1940 (pag.12), Simone Weil all'amatissimo fratello maggiore - un'altra buona occupazione potrebbe essere metterti a riflettere sul modo di far intravedere a profani come me in che cosa consistano esattamente l'interesse e la portata dei tuoi lavori....."e una decina di giorni dopo insiste "Cosa ti costerebbe tentare? Ne sarei entusiasta". 
André, anche se a caldo le aveva risposto: 
"Quanto a parlare delle mie ricerche o di qualsiasi altra ricerca matematica ai non-specialisti, tanto varrebbe spiegare una sinfonia a dei sordi, mi sembra" (pag.18)
di fronte alle domande che lei continua a sottoporgli in un modo così fervido e acuto, finisce per cedere. 
Inizia così uno scambio che è un insieme di passione intellettuale, competenza ma anche e soprattutto affetto, che li porta anche a scontrarsi su punti basilari, come appunto la scoperta degli incommensurabili e il carattere della scienza greca. 
Lettere che dimostrano la grande capacità dei due fratelli di dialogare su Pitagora o sull'Odissea, di cardinali abili nelle strategie di corte o dell'importanza del sanscrito, di dissertare su Dedekind o su Gauss...
Certo entrambi sono capaci di parlarne ma dandone interpretazioni quasi diametralmente opposte e proprio in questo consiste il fascino del carteggio.
André teorico dei numeri vi vede il fallimento dei pitagorici, Simone, al contrario, ci vede una vittoria, una specie di via verso l’assoluto mistico.

Per Simone infatti la geometria greca misura il mistero.
"Possiamo chiederci perché i Greci si siano tanto applicati allo studio della proporzione. Si tratta senz’altro di una preoccupazione religiosa, e di conseguenza (dato che si tratta della Grecia) in parte estetica. Il legame fra le preoccupazioni matematiche da un lato e quelle filosofico-religiose dall’altro, legame la cui esistenza è storicamente attestata per l’epoca di Pitagora, risale certamente a molto tempo prima. Infatti Platone, che è estremamente tradizionalista, dice spesso: «Gli uomini antichi, che erano molto più vicini di noi alla luce...» (alludendo evidentemente a un’Antichità ben più remota di quella di Pitagora); d’altro canto affiggeva sulla porta dell’Accademia: «Nessuno entri qui se non è geometra », e diceva: «Dio è un perpetuo geometra». Fra i due atteggiamenti vi sarebbe contraddizione – il che è da escludersi – se le preoccupazioni da cui è nata la geometria greca (in mancanza di questa stessa geometria) non risalissero a un’Antichità remota; si può ipotizzare che provengano o dagli abitanti preellenici della Grecia, o dall’Egitto, o dagli uni e dall’altro. Del resto l’orfismo (che ha questa duplice origine) ha ispirato il pitagorismo e il platonismo (che sono in pratica equivalenti) al punto che ci si può domandare se Pitagora e Platone non abbiano fatto altro che chiosarlo. Quasi sicuramente Talete è stato iniziato ai misteri greci ed egizi, e di conseguenza, dal punto di vista filosofico e religioso, era immerso in un’atmosfera analoga a quella del pitagorismo. Penso dunque che la nozione di proporzione sia stata fin da un’Antichità abbastanza remota oggetto di una meditazione che costituiva uno dei procedimenti di purificazione dell’anima, forse il procedimento principale. È fuor di dubbio che questa nozione era al centro dell’estetica, della geometria, della filosofia dei Greci"
(dalla lettera, probabilmente del marzo 1940, di Simone Weil al fratello André pag. 38-39)

A lei così risponde André: 
".....quel che dici sulla proporzione suggerisce che agli inizi del pensiero greco si sia avuto un sentimento della sproporzione fra il pensiero e il mondo (e, come dici tu, fra l’uomo e Dio) di un’intensità tale che hanno avuto bisogno di gettare a ogni costo un ponte al di sopra di quell’abisso. Che abbiano pensato di trovare quel ponte (e solido, e incrollabile) nella matematica non è minimamente credibile. O almeno può essere stato vero per certe scuole; lo spirito di Eschilo, che era stato iniziato ai misteri di Eleusi, mi sembra abbastanza diverso. Ma si sa che con l’espediente dell’esoterismo si spiega tutto ciò che si vuole... Gli Indù invece hanno cercato in tutt’altra direzione: dire che l’uomo è identico a Dio, all’universo, ecc. dispensa evidentemente dal costruire un ponte. Mi domando tuttavia se per Platone (nel quale, mi pare, non c’è la minima traccia di angoscia, e forse per questo Nietzsche lo odiava tanto) la frase «nessuno entri qui...» non sia da interpretare, molto più piattamente, nel senso che la matematica è «una ginnastica della mente»: queste parole, che in noi evocano solo idee di una scoraggiante banalità, potevano avere un significato forte per chi vedeva nella ginnastica ben altro, rispetto a noi. Del resto tutto ciò non sarebbe che una sorta di trasposizione, su un piano più banale (com’è opportuno quando si tratta di quell’epoca) e più secolare, della tua ipotesi sulla proporzione come procedimento di purificazione, se con ciò intendi (come presumo) un procedimento, un mezzo in certo qual modo ausiliario. Ma vorrei sapere in maniera un po’ più precisa: un mezzo in vista di che cosa? Vi è traccia, in epoca arcaica, di pratiche ed esercizi mistici? "
(dalla lettera del 28 marzo di André Weil alla sorella Simone - pag. 73-74)) 


André e Simone Weil

Proseguendo nella lettura si coglie sempre più l'intreccio dei fili di filosofia e matematica che reggono la conversazione a distanza tra i due,  attingendo a un campo che eccede entrambe le discipline. 
Nelle lettere, malgrado l’iniziale ritrosia (quasi inutilità espressa da André) vengono invece affrontati problemi come la nozione di numero e di rapporto, di analogia e di proporzione, di commensurabilità e di incommensurabilità, che conducono inevitabilmente verso il sapere misterico, l’orfismo e il pitagorismo, soprattutto per Simone, persuasa che l’assillo della matematica greca fosse non il calcolo ma il raggiungimento della purezza dell’anima. 
"......'Imitare Dio' ne era il segreto e lo studio della matematica – ribatte Simone al fratello – aiutava a imitare Dio in quanto consideravano l’universo come sottomesso alle leggi matematiche, il che faceva del geometra un imitatore del legislatore supremo, un artista capace di rendere sensibile 'l’affinità tra la mente umana e l’universo' e dunque offrire 'il mondo come la città di tutti gli esseri dotati di ragione'....."

Davvero una lettura inaspettata e fascinosa che mi ha appassionato e impegnato nello stesso tempo per la profondità e la complessità dei temi toccati, in un epistolario che diventa quasi un sunto di "filosofia" e "trattato di matematica" da parte di questi due grandi del pensiero, André e Simone Weil, due personaggi chiave della cultura del Novecento, ma così diversi.
Alla rigidità con cui André si approccia alla matematica e alla sua idea che è impossibile fare opera di divulgazione di questa scienza esclusiva si contrappone lo spirito della sorella Simone, filosofa, mistica e scrittrice che sembra impegnata a interpretare gli scritti del fratello come arte e poesia. 
Due mondi apparentemente lontani e contrapposti dove però numeri e parole dialogano con passione ed emerge la forza con cui Simone difende le sue idee a cui si contrappone, ma con amore, il fratello André.
Due vite anche molto diverse. 
Simone, morta a soli trentaquattro anni, fu conosciuta al mondo solo successivamente grazie all’impegno editoriale di Albert Camus, che la definì  "l'unico grande spirito dei nostri tempi" e André, il grande matematico, che a Princeton tutti conoscevano e chiamavano il "mostro sacro" (se si toglie l'aggettivo si ha anche un'idea dell'opinione che molti suoi colleghi del prestigioso Institute for Advanced Study avevano di lui) che invece visse una lunga anche se travagliata esistenza conclusa nel 1998, all’età di novantadue anni.



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